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Jonathan Wilson – Fanfare – 2013 (full album stream)

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Dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo: dal folk alla psichedelia, passando addirittura per il progressive rock, genere che, a voler essere sincero, non ho mai digerito con tanta facilità e che, invece, in questo terzo album di Jonathan Wilson risulta decisamente gradevole e ammaliante. Dicevo: dentro Fanfare ci sono un sacco di cose che amo. C’è l’Inghilterra di Bill Fay, come pure il ricordo di John Martyn e George Harrison, ma soprattutto c’è l’America del Rock, quella cantata e sognata da Neil Young e dai Byrds, giusto per fare qualche nome, le cui ombre si allungano un po’ ovunque in questo nuovo lavoro del cantautore di Forest City (North Carolina). Un meraviglioso caleidoscopio di emozioni dove, in alcuni passaggi, mi è sembrato di ascoltare persino il fantasma di un altro Wilson, quello del bellissimo Pacific Ocean Blue. Collaborano al disco Jackson Browne, David Crosby, Mike Campbell, Graham Nash, Josh Tillman e molti altri ancora. E io mi sento a casa. (Luca D’Ambrosio)



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Billy Bragg – Tooth & Nail, 2013 (full album stream)

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Il “ragazzo col ciuffo” è tornato ed è sempre un piacere ascoltarlo, soprattutto quando realizza dischi di una bellezza cristallina come Tooth & Nail. Dodici ballate da far venire i brividi lungo la schiena (“Goodbye, Goodbye” su tutte). Dodici canzoni che vanno dritte al cuore, compresa una cover di Woody Guthrie (“I Ain’t Got No Home”). In cabina di regia c’è Joe Henry, mentre Billy Bragg suona e canta come se fosse un musicista country rock. Lo fa alla grande e con trasporto. Quanto basta per annoverare quest’ultima fatica del menestrello inglese nella lista dei miei dischi preferiti del 2013. Con buona pace dell’hipster postmoderno. (Luca D’Ambrosio)



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Kacey Johansing – Grand Ghosts (2013)

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Dopo aver debuttato nel 2010 con Many Seasons, Kacey Johansing torna con un altro delizioso album intitolato Grand Ghosts. Pubblicato lo scorso 26 febbraio, il nuovo lavoro discografico della cantautrice americana – originaria del Colorado ma residente a San Francisco (California) – si rivela, fin dal primo ascolto, estremamente piacevole. Un folk pop elegante, raffinato, ben arrangiato e mai sopra le righe, con la voce di Kacey a farla da padrone: eterea, carezzevole e a tratti persino graffiante. Grand Ghosts è un disco senza fronzoli che si lascia ascoltare tranquillamente dalla prima all’ultima traccia. Ed è proprio per questo motivo che vi consiglio di ascoltarlo in streaming integrale via SoundCloud. Buon ascolto e mi raccomando, fate attenzione a non innamoravi… (Luca D’Ambrosio)


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Pillole quotidiane: quattro film da salvare

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Anche oggi, come spesso accade da diversi anni a questa parte, sono andato in uno dei negozi dell’usato della mia città. Entro, saluto la commessa e mi dirigo immediatamente verso il “reparto vinili”, se così si può chiamare, visto che i dischi rimasti sono ammucchiati incredibilmente uno sopra l’altro come se fossero dei piatti da lavare. “Che tristezza”, penso. Ciononostante sposto il primo album, il secondo, il terzo e così via, fino a quando mi accorgo che non c’è nulla di nuovo (e in buone condizioni) che possa interessarmi. Allora faccio un passo indietro e rivolgo lo sguardo verso il “reparto film”, ovvero un’enorme cesta posizionata sotto un bancone di legno su cui sono sistemati una quantità abnorme di suppellettili. Mi faccio il segno della croce, mi abbasso e mi introduco lentamente nel “reparto” evitando di dare una capocciata al bordo superiore del tavolo. Giunto in prossimità della cesta inizio, velocemente, l’attività di “rovistatore”. Nel frattempo, però, una micro zanzara ha provveduto a pungermi sul capo perfettamente glabro. “Maledetta!”, sussurro. Passano soltanto pochi secondi e già sento un lieve bruciore in prossimità della tempia destra. Mi vien voglia di grattarmi ma desisto e, imperterrito, continuo a frugare nel grosso contenitore. “Questo no, questo sì, questo mah…” Nel frattempo inizia a mancarmi il respiro; sotto quel bancone c’è così tanta polvere da restarci secco. Ancora un po’ e anch’io rischio di diventare parte integrante della chincaglieria del negozio. Faccio l’ultimo sforzo e vado avanti, cercando di non far crollare l’intero e precario ambaradan che mi sovrasta. “Ecco fatto!”, esclamo. Le conseguenze dell’amore, L’uomo delle stelle, Mediterraneo e Smoke, sono questi i film in DVD che, ancora sigillati, decido di mettere in salvo. Con non poche difficoltà indietreggio a testa bassa, con le gambe piegate e in punta di piedi. Dopo un paio di metri finalmente mi alzo e tiro un sospiro di sollievo. Tutto attorno a me sembra ancora perfettamente intatto. Allora mi incammino verso la cassa, pago la modica cifra di 4 euro ed esco dal negozio decisamente appagato. A volte basta poco per sentirsi bene.

Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino (2004)

L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore (1995)

Smoke di Wayne Wang (1995)

Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991)



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I Blur a Roma (29.07.2013)

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Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree si presentano sul palco di Rock in Roma con evidente ritardo: sono infatti passate da poco le dieci e ancora nessuna traccia dei magnifici quattro. Il pubblico dell’Ippodromo delle Capannelle – affollato come non si era mai visto in questi giorni di festival – è visibilmente impaziente, complice anche un’afa davvero insopportabile. E proprio quando l’agitazione sembra che stia travalicando il limite, ecco che i Blur fanno il loro ingresso con Girl & Boys che fa esplodere in un boato assordante spalti e platee, e tutti, improvvisamente, si scrollano di dosso il peso della calura e delle lunghe ore di attesa. Albarn è in uno stato di forma eccellente: canta, saltella e rinfresca le prime file gettando loro l’acqua contenuta nelle bottigliette messe a disposizione del gruppo inglese. Di lì a poco è l’inizio dell’estasi: una vera bolgia di piacere fatta di cori e suoni al fulmicotone che, subito dopo, prosegue con Popscene fino a raggiungere l’apice con Parklife. C’è feeling. C’è follia. C’è voglia di divertimento. C’è un grande pubblico composto da giovani e meno giovani, ma soprattutto c’è una grande band questa sera a Roma. Senz’ombra di dubbio una delle migliori formazioni della storia del pop inglese. Quattro personaggi che dal vivo hanno saputo mettere in evidenza un’attitudine punk figlia di quell’Inghilterra audace, ribelle, stravagante e trasgressiva che ben conosciamo. Ecco perché sono i Blur i migliori eredi della scena pop rock britannica di questi ultimi vent’anni. Lo hanno dimostrato con un’ora e mezza abbondante di concerto in cui non hanno mai abbassato la tensione. Lo hanno fatto divertendosi e facendoci divertire, fino a far deflagrare l’Ippodromo delle Capannelle con Song 2, canzone nota anche ai profani che chiude meravigliosamente e in maniera pirotecnica, almeno per chi scrive, questa edizione di Rock in Roma 2013. God save the Blur.

Qui l’intera setlist del concerto del 29.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.



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I Sigur Rós a Roma (28.07.2013)

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Nonostante certuni continuino a considerare i Sigur Rós come un gruppo “noioso”, “soporifero” o “lagnoso” (spesso sulla base soltanto di qualche ascolto random), ogni live della formazione islandese si rivela sempre uno spettacolo coinvolgente ed emozionante, come pochi se ne vedono in giro. Ne è l’ennesima conferma l’esibizione tenutasi ieri a Rock in Roma 2013. Circa due ore di show che hanno ipnotizzato il pubblico dell’Ippodromo delle Capannelle gremito al di sopra di ogni (nostra) aspettativa. Un concerto catartico e dall’impatto sonoro “devastante” dove Jónsi & soci (oramai senza neanche Kjartan Sveinsson) hanno eseguito parte dei brani dell’ultimo lavoro in studio (Kveikur) ma anche alcune delle loro canzoni memorabili come Olsen Olsen e Hoppípolla. Al resto, invece, ci hanno pensato le suggestive proiezioni video e una splendida quanto semplice scenografia fatta di lampadine, accese, messe sull’estremità di un’asta e sistemate qua e là sul palco. Insomma, anche questa volta, con la complicità di fiati e archi, i Sigur Rós hanno dimostrato di essere una vera e propria band da palco capace di dar vita a un concerto incantevole e allo tempo stesso dilaniante.

Qui l’intera setlist del concerto del 28.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.

Setlist – qui



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Neil Young & Crazy Horse a Roma (26.07.2013)

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Diciamoci subito la verità: non capita spesso di andare a vedere un concerto rock, così travolgente ed emozionante, come quello che Neil Young e i Crazy Horse hanno tenuto ieri seri a Roma, soprattutto se consideriamo che siamo nel 2013, ovvero in piena tracimazione “indie”, e che i quattro (Young, Talbot, Molina e Sampedro) hanno una media di ben 68 anni. Sì, avete letto bene: 68 anni!

Ragion per cui ci rechiamo all’Ippodromo delle Capannelle un po’ frastornati, con un sentimento abbastanza combattuto e persino una domanda nella testa: “Come saremo noi alle soglie dei settant’anni?” Mah! Lasciamo perdere… Arriviamo in largo anticipo e, nonostante le chiacchiere e qualche birra, lo sguardo è quasi sempre rivolto sulle lancette dell’orologio. Fa caldo, anzi, caldissimo. L’attesa è lunga e ci piace immaginare il “giovane” Neil sulla spiaggia di Ostia che guarda il mare in perfetta solitudine. Ci rendiamo conto, però, che la fantasia ci ha preso d’assalto, a tal punto da farci dimenticare che ad aprire il live del cantautore canadese ci sarà nientemeno che Devendra Banhart.

Un Devendra che si presenta con i capelli corti e la barba sfoltita e che dà vita, per tre quarti d’ora, a uno show elettrico, piacevole e impeccabile, ma forse – e ribadiamo forse – non proprio adeguato a una platea come quella di Rock in Roma. Il talento c’è tutto, il pubblico apprezza e si diverte, ma si percepisce immediatamente che, questa sera, sono tutti qui solo per ascoltare quella voce inconfondibile che viene dall’America del Nord e per essere travolti da quell’onda sonora fatta di folk, psichedelia, noise e tanta ma tanta poesia. E con Love and Only Love succede proprio così: bastano i primi accordi e la folla va subito in visibilio. È un vortice di chitarre distorte e un Neil Young, vestito di nero, che canta e suona da Dio. Il cuore batte forte. La gente lo acclama canzone dopo canzone, da Powderfinger a Hole in the Sky che introduce la meravigliosa Red Sun, passando per Heart of Gold, Singer Without a Song e addirittura una cover di Bob Dylan (una Blowin’ in The Wind suonata e cantata meglio di Mr. Zimmerman), brani che sembrano concedere un po’ di respiro alla serata.

Terminata la parte folk e acustica, si torna a cavalcare sulle note di Ramada Inn e Sedan Delivery sospinte dall’energia e dall’entusiasmo di una formazione sempre puntuale, quantunque non estremamente virtuosa; del resto il rock che piace a noi non ha bisogno di virtuosismi, ma semplicemente di cuore. Quello stesso impulso e quegli stessi sentimenti che animano Surfer Joe and Moe the Sleaze e Rockin’ in the Free World (quest’ultima cantata a squarcigola dagli spettatori) che assieme a Cortez the Killer e Cinnamon Girl suggellano definitivamente, dopo circa due ore, l’esibizione di questi “grandi vecchi del rock”, mentre da lontano scorgiamo uno striscione con su scritto: “Every morning comes the sun” (verso estrapolato da Ramada Inn). Ecco, potrebbe essere proprio questo il leitmotiv con il quale torniamo a casa sereni e decisamente appagati. (Redazione Musicletter.it)

Qui l’intera setlist del concerto del 26.07 a Rock in Roma 2013.

Qui, invece, le foto.

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Gli Atoms for Peace a Roma (16.07.2013)

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Quello degli Atoms for Peace a Rock in Roma 2013 è stato un concerto dai suoni potenti, ipnotici e tribali capace di mescolare rock ed elettronica come pochi altri finora sono riusciti a fare. E pensandoci bene non poteva essere altrimenti visto che a far parte della superband ci sono personaggi come Flea, Mauro Refosco, Nigel Godrich, Joey Waronker e Thom Yorke, musicisti dal talento e dalle qualità inequivocabili che non hanno affatto disatteso il pubblico romano accorso numeroso all’Ippodromo delle Capannelle. Un’esibizione intensa e allo stesso tempo emozionante iniziata sulle note di Before Your Very Eyes e proseguita con Default, The Clock e Ingenue che, nel giro di venti minuti circa, mettono subito in chiaro uno stato di forma eccellente, con particolare attenzione a Yorke (canottiera e codino) e Flea (torso nudo e “pantaloncini”, se così si possono chiamare) che non smettono un solo minuto di agitarsi. È una performance catartica e travolgente, con la voce magnetica del leader degli Atoms for Peace che si rivela il “collante” perfetto di un muro sonoro in grado di fondere i Radiohead (quelli sperimentali, per intenderci) con l’Africa di Fela Kuti o, meglio ancora, con l’afrobeat: una specie di “tribalismo tecnologico” che, oltre a rapire il cuore, riesce anche a far dimenare i sederi; non a caso, infatti, Thom Yorke e soci hanno deciso di far aprire i propri concerti dagli Owiny Sigoma Band, gruppo londinese/keniota che coniuga magnificamente elettronica e musica africana. Insomma, quello di Roma è stato un live che non ha mai perso di intensità e pathos, nonostante un imprevisto tecnico che ha indotto la band ad abbandonare il palco per una decina di minuti; per poi riappropriarsene “alla grande” con Skip Divided, Paperbag Writer e Amok (giusto per citarne alcune), fino a chiudere la bella serata capitolina con Black Swan, sotto un cielo stellato e con un pubblico visibilmente soddisfatto.

Setlist – qui



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Cat Power a Roma (08.07.2013)

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Cat Power sale sul palco della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma con circa un’ora e mezza di ritardo dopo che un acquazzone nel pomeriggio aveva provocato non pochi problemi all’organizzazione dell’evento, facendo così slittare il soundcheck oltre le 21. Ad aprire il live della musicista e cantante americana c’è il bravo Scott Matthew che, solo soletto, intorno alle 22, intrattiene gli spettatori romani con alcune deliziose cover tratte dal suo ultimo album intitolato Unlearned. Il pubblico è abbastanza numeroso e tra i presenti si scorgono persino Nanni Moretti e Asia Argento. Il primo, lo incontriamo seduto al bar con un trench verde mentre aspetta l’apertura dei cancelli; la seconda, invece, la intravediamo in prima fila che chiacchiera divertita con degli amici subito dopo l’esibizione della nostra indie woman preferita. Esibizione che prende il via con The Greatest e che trova subito l’entusiasmo dei partecipanti, ma che nel giro di un’ora viene sospesa dalla stessa Charlyn Marie Marshall (così all’anagrafe) che dice di avvertire un rumore di fondo insopportabile. Un suono che le spezza il cuore, precisamente. È impaziente: fuma, canta e sembra anche soffrire di un dolore alla gamba. Improvvisamente, però, sbotta e abbandona la scena. Il pubblico si divide: c’è chi l’acclama e chi si innervosisce. Noi, invece, che la “conosciamo bene” e che l’amiamo così com’è, restiamo in trepidante attesa, anche se – a voler esser sinceri – dalla galleria non abbiamo avvertito alcun suono fastidioso. Trascorrono quindici minuti, forse anche venti, e la cantautrice americana torna sul palcoscenico fumando e cercando di controllare, in prima persona, ogni singolo strumento e ogni singola apparecchiatura in funzione. Lo fa mentre canta alcuni brani del suo ultimo lavoro in studio, Sun, e tentando di scusarsi con il pubblico. Tuttavia, il concerto va avanti così, oltre la mezzanotte, quasi in maniera delirante e improvvisato. Non c’è più nulla da fare: questa è Cat Power. O la si ama incondizionatamente o la si odia. Noi abbiamo deciso di amarla, non solo per il suo talento, ma anche per la sua anima fragile e indocile.



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The National a Roma (01.07.2013)

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I National oramai sono una certezza. Un crescendo di personalità e talento che va confermandosi album dopo album, a partire dall’omonimo esordio del 2001 fino all’ultimo acclamato Trouble Will Find Me (2013), disco che è riuscito a mettere d’accordo un po’ tutti, persino quella parte di pubblico e di critica specializzata che fino a qualche tempo fa nutriva ancora qualche dubbio nei confronti della formazione americana. Del resto, con quest’ultima fatica, Matt Berninger e soci sembrano quasi essersi sdoganati dal quel concetto strettamente “indie rock” a cui molti gruppi oggigiorno sembrano essere legati. Sarà forse perché i National, pur suonando in maniera originale, alternativa e del tutto attuale, riescono a racchiudere quel misto di fervore e dannazione che ricorda tanto Johnny Cash quanto Ian Curtis: due personaggi oscuri ed enigmatici che sembrano guidare Berninger in questo percorso musicale che unisce, in maniera decisamente trasversale, l’America con l’Inghilterra, il folk con la new wave. E la conferma di questa nostra sensazione la si ha immediatamente in questa fresca serata di fine giugno presso un’affollata Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove la band statunitense si esibisce al gran completo e persino con una sezione fiati. La gente è impaziente e non vede l’ora di ascoltarli dal vivo. Ad attenderli ci sono anche quelli come noi che così giovani, almeno esteriormente, non lo sono più. In ogni caso, l’attesa è breve: si parte subito con Squalor Victoria ed è subito ovazione. Seguono I Should Live In Salt, Don’t Swallow The Cap fino ad arrivare a Sea Of Love, momento in cui Berninger si avvicina al sottopalco richiamando l’attenzione dei sostenitori più infervorati e facendo saltare l’ordine delle prime file. Non c’è dubbio: è delirio. Ecco quindi che l’esibizione prende anima e calore mentre sullo sfondo del palco vengono trasmesse delle splendide “video installazioni”. È la volta poi di I Need My Girl e Sorrow che sono così belle da straziarti il cuore, a differenza di Abel e Graceless che riescono, invece, a infiammare gli animi dei presenti, con il frontman dei National che di lì a poco scenderà a cantare giù in platea con non poche difficoltà per i tecnici. È uno spettacolo entusiasmante, con i due chitarristi, Bryce e Aaron Dessner, quest’ultimo alle prese anche con le tastiere, che incitano e coinvolgono i partecipanti, mentre Scott e Bryan Devendorf, rispettivamente basso e batteria, non perdono un solo colpo. Fake Empire, infine, chiude la prima parte dell’esibizione, ma saranno Heavenfaced, Humiliation, Mr. November, Terrible Love e una versione acustica di Vanderlyle Crybaby Geeks, cantata all’unisono con il pubblico, a spegnere le luci di questa indimenticabile domenica d’estate. Due ore di musica rock. E scusateci se questa volta abbiamo deciso di togliere di mezzo l’aggettivo “indie”.



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