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Pearl Jam – Backspacer (2009)

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Allora, la scena si presenta più o meno così: sono a cena da Daniele, amico che divide equamente il suo tempo libero tra la passione sfrenata per Lou Reed e la produzione di quiche. Per qualche strano motivo Lou non è della serata. Non manca invece, al centro della tavola, una splendida quiche lorraine. In sottofondo Tom Waits racconta di essersi perso nel culo del mondo. Ne prendiamo atto con una certa soddisfazione, mentre Daniele taglia la prima fetta. A quel punto, tra un morso e una chiacchiera sui massimi sistemi, si finisce come sempre a parlare di musica e allora gli chiedo cosa ne pensa di Backspacer, l’ultimo album dei Pearl Jam. Quello che mi ha risposto suona più o meno: “É un bellissimo disco inutile”. Così, secco, diretto, tranchant. Io ho accusato un po’ il colpo. Qui, però, bisogna fare un passo indietro. Io amo in maniera viscerale i Pearl Jam e la questione non è solo strettamente tecnica, come d’altronde succede sempre con la musica. È qualcosa che ha a che fare con il 1991 (anno di pubblicazione di Ten), con i miei sedici anni, con un walkman rosso e con la sensazione costante di essere in uno di quei meravigliosi pomeriggi di settembre prima che ricominci la scuola, anche se magari era inverno e faceva -15… Ma questa è un’altra storia, signori della giuria (giuro: mi sto alzando in piedi…). Analizziamo i fatti e partiamo dall’album in questione. Trovo che Backspacer sia un disco molto interessante, un lavoro in cui è evidente un cambio d’atmosfera rispetto almeno agli ultimi due lavori (Riot Act del 2002 e Pearl Jam del 2006). La fine dell’era Bush, e il conseguente cambio di amministrazione con Obama, sembra aver influenzato positivamente le dinamiche compositive del gruppo che, negli ultimi anni, aveva apertamente osteggiato la politica dell’ex presidente. L’album, infatti, si presenta più “leggero”, veloce (11 pezzi in circa 37 minuti!) e diretto, e la voglia di suonare viene urlata fin da subito in Gonna see my friend, graffiante pezzo d’apertura in cui esplodono le chitarre e, quasi, le corde vocali di Eddie Vedder. Stesso DNA hanno pezzi come The Fixer (primo singolo dell’album) e Supersonic, canzoni che sembrano concepite con il chiaro intento di essere suonate dal vivo e dare modo alla band di esprimere a pieno la sua innata e oramai proverbiale attitudine live. I riff sparati di queste canzoni lasciano spazio, poi, anche ad altri episodi più strutturati come Johnny guitar, tra i pezzi più interessanti dell’album e Amongst the Waves, in cui la voce (qui più morbida) di Eddie Vedder prepara l’ingresso prepotente delle chitarre e dell’assolo di un ispirato Mike Mc Cready. Ma è su due pezzi in particolare, The End e Just Breathe (musica e parole di Eddie Vedder) che credo, signori della giuria, sia utile soffermarsi. Chiedo che siano aggiunte al resto delle prove in modo che confortino quanto detto fino a ora, anche se, per una serie di motivi che ora andremo a chiarire, queste due straordinarie canzoni possono anche rafforzare la tesi dell’accusa (“un bellissimo disco inut…” non ci riesco: mi si inceppa la lingua e l’anima). Mi spiego meglio. In entrambi i pezzi, accompagnata dagli arpeggi morbidi della chitarra e dalla leggerezza degli archi, a farla da padrone assoluto è la voce splendida di Eddie Vedder, che riesce a toccare, sopratutto in The End, vette interpretative incredibili. Il leader dei Pearl Jam, credo che a oggi possa essere considerato a tutti gli effetti una sorta di moderno “crooner”, tanto da far diventare indimenticabile, se la cantasse, anche la posologia della Tachipirina! Eppure la bellezza e l’intimità struggente di queste due perle sembrano creare un empasse, tracciando un solco netto che le separa dalle pure ottime prove dei pezzi che abbiamo precedentemente citato. In pratica la loro eccezionalità rende evidente come all’interno della band di Seattle oggi sembrino convivere ormai due anime. Da una parte c’è il gruppo con la sua energia che, per quanto grande, a volte rischia di apparire un po’ prevedibile. Dall’altra troviamo Eddie Vedder, che dopo l’ottima prova solista di Into the wild, sembra aver raggiunto una nuova consapevolezza e una maturità compositiva che lo avvicinano al miglior cantautorato americano (non a caso Just Breathe è una reprise, con l’aggiunta del testo, di Tuolumne, pezzo presente solo in versione strumentale nella colonna sonora del film diretto da Sean Penn). La sensazione è che queste due anime, queste due entità compositive, non sempre sembrino integrarsi perfettamente, anche se rimango dell’idea che Backspacer sia un ottimo disco, da ascoltare tutto d’un fiato e regalandosi delle apnee emotive durante i suoi momenti più riusciti. Con questo, signori della giuria, chiudo la mia arringa, convinto che questo rappresenti un capitolo estremamente interessante, ma di passaggio, nella discografia del gruppo, prima di nuove e ci si augura di nuovo indimenticabili prove come quelle degli esordi. Nell’attesa, prenderei un’altra fetta di quiche lorraine. S’il vous plait… (Marco Tudisco)

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