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Mogwai – Hardcore Will Never Die, But You Will (2011)

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Li avevamo lasciati con un sorriso di soddisfazione sulle labbra per il precedente The Hawk is Howling, asciutto, paradigmatico, potente e perfetto: espressione felice di coerenza ed incrollabile fede che no, il perimetro del post-rock, così come ci siamo abituati a chiamarlo, non fosse troppo angusto e soffocante. E così, oggi, all’uscita del nuovo aggiornamento sulla lezione Mogwai, ci stavamo domandando se avremmo di nuovo assistito alla (per gli ultimi tempi) consueta “professione di fede”. Si e no, direi. I nostri sono sempre stati parchi di novità, diciamo: e quando non lo sono stati forse sarebbe stato meglio che lo fossero stati. Questo nuovo album, dal titolo meravigliosamente cinico, si inserisce nel consueto filone ben conosciuto ma, comunque, piazza qualche colpo che, se non fa strabuzzare gli occhi, quantomeno porta a stropicciarseli, chiedendosi se siano effettivamente loro. Accanto alle usuali, pachidermiche distese di note lunghe e dilaniate o ovattate (a seconda dei casi) quali White noise, Death Rays, Letters to the metro o Too raging to cheers (quest’ultima veramente magnifica), apprezziamo corroboranti dosi di freschezza. Penso soprattutto alla melodia di tastiera e flauto (forse campionato, non posseggo le note di copertina, non ancora) soffusa, ovattata, gentile, che sovrasta le chitarre d’acciaio di Rano Pano o le voci, sempre filtrate ma con melodie decisamente più pop del solito, che animano Mexican gran prix e George square thatcher death party, le quali si appoggiano su mid tempos agili e più “lievi” del solito, dando vita a due episodi decisamente riusciti. Per non parlare degli agili groove di San Pedro e How to be a werewolf, che sembrano fatte apposta per guidare su una autostrada lunga, col sole basso sull’orizzonte, perdendo i propri riferimenti e lasciandosi portare, cullati, dall’istinto e dalle note. E poi, detto fra noi, senza farsi sentire dagli esegeti della novità a tutti i costi, finché i nostri scriveranno qualcosa come gli otto minuti e passa della conclusiva You’re Lionel Richie (con uno spoken in italiano!) noi non potremo che, deferenti, ringraziare sentitamente. Ergo: genuflessi, per l’ennesima volta. Serve altro? (Valerio Granieri)


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