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Recensione: Clear Light – S.T. (1967)


Chissà come sarebbe andata la loro storia se non avessero deciso di insubordinarsi alle ferree regole imposte da Paul A. Rothchild, il produttore divenuto famoso per essere l’uomo dietro la macchina discografica dei Doors e di Janis Joplin piuttosto che di altre magie californiane del periodo. Chissà se sarebbero usciti dallo status di cult band cui sono stati relegati nelle enciclopedie rock o da quella di one shot band cui sono finiti dentro l’omonimo bel libro di Paolo Gresta pubblicato proprio a ridosso di questa attenta ristampa da parte della Big Beat. Sarebbero diventati un’ordinata folk band? Una rivoltosa gang di profeti hard-rock? Una blanda formazione di ordinario rock blues? Chi può dirlo.

Tutto ciò che di loro ci resta musicalmente, oltre al primato di essere stata la prima band ad esibirsi con due batteristi in scena, al fatto di avere in formazione Douglas Lubahn (ovvero il “quinto Doors”) e Ralph Schuckett (poi negli Utopia di Todd Rundgren) e di aver suonato come band fantasma su Head dei Monkees, è chiuso qui dentro, compresa la She’s Ready to Be Free con cui fecero una comparsata sul film The President’s Analyst con un baffuto Barry McGuire al comando. All’epoca dividono il palco con tutti, da Tim Buckley ai Buffalo Springfield, dai Creedence, da Bo Diddley ai Chambers Brothers, dagli Electric Flag ai Pink Floyd, dai Kaleidoscope ai Flamin’ Groovies, dai Blue Cheer ai Grateful Dead ma il concerto più memorabile, quello che paradossalmente dà loro clamore, lo fanno tutto da soli, sul palco dello Scene East di New York, nel luglio del 1967.

Il pubblico è lì a intossicarsi di cocktail e marijuana e Ralph Shuckett ammonisce la folla per la loro disattenzione fastidiosa e borghese. Il giorno dopo i Clear Light sono la band più chiacchierata della città, preparando il terreno per l’album (e relativo singolo) che verrà pubblicato a ottobre. Sulla copertina la lineup si allarga a dismisura ma solo per correggere in qualche modo la foto di copertina erroneamente usata dalla Elektra pescandola dall’archivio senza tener conto dei cambi di assetto che il gruppo californiano ha avuto negli ultimi mesi. Il disco è figlio del suo tempo, vagamente imparentato col rock acido di Seeds e Doors, sia per l’uso della tastiera che per il registro melodrammatico scelto da Cliff DeYoung per tratteggiare piccoli ritratti come quelli di Street Singer o Mr. Blue ma sconfina anche nei territori cari a Love e Moby Grape (A Child’s Smile, con Van Dyke Parks all’harspichord, They Who Have Nothing, How Many Days Have Passed). Al disco, che è già in sé una piccola gemma neopsichedelica, si aggiungono adesso degli inediti assoluti, altrettanto pregevoli. Come i bellissimi intrecci folk rock di Dawn Lights the Way e Eastern Valleys, che meritavano una ricompensa. La vostra. (Franco Dimauro)


MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 15 Marzo 2016

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