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Grupo Salvaje: intervista + recensione In Black We Trust (2004)

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Fuori dal tempo, lontano dalle mode e ricolmo di quella stessa passione che anima la mia esistenza, In Black We Trust – album che segna il debutto dei madrileni Grupo Salvaje – lascia trasparire quel “vecchio e caro spirito rock” di cui avevo perso le tracce. Un condensato d’intimità, di eleganza, di mistero e di nobiltà d’animo che riflette il nero della solitudine e del silenzio; una miscela di coscienza e di intuizione che brandisce le capacità primordiali di un autentico gruppo selvaggio (chiaro il riferimento a The Wild Bunch di Sam Peckinpah del 1969). Un’opera che mette insieme Dio ed Elvis e dove confluiscono, con lucidità e sentimento, una gran quantità di sensazioni come l’amore, il dolore e la disperazione. Canzoni semplici, dolci e amare, oscure e sensuali, che si alimentano tanto di Leonard Cohen quanto dei Lambchop e che in alcuni passaggi sembrano celebrare il miglior Bob Dylan (How to make God come). L’elemento che distingue e condiziona gran parte delle composizioni di questo lavoro è la voce di Ernesto González, riflessiva, profonda e piacevolmente mutevole; meno oscura di Mark Lanegan (The survivor), più vigorosa di Kurt Wagner (Watercolour summer) e in certi momenti quasi come quella di Lou Reed(Oh! My dear) . Ad affiancare il cantante spagnolo – che suona altresì chitarra e armonica – ci sono Carlos Perino (batteria, percussioni e cori), Javier Rincón (banjo), Oscar Feito (chitarra elettrica e mandolino) e Pepe Hernández (chitarra elettrica e slide) con il coinvolgimento saltuario di Abel Hernández (piano, organo), validi musicisti e al tempo stesso squisiti compagni di avventura. In Black We Trust è un disco dal taglio classico, anacronistico, ma pieno di frammenti che bucano la pelle, un coacervo di eccitazioni che si estendono attraverso i delicati rimandi country/soul di A christian family e di Watercolour summer, le penombre di Oh! My Dear e il fascino di Sorrynonews e di Elvis, love us! (con espressioni, manco a dirlo, alla Elvis Presley). Un catalogo di emozioni che coniuga la solennità del folk rock (How to make God come) con la dolcezza del pop (Roses & Despair). Un esordio fluido e avvolgente sostenuto dalla malinconia di Desheredada (track strumentale che richiama alla mente i Black Heart Procession) e dalla quiete di The survivor, brano conclusivo dalle aperture narcotiche e cinematografiche. Con l’immagine di Elvis in copertina e con il nome di Joe Strummer trascritto in un angolo del booklet, la formazione spagnola sfoggia conoscenza e personalità tramite nove episodi che si tingono di nero; quello stesso “colore” che Johnny Cash fece proprio come risposta alle ingiustizie che affliggono il mondo. (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione e intervista realizzate nel 2004 ma pubblicate su ML – n. 9 del 18 maggio 2005


Gruppo Salvaje – The Band in Black
©2004 – Intervista di Luca D’Ambrosio
Grupo Salvaje, ovvero la dimostrazione di come oggi [1] – a cinquant’anni dalla nascita del rock’n’roll – si possa essere “alternativi” partendo semplicemente da Elvis Presley, tirando dritto per la strada maestra, passando per Leonard Cohen e Bob Dylan, fino a lambire quei territori tanto cari a Kurt Wagner e a Mark Lanegan. Un viaggio vivo e pulsante che inizia a Madrid e che vede coinvolti cinque personaggi abbagliati dall’America dei perdenti, quella cantata da Johnny Cash e raffigurata da Sam Peckinpah. Non a caso due sono i riferimenti della formazione madrilena: il titolo dell’album, “In Black We Trust”, e il nome della band, Grupo Salvaje, tratto dal film The Wild Bunch. Un percorso musicale che si srotola tra le pieghe magiche del country/soul e le tiepide oscurità di un rock classico e moderato; equilibri armonici che mescolano torpore e stralunata malinconia. Una band che si “colora” di nero, simbolo di intimità e di silenzio, di nobiltà e di eleganza, ma che spesso diventa immagine di dolore e di malvagità. Con l’uscita di “In Black We Trust” (2004), abbiamo fatto due chiacchiere con Ernesto González, voce e chitarra della formazione spagnola.

Ernesto, quale disco porti nel cuore?
Nessun disco, ma una canzone, “Ghost Town” degli Specials.

Cosa stai ascoltando ultimamente?
Una cosa passata da un po’, “Cuckooland” di Robert Wyatt.

“In Black We Trust” sembra uscito da quell’America che noi tutti amiamo. Come si arriva a fare un disco così intenso e così autentico?
Non lo sappiamo, suppongo che sia stato l’amore di cui parli. Amiamo la musica americana e la cultura rock’n’roll, ed è molto difficile capire per noi dove finisca l’America che amiamo e dove inizi quella che “odiamo”, anche perché in quella che amiamo c’è comunque molta merda. Prima del Grupo Salvaje avevo un’altra band, The Privata Idaho. “Spain is Pain” è il titolo del loro ultimo album. Quel sentimento è ancora vivo nel Grupo Salvaje.

Pensi che il rock sia ormai una cultura universale e non più strettamente americana o inglese?
Sì, certo!

Una cultura per pochi fortunati o per pochi sfigati?
Per pochi fortunati. Siamo persone fortunate per il fatto che siamo (tu e noi) pronti ad assaporare il rock’n’roll. Gli altri sono sfortunati, non noi, tu sai…

Spassoso il video di “Elvis, Love Us!”. Vi sentite proprio come lui?
No. Ci interessa il suo modo di cantare e di esibirsi. Ci interessa capire come sia diventato un mito… la sua vita, la sua morte, questo ci interessa di lui, nient’altro!

Le vostre canzoni parlano di dolore, di amore, di religione e di inquietudine. Cose apparentemente semplici e comuni. Argomenti che, in fin dei conti, appartengono a tutta l’umanità…
Vero. Argomenti che, purtroppo, sembrano comuni a tutti noi. Diciamo purtroppo, perché se la gente pensasse un po’ di più a queste cose non ci sarebbero guerre o religioni. Comunque ciò che vorremmo provocassero i testi delle nostre canzoni sono reazioni politiche e sociali, come fece il rock‘n’roll negli anni ‘60 e ‘70. Oggi il rock non è più in grado di cambiare la società. E la colpa è delle persone coinvolte soltanto nel business.

Il nome del gruppo e il titolo dell’album sono dei chiari riferimenti alla tua formazione culturale. Non vi sentite fuori moda?
Sì, certo. Siamo completamente fuori moda. Solo David Bowie è in grado di seguire la moda e fare cose interessanti quando si parla di rock. Il nome del gruppo, come saprai, è un omaggio a Sam Peckinpah e ai personaggi di “The Wild Bunch” del 1969: Pike Bishop, Angel, Mapache… Probabilmente il western più bello che sia stato mai girato. Un tempo aprivamo le nostre performance con il primo sermone del predicatore, sai quando la banda di Pike arriva al villaggio dove avverrà lo scontro…

Quando si è formata la band?
Si è formata nel 2001, ma non chiedermi la data esatta.

La formazione è sempre stata la stessa?
La formazione è sempre la stessa, anche se al Fib del 2004, il Festival Internacional de Benicassim, con noi c’erano Gonzalo Incàn all’organo e al piano e Abel Hernandez dei Migala alla chitarra e alle tastiere. Non sappiamo però se Gonzalo e Abel entreranno a far parte della band. Tocca a loro decidere.

So che non è facile da spiegare, ma cosa occorre per scrivere una canzone?
Molto difficile da spiegare, già… Beh, servono una chitarra acustica a 12 corde, un pezzo di carta e una parte d’amore. Sì, perché se non abbiamo amore non abbiamo nulla. Credo che l’amore sia la cosa più importante della vita. Possiamo vivere senza genitori, senza soldi, senza casa, ma senza amore non si vive.

Vi vedremo in Italia?
Non sarà facile. Nella primavera del 2003 avevamo in programma tre date nel vostro Paese, ma alla fine non ci è stato possibile venire, perché lavoriamo tutti dal lunedì al venerdì…

Nel vostro cassetto ci sono altre canzoni?
Sì. Penso che il prossimo disco uscirà nel 2005. Inoltre vorremmo registrare un mini album di cover.

[1] Recensione e intervista realizzate nel 2004 ma pubblicate su ML – n. 9 del 18 maggio 2005


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