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(Ri)visti in TV: Nodo alla gola di Alfred Hitchcock (1948)


Ispirati alle teorie del superomismo nietzschiano che hanno ascoltato dal professor Rupert Cadell, un loro docente, due giovani omosessuali newyorkesi, Shaw e Phillip, strangolano nell’appartamento di un grattacielo con una corda il loro compagno di università David e lo nascondono in una cassapanca. Per rendere ancora più eccitante il delitto, crudele quanto del tutto gratuito, decidono di invitare per un cocktail serale il professore e alcuni parenti della vittima divertendosi a parlare del compagno morto, del suo immotivato ritardo e in un contraddittorio con Cadell, suscitando la riprovazione degli altri invitati, delle teorie sul delitto (i più forti devono sopraffare/uccidere i più deboli). Il professore, però, che ha intuito ciò che è accaduto, approfittando dell’uscita del padre di David, che si è recato alla polizia, apre la cassapanca e alla vista del cadavere ha un moto d’orrore nella consapevolezza di essersi reso indirettamente colpevole della morte del ragazzo. Phillip, nel frattempo, ferisce con una pistola Cadell mentre s’ode fuoricampo la sirena di un’auto della polizia.

Alfred Hitchcock gira Nodo alla gola, conosciuto in Italia anche come Cocktail per un cadavere (The rope è il titolo in lingua originale), in un mese, con la consueta velocità e una decina di giorni (appena) di prove alle spalle: dal 22 gennaio al 21 febbraio del 1948. Dopo due cortometraggi e ben dieci lungometraggi “made in Hollywood” (siamo ormai da tempo nel periodo americano), il regista londinese trae ispirazione da “Rope’s end” – un testo teatrale di Patrick Hamilton, sceneggiato dallo scrittore Arthur Laurents con l’aiuto di Hume Cronyn e Ben Hecht – per mettere in scena una delle sue più grandi ossessioni: realizzare un film di una sola inquadratura. Dall’alto di una inarrivabile maestria “tecnica” Hitchcock vince la sfida con uno scaltro artificio: gira l’opera “simulando” un’unica inquadratura ininterrotta ma divide, in realtà, gli ottanta minuti del film in otto lunghi piani-sequenza di dieci minuti ciascuno – i cosiddetti “ten minutes takes”, la durata equivalente del rullo più grande caricabile in una macchina da presa (una bobina di 300 metri di pellicola) – i cui stacchi vengono mascherati dai “neri” (fondali) dietro le spalle dei protagonisti e dietro la cassapanca.

Quindi ogni cambiamento di inquadratura si verifica in “coincidenza” dell’oscuramento creato dagli oggetti e dai personaggi posti davanti all’obiettivo al momento giusto in modo che i tagli – la saldatura della pellicola fra una bobina e l’altra – risultino invisibili conferendo all’inquadratura la parvenza di un piano continuo. Sul pavimento, nel frattempo, erano stati tracciati tutti i movimenti (una trentina all’incirca) che l’operatore avrebbe dovuto seguire con la camera-dolly avendo come punto di riferimento i numeri progressivamente indicati mentre tutt’intorno il set veniva continuamente modificato dalla troupe con la rotazione delle scenografie, lo scorrere dei mobili, la sparizione delle pareti. “Nodo alla gola”, per questi motivi, assume l’aspetto di un esperimento raffinato e subdolo che, svelata la finzione sulle modalità impiegate per la sua realizzazione, in maniera obbligata (ci) interroga sul senso del cinema e della “visione” su cui il cinema stesso si fonda. Ed è paradossale che a porgere questa domanda utilizzando la struttura ottica del piano-sequenza (che lavora sulla continuità dell’immagine per fornire una visione la più aderente possibile alla realtà) sia proprio colui che ha elevato il montaggio a forma d’arte, la tecnica, al contrario, con il grado più alto di arbitraria astrazione e frammentazione.

In verità Hitchcock (che nella celebre intervista con Truffaut dichiarò di non essere molto soddisfatto dell’esperimento con cui gli sembrava avesse rinnegato il principio stesso del montaggio) non vuole contrapporre i due linguaggi in un match sterile fra artificiale e naturale – essendo consapevole che il (suo) cinema è mistificazione – ma, al contrario, dall’unione fra il piano-sequenza e il dècoupage (montaggio invisibile che sembra un solo piano) intende piegare le forme espressive ai suoi “desiderata” narrativi per creare, novello demiurgo, la continuità totale, raccontata in tempo reale, di un omicidio a sangue freddo che precede un cocktail fra amici. Il flusso continuo degli otto piani-sequenza impercettibilmente legati fra loro ha, dunque, lo scopo di moltiplicare al massimo nello spettatore la sensazione di paura così come il movimento continuo della macchina da presa nelle stanze dell’appartamento serve ad accrescere la tensione emotiva provocata dall’attesa che si sveli il mistero della scomparsa/morte di David e si smascherino i due colpevoli. Pertanto, “Nodo alla gola” – come di consueto nelle opere del regista inglese, ricchissimo di rimandi cinematografici e temi etici (la stanza del grattacielo newyorkese costituisce la metafora ricorrente di un mondo in cui si contrappongono senza sosta il bene e il male) – sembra essere al contempo il film più radicale e teorico di Hitchcock che ne fa una sorta di manifesto del suo cinema in cui ogni elemento estetico e narrativo deve essere funzionale ai meccanismi della “suspense” per suscitare ansie, tensioni e paure in una vorticosa girandola di suggestioni. (Nicola Pice)


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