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LIVE REVIEW: JOHN MAYALL A ROMA

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ROMA, 27.06.2011 – AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA

Di anni ne compirà 78 il prossimo 29 novembre, John Mayall da Macclesfield (sobborgo industriale di Manchester), un’autentica leggenda del Blues bianco britannico, musicista che ha tenuto a battesimo nei suoi Bluesbreakers – fucina autentica di sperimentalismo musicale – talenti del calibro di Eric Clapton, Mick Taylor, Peter Green, Jack Bruce, Mick Fleetwood, John McVie, Ainsley Dunbar e Larry Taylor. Il chitarrista-armonicista ha fatto da anello di congiunzione (e di transizione) sulla scena inglese tra il Blues Revival degli anni cinquanta ed il rock-blues degli anni sessanta. Ad una età in cui molti si godono una serena pensione Mayall ha ancora energie da spendere per portare in giro per l’Europa la sua musica con indomita passione, immutata gioia di suonare e l’indubbia autorevolezza che gli deriva dalla costante presenza sulla scena da oltre una cinquantina d’anni a questa parte. Della ‘Blues Invasion’ inglese dei ’60 John è senz’altro capofila al fianco di Alexis Korner al punto che non è usurpato l’appellativo appioppatogli di “Padrino del Blues inglese”. Proveniente da una famiglia appartenente alla classe operaia, figlio di un appassionato di musica jazz, John sviluppava subito una grande passione per il blues. Ed è bello rileggere le sue parole su come si sia avvicinato all’ascolto della musica (per i più giovani tra i lettori potrà sembrare fantarcheologia): «Negli anni ’40 gli LP non esistevano ancora e io iniziavo a collezionare i miei primi 78 giri. In Francia vi erano molte stazioni radio dedicate al jazz e al blues, mentre l’unico modo che avevamo noi in Inghilterra era sintonizzarsi sulle onde corte con quelle emittenti. Il fatto di tenermi aggiornato in questo modo, facendo la conoscenza delle radici del blues, è stato un fatto importantissimo per la mia educazione musicale. Ricordo poi quando nei primi anni ’60 ho avuto la fortuna di incontrare i miei eroi, John Lee Hooker e Sonny Boy Williamson, Muddy Waters J.B. Lenoir, Buddy Guy, T-Bone Walker. Io li consideravo degli dei, poterli incontrarli di persona è stato l’episodio più importante della mia vita di musicista. Guardandoli suonare da vicino ho imparato la dinamica e la struttura del blues e ho capito che anche un inglese di pelle bianca poteva suonarlo con autenticità». Così è approdato lo scorso 27 giugno nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica (qualsiasi ordine di poste consente una confortevole visione dell’evento) nell’ambito della interessante e corposa rassegna messa in cartellone sotto la sigla di ‘Luglio Suona Bene’. Assistito da un power trio di buoni strumentisti, composto dal chitarrista texano Rocky Athas, dal bassista Greg Rzab e dal corpulento batterista Jay Davenport – una sezione ritmica non eccelsa ma funzionali alla causa, e un po’ debole nel basso -, Mayall canta, suona la tastiera e l’armonica, mai la chitarra. L’apertura è affidata a quello che oramai è un classico e un capolavoro, “Another Man (Done Gone)”, che faceva parte di quel leggendario album del ’66, “The Bluesbreakers with Eric Clapton”, seguito da un altro gioiello di allora “All Your Love” (di Willie Dixon e Otis Rush), e più avanti ancora da “Parchman Farm” (di Mose Allison, un magnifico jump blues di Louis Jordan). John presenta i brani che va ad eseguire con la sua band con impeccabile stile britannico, soffermandosi su alcuni curiosi particolari, e snocciola uno dietro l’altro gli altri brani della setlist, in parte tratti dai suoi dischi più recenti: “Movin’ Out and Movin’ On”, la bellissima cavalcata elettrica “Mail Order Misfits”, “Tough Times Ahead”, “I’m A Sucker For Love”, “Early in the Morning”, “Nothing To Do With Love”, “California” (tratto da “Turning Point” del ‘69), “Have You Heard About My Baby” e infine “Maydell” come unico – un po’ frettoloso – bis. Mayall, lunghi capelli bianchi, si lascia andare a lunghi assolo di armonica, la voce – sempre tagliente – è un poco meno virulenta di una volta, comunque efficace. Il Blues – lo vado ribadendo da tempo – è musica una musica viscerale che si può suonare senza essere necessariamente condizionati da ciò che si deve mostrare sul palcoscenico, l’energia che coinvolge gli spettatori fluisce (ed è sufficientemente intrigante) proprio da quel classico giro di 12-battute-12. È un genere che proprio nella sua essenzialità (che a tanti agnostici appare come ripetitiva), nell’apparente pacatezza, costituisce un insostituibile banco di prova per qualsiasi musicista (chitarra, basso, batteria, armonica) sia intenzionato a saggiare il proprio valore. Laddove vedere oggi qualsiasi ‘antico’ eroe del Rock saltellare sul palco con la presunzione di rievocare i fasti giovanili appare anacronistico, chi suona il blues può farlo con dignità e ‘presenza’ encomiabile fino a quando lucidità e forza lo sostengano. Non è l’apparenza esibizionistica della performance che conta ma la qualità intrinseca di quello che si suona. « È la musica che rende tutto più facile – dichiarava John tempo fa – la sostanza è sempre il blues, puro e semplice, condividerne le sensazioni migliori serve a farsi comprendere dalla gente. Il segreto sta nel rendere le cose il più semplici possibili, senza ricorrere a grandi apparecchiature». Avevo visto John Mayall dal vivo l’ultima vola nel novembre 2003, al Palacisalfa di Roma, nel corso del tour celebrativo del 70° compleanno, in un concerto assolutamente entusiasmante: energico, elegante, ricco di feeling, con al fianco la chitarra del mastodontico Buddy Whittington, puro blues tanto quanto il suo peso. Questa invece (novanta minuti circa di concerto) mi è parsa una esibizione sotto tono, abbastanza routinaria direi, cui ha nuociuto a mio parere la distanza dispersiva che separava (sull’enorme palco allestito nella Cavea) i musicisti dal pubblico, ed ha impedito loro di avere un contatto più ‘fisico’ con chi ascoltava, e dove il fatto di non aver mai imbracciato la chitarra ha certamente lasciato delusi molti dei fan di Mayall. (Luigi Lozzi)

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