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Recensione: Brunori Sas – A casa tutto bene (2017)

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I dischi continuano ad arrivarmi per posta. Elettronica, ma pur sempre per posta. Nudi come lumache che hanno perso il guscio, sono diventati bit persi nel cyberspazio. Canzoni poco consistenti le definisce Dario Brunori, in uno dei pezzi più belli di questo suo nuovo disco che poco contiene del Brunori che conosciamo. Una mutazione di approccio, di ispirazioni, di stesura che ha messo in naftalina il “vecchio cantautore” chiamato anni fa a raccogliere il testimone di Rino Gaetano e che ce ne presenta uno quasi sconosciuto. Un nuovo “taglio” evidente già nella scelta di affrancarsi aritmeticamente e graficamente dai volumi sin qui pubblicati, sacrificando quel gusto casalingo e provinciale dei suoi tre album precedenti.

Il nuovo guardaroba del cantautore calabrese è forse meno semplice da indossare, se non ricercato di certo più elaborato, rifinito, artificioso. Quasi un “anni Ottanta” del Brunori. Uno Scacchi e Tarocchi. Un Viaggi Organizzati. Il suo Vado, prendo l’America… e torno!, il suo Italiani Mambo. L’occhio miope di Dario si lancia stavolta al di là dello specchio, per cantarci del fallimento dei quarantenni di oggi, i figli di quella generazione che doveva rivoltare il mondo come un calzino e che invece sono rimasti senza rivoluzione, con i calzini spaiati e, spesso, senza più genitori. Soli, spiazzati e sperduti davanti all’unica rivoluzione che hanno ereditato, ma stavolta, a sorpresa, dalla generazione successiva: la rivoluzione tecnologica che non sanno manovrare se non diventando la cassa di risonanza del luogo comune, della paura condivisa, del riadattamento dei vecchi deterrenti dell’uomo nero e del lupo cattivo e prigionieri dei vecchi adagi sul “Piove, governo ladro” e del “Si stava meglio quando si stava peggio”.

Una generazione che ha seppellito l’ascia di guerra e si è accomodata davanti al laptop, a parlare di sovversione su un social network, svenduta al benessere e già dipinta sarcasmo alla mano sul Mambo Reazionario di tre anni fa. La generazione che fa il viaggio di Santiago in taxi. E da Lamezia Terme a Milano in auto propria, affidando la propria avventura a Google Maps e le foto ricordo a Facebook. Sono canzoni oblique, quantunque ambiziose. Canzoni che non ti danno la mano. Canzoni come L’Uomo nero, Don Abbondio, La vita liquida.

Canzoni un poco strambe come Il costume da torero e a volte ricurve e piovose come Diego e io, che è un po’ la sua La Donna Cannone. Canzoni che cantano l’amore. Perché, come dice Brunori su Canzone contro la paura, “alle fine, dai, di che altro vuoi parlare?” ora che abbiamo perso tutti i denti e ci limitiamo a stringere le labbra per farci un altro selfie, sperando qualcuno legga il biglietto che abbiamo affidato alle onde dentro una bottiglia di vino coi solfiti, dimenticandoci di scriverci sopra. (Franco Dimauro)

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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 21 Gennaio 2017

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