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Recensione: Flor de Mal – S.T. (1991)


L’alba degli anni Novanta fu il sole nascente della musica indipendente catanese. Si era appena placata la tempesta dei Denovo e dei Boppin’ Kids e veniva fuori un mondo nuovo, pieno di entusiasmo e iniziative. Gli Uzeda di Agostino Tilotta, Checco Virlinzi e la sua Cyclope, i Quartered Shadows di un promettente Cesare Basile, il Taxi Driver, l’Experia, il McIntosh (discoteca di tendenza dove i Flor de Mal “passavano” già prima ancora che uscisse il loro disco), i Flor de Mal e, sotto di loro, un fiume in piena che teneva a galla tutto, anche i rottami e lo sfascio di una città che voleva cambiare volto e che, di colpo, si ritrovò puntati addosso gli occhi di tutto il mondo. La Seattle d’Italia, venne chiamata. Poi, ci venne tolta anche quella. Dagli Afterhours, molto probabilmente. Ma adesso non ricordo. Ricordo soltanto che siamo abituati a farci togliere tutto, dai tempi dei Borboni in avanti. E così, raschiamo ricordi. E diventiamo più vecchi ma anche più belli. Ai Flor de Mal verrà strappato presto anche il nome, rivendicato da una quasi omonima band di cui ormai nessuno ricorda il passaggio su questa terra. Ma allora, quando presentarono in anteprima (dieci giorni prima del Natale del 1990) il loro disco di debutto, erano anche loro belli. E giovani. E spavaldi. E fieri. E ubriachi.

Flor De Mal, il disco che inaugura la parabola artistica del trio catanese e quello della Cyclope Records, rimane ancora oggi un lavoro di sublime spessore. Un album che abbraccia l’America, allungando le sue braccia dalla spinosa Sicilia. È l’alternative rock di scuola americana messo ad asciugare al sole che non perdona della Piana di Catania. Sgombra da ogni nuvola new wave, la musica dei Flor de Mal tornava a un suono arioso e sanguigno che, a dispetto di un’essenzialità severa (basso, batteria, chitarra acustica), si rivelava sia in studio ma soprattutto dal vivo, una miscela esplosiva. I misurati inserti di armonica e scacciapensieri (a opera di Virlinzi) e l’uso del fonema inglese che verrà poi abbandonata in favore dell’italiano sono quella sutura indispensabile per saldare la pelle siciliana di Cunsolo e soci a quella statunitense. Un’operazione chirurgica che in canzoni come Color Of The Mind, F.K., Just For You, Country Song, We’re Artists, On, A New Day con i loro sottili rimandi a Pixies, R.E.M., Camper Van Beethoven, Replacements rasenta, sfiora e alfine tocca la perfezione, rinnegandola. Giorni fantastici, quei giorni che sporgemmo la testa dall’utero di Cariddi e ci trovammo davanti l’America. (Franco Dimauro)


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