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(Ri)visti in TV: Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni (1950)


Milano: un ricco industriale sospetta che la moglie Paola gli sia infedele e, quindi, incarica un investigatore privato che faccia luce sul passato della donna. Recatosi a Ferrara, il detective risale a Guido, il primo grande amore di Paola, che, informato da una comune amica delle indagini sul suo conto, decide di rivederla. I due sembrano spiazzati, non sanno come comportarsi perché sono consapevoli che se l’inchiesta dovesse proseguire, potrebbe portare a galla spiacevoli episodi della loro vita passata e in particolare la verità sull’incidente in cui morì la fidanzata di Guido (era caduta nella tromba dell’ascensore senza che né Paola né Guido facessero nulla per salvarla). La rinnovata frequentazione riaccende l’amore nella coppia anche se fra i due esiste un enorme divario sociale: la donna è moglie di un uomo molto ricco, l’uomo, al contrario, si affanna nella precarietà essendo sempre alla ricerca di un lavoro stabile che gli dia sicurezza. Durante l’incontro in uno squallido alberghetto di periferia, progettano un piano criminale: uccideranno il marito di Paola per impadronirsi delle sue ricchezze. L’agguato viene organizzato e preparato su un ponte del naviglio al di fuori della città di Milano ma non va a buon fine dal momento che l’industriale, turbato dalle foto di Paola che gli erano state mostrate dall’investigatore, si va a schiantare con la sua auto. La precedente morte dell’amica, voluta ma non commessa, aveva unito i due amanti in una sorta di omertosa, silente e lunghissima complicità, al contrario, quella del marito di Paola, seppur anch’essa voluta ma non commessa, li separa, invece, per sempre: il taxi che porta alla stazione Guido segna il definitivo distacco finale. Dopo aver realizzato una lunga serie di cortometraggi-documentari (tra i più riusciti possono annoverarsi Gente del Po, N.U. – Nettezza urbana e L’amorosa menzogna) finalmente Michelangelo Antonioni mette in scena con l’aiuto della Villani Film (il rapporto con i produttori sarà sempre travagliato) il suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore (1950), con cui si intravedono i segni della rivoluzione estetica (tra le più significative della storia del cinema) che troverà il suo pieno compimento con i film della “tetralogia esistenziale” degli anni ‘60 del novecento. L’autore ferrarese, infatti, sottolinea la volontà di segnare un distacco totale dal neorealismo imperante (nel cui ambiente aveva mosso i primi passi cinematografici) avvalendosi in maniera sempre più formalizzata e astratta della de-drammatizzazione dell’intreccio, del racconto per ellissi e lunghe digressioni e del ricorso sintomatico ai “tempi morti”. La MDP indugia sui personaggi e, in particolare, sugli ambienti che – siano quelli lussuosi in cui vive Paola con il marito e gli amici, siano quelli degli interni della stanza d’albergo oppure le vuote strade notturne o il desolato paesaggio dell’Idroscalo milanese – probabilmente per la prima volta, acquistano un denso valore simbolico, “comunicando” un senso di disagio che è percezione dell’inutilità dell’agire e del vuoto emotivo. Per il cinema italiano degli anni ‘50, impregnato di neorealismo e, dunque, proteso alla concretezza dell’esplorazione sociologica, inorridito alla sola idea che un film potesse concedersi pause svagate e digressioni non funzionali al contesto narrativo, lo stupore o, per meglio dire, lo sconcerto fu enorme. L’opera di Antonioni assunse, pertanto, nel suo sperimentalismo ancora imperfetto, i contorni di una provocazione: uno pseudo noir in cui l’indagine poliziesca non era narrativamente compatta e plausibile come il “genere” avrebbe reclamato che “divaga” letteralmente in uno studio sulla inconcludenza della borghesia di cui è messa a nudo l’impasse emozionale. Il regista ferrarese, al contempo, inventa un linguaggio cinematografico, a suo avviso funzionale alla nuova e originale impostazione tematica: la cura della composizione figurativa delle inquadrature con la scelta di tonalità in chiaro-scuro, la rarefazione del commento musicale tradizionale (insinuante è il tema jazzato di Giovanni Fusco) e, soprattutto, una serie di raffinatissimi piani-sequenza (d’una bellezza mozzafiato quello sul ponte del naviglio) in cui la macchina da presa con raggelata lentezza accarezza le figure e insegue lo spazio cercando una fluida profondità del campo visivo e rifiutando i ritmi stretti del montaggio. Il seme del cambiamento estetico era ormai stato piantato: l’analisi sull’imprevedibilità della vita, l’ambiguità dei sentimenti e, principalmente, sull’inconoscibilità della realtà aveva trovato il suo più fedele inquieto indagatore. (Nicola Pice)



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