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10HP – Mantide, 2020 | Recensione

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Fresco fresco di pubblicazione il nuovo disco dei 10 HP che personalmente ricordo da quel 62° Festival di Sanremo e della loro partecipazione tra i giovani di quell’edizione. Il nuovo disco è Mantide, nuova (anzi vecchia) concezione di scrittura, di modi ormai perduti nella memoria e rimpiazzati dalle più istantanee soluzioni digitali.

Un disco analogico come piace pensarlo a me, di un trio trasparente, sincero e coerente, un suono di basso, chitarra e batteria, fatto di 10 canzoni davvero acqua e sapone, di carattere forte e deciso, di strutture pulite ma anche di gustosi fuori pista che sottolineo con piacere.

Mantide è un lavoro che parla di viaggio nella misura in cui questo sia un viaggio personale, nel proprio io, canzoni di emancipazione personale e di denuncia sociale (tra le righe). Ed è per questa ragione, forse, che non mi stupisce trovare una scrittura poliedrica che, se per gran parte dell’ascolto si attiene a stilemi classici del bel pop italiano, dall’altro spesso si fa liberò di “contrattempi”, cambi di direzione e inaspettate varianze.

Se quindi il trio gioca la sua forza nella forma canzone che attinge a piene mani a quel rock d’autore degli anni ’70, anche complice questa voce corale che spesso ci porta in tutto l’ascolto del brano (e qui sono immediati i richiami alle grandi band dell’era dell’Acquario italiano), dall’altra ci regala scritture come Hai già venduto l’anima? o Sotto una luce nuova dove la direzione quasi quasi strizza l’occhio timidamente ai Decibel degli anni ’80 o comunque ad un’arroganza pop dai colori accesi e figlia (anzi nipotina) di quel tanto celebrato punk inglese.

Addirittura il discorso diventa sfacciato e ingestibile per certi versi se ci addentrassimo nella descrizione di “Nella stanza di Chiara” dove l’incomunicabilità della protagonista con il mondo esteriore è riflesso perfettamente nella confusione di una stanza così come nel suono che danza nevroticamente dentro cambi di direzione e dinamiche che rasentano il progressive.

Disturbante forse quei contrattempi sottolineati dalla sezione di drumming nell’inciso, ma questa è e vuol restare una percezione del tutto personale. Forse il singolo title track del disco è l’unico vero momento rock di tutto l’ascolto e lasciatemi sottolineare il suo video di lancio, anch’esso figlio degli anni ’90: trovo nostalgica ed emozionante la citazione di Ritorno al Futuro che la clip di regala sul finale.

I 10 HP pubblicano un album che non cerca la rivoluzione ma solo la personalità con un suono e una scrittura che mette a nudo i suoi limiti ma anche i suoi punti di forza. Un lavoro che non cerca la competizione ma soltanto l’esistenza. Che dovrebbe essere poi lo scopo ultimo di ogni artista. (Alessandro Riva)

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