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Samamidon – Intervista (2008)

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Musicista, cantante, disegnatore, videomaker e persino attore in American Wake di Maureen Foley, Sam Amidon (originario del Vermont) è senza dubbio uno dei personaggi più interessanti e geniali che la scena indie folk abbia potuto partorire in questi ultimi anni. Scoperto per caso, grazie alla solita e infinita magnanimità elargita da internet, il giovane americano realizza il suo terzo o meglio secondo lavoro a nome Samamidon. Uscito ufficialmente a febbraio 2008 per la Bedroom Community, “All is Well” è un’incantevole raccolta di brani estrapolati dalla tradizione a stelle e strisce. La dimostrazione che, a volte, essere figli d’arte e ricevere delle buone educazioni musicali (vedi il progetto The Amidons dei genitori di Sam) possono aiutare…

Prima di arrivare alla realizzazione di questo secondo album a nome Samamidon, ho letto che hai avuto diverse collaborazioni e progetti. Il tuo percorso di musicista e songwriter è iniziato abbastanza presto…
Cantavo coi miei genitori sin da bambino, sono musicisti folk … ma più che altro suonavo il violino, non ho mai veramente cantato prima di arrivare a New York. Ho suonato una tonnellata di brani irlandesi al violino ma ascoltavo free jazz e altre cose in quel periodo. Col mio amico Gabe pensavamo che il free jazz e il vecchio folk erano simili perché erano suonati entrambi da gente che non aveva alcuna idea di come si suonasse la musica! Ascoltavamo i rumori dissonanti provocati da violini e banjo nella musica popolare e i pazzi rumori al sax di Albert Ayler e pensavamo fosse un gioco, uno scherzo. Quella era la nostra opinione all’epoca, eravamo dentro quei generi di musica perché pensavamo fosse molto divertente, qualcosa per ridere. Quindi ascoltavamo sempre più musica di quel tipo e col tempo abbiamo realizzato che quei musicisti erano grandi. Penso che se si trova divertente un tipo di musica questo è un primo passo legittimo per essere apprezzati, credo che sia una cosa provocata dallo sconforto.

In passato hai avuto anche un ruolo di attore (American Wake di Maureen Foley). Anche tu, allo stesso modo di Will Oldham, hai preferito percorrere le strade secondarie e intimiste di certa musica indipendente, lontano dalle luci della ribalta?
Non penso molto a quella roba, credo sia più una questione di dove certe circostanze ti conducano. Ho trovato questo mondo di musica indipendente, con un sacco di gente fantastica, buone opportunità per suonare e sostegno per una grande varietà di suoni e modi di presentare quello che fai e ciò è grandioso.

“All is Well” è un piccolo capolavoro di modernità folk in cui interpreti, magicamente, dieci brani tradizionali come se fossero stati composti da te. Canzoni cantante e arrangiate meravigliosamente come se appartenessero da sempre al tuo repertorio musicale. Sam, considerando che sei cresciuto in una famiglia di musicisti innamorati di musica popolare, quanto hanno influito mamma e papà nella tua crescita e maturazione artistica?
Grazie! I miei genitori sono dei grandi musicisti – mia madre è una cantante favolosa e una grande suonatrice di banjo, lei mi ha insegnato a suonarlo, inoltre è una persona creativa e una cantante meravigliosa. Mio padre è anche lui un grande musicista e un ascoltatore e arrangiatore molto intelligente; mi ha insegnato ad ascoltare la musica – tipo ascoltiamo Bob Dylan “World Gone Wrong” e lui dice “ragazzi quella chitarra è così espressiva”. Io penso, “che strano modo di ascoltare Dylan con la chitarra, Bob sembra stia solo strimpellando come gli altri”. Inoltre mi ha dato Bitches Brew di Miles Davis che lui improvvisa sul piano a meraviglia.

Pensi che una buona educazione musicale possa essere anche il fondamento di una società migliore, civilmente e culturalmente?
Questo è il caso dei miei genitori. Fanno musica per i bambini ed è interessante perché non pensano che sono dei bambini ma solo che stanno facendo della buona musica e credono che i bambini risponderanno positivamente. Quando ero piccolo mio padre mi metteva a letto cantando lunghe ballate violente su assassini, violent murder ballads (così nella risposta ndr.)

Ascoltando “All Is Well” è facile a primo impatto ritrovare nella tua musica i riferimenti dell’alt. country che vanno da Bonnie Prince Billy a Jason Molina. Però, scendendo in profondità, nell’album c’è qualcosa di più etereo e trasognante alla maniera di Nick Drake…
Bello!

Un album ben arrangiato che racchiude una sopita e sana modernità, apparentemente classico ma che classico in realtà non è… Come nascono simili lavori?
È nato semplicemente lavorando con Valgeir & Nico Muhly, siamo diventati amici e io sono stato in Islanda dove ho buttato giù le mie canzoni, loro hanno aggiunto qualcosa e poi io ho messo altre cose a New York (Eyvind Kang il mio eroe con la viola, Aaron Siegel e mio fratello Stefan alle percussioni), ecco quello che avevamo! Chi metteva la musica non ascoltava cosa facevano gli altri, io non ho nemmeno sentito cosa ha fatto Nico (le trombe e le chitarre) fino a quando sono andato in Islanda a mixare il disco!

A mio avviso Saro è uno dei passaggi più toccanti del disco, bello anche il video…
Grazie! È una storia triste.

Per capire meglio chi è Sam Amidon, ti va di dire ai nostri lettori quali sono i tuoi ascolti, le tue letture e i tuoi film preferiti di questi ultimi mesi o di sempre?
Credo che la musica sia bella da ascoltare, i libri da leggere e i film da vedere. Mi piacciono i film che ha fatto Charles Burnett, “Killer of Sheep” “Nightjohn” e “The Blue Sheid”. Poi quest’anno sono ossessionato da Buster Keaton, quei film sono cinetici, surreali e spesso nichilisti. Non ho ascoltato molta musica recentemente ma mi piace molto R. Kelly. Al momento è il migliore. Leggo quello che Thomas Bartlet, cioè Doveman, mi dice di leggere. E’ il mio insegnante di pensiero.

Cosa ci riserverà nel futuro prossimo Sam Amidon?
Viaggio e suono dove capita e forse uno di questi giorni disegno un altro fumetto sull’uomo in barca, se la smetto di essere svogliato!

Sai, ti ho scoperto girovagando qua e là su internet. È una novità per te?
Una volta ho trovato una cosa stupenda su internet.

Il bello di internet è che puoi fare, ascoltare e scegliere quello che vuoi senza alcun compromesso. Non trovi meraviglioso tutto questo? Finalmente una democrazia che davvero parte dal basso e con il passaparola, basta avere un computer …
Sì! E sono sicuramente contento che delle belle persone come Luca mi mandino una mail ogni tanto!

Ah, dimenticavo: come devo datarlo “All is Well”, 2007 oppure 2008? Sai, per gente “malata” come me è importante, nel caso fosse 2008 potrei già candidarlo nella mia top 10 dell’anno!
Ufficialmente solo qualche giorno fa, quindi, diciamo il 2008!

Grazie e buona fortuna.
Grazie mille Luca!

ML – UPDATE N. 51 (2008-02-29)

foto by Shana Novak


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Luca D'Ambrosio musica

Sam Amidon – I See The Sign (2010)

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Sam Amidon (qualche volta anche Samamidon tutto attaccato) prosegue la sua riscoperta dei brani tradizionali come già era accaduto con il precedente All is Well che così tanto ci aveva entusiasmato così tanto giusto qualche anno fa. Un album, quello del 2008, che il folksinger americano aveva interpretato e suonato magnificamente grazie anche al supporto di un gruppo di amici/musicisti davvero eccezionali tra cui Ben Frost e Nico Muhly a cui oggi, però, bisogna aggiungere il talentuoso multistrumentista Shahzad Ismaily (che vanta collaborazioni con Lou Reed, Laurie Anderson, Tom Waits, Bonnie “Prince” Billy e Jolie Holland) e la ben più famosa – nonché brava – Beth Orton che per l’occasione duetta con Sam Amidon in ben quattro brani di I See The Sign. Un lavoro, quest’ultimo, che mette in luce la sensibilità di un personaggio che continua a scavare nel passato portando in superficie storie e ricordi dell’infanzia, ma anche amori travagliati e umane rassegnazioni attraverso un sottile equilibrio esistenziale fatto di canzoni come Way Go, Willy, You Better Mind, Johanna The Row-di e Rain and Snow. Un altro disco insomma che, eccezion fatta per Relief di Robert Sylvester Kelly, ricompone e riattualizza superbamente un folklore ormai dimenticato da cui vengono fuori passaggi di una bellezza cristallina quali Pretty Fair Damsel, Kedron e Climbing High Mountains da cui si leva ancora una volta la voce toccante, elegante e soave del nostro cantastorie. Un songwriter che si muove abilmente tra folk e dream pop, tra memoria e presente, tra angoscia e lievità, capace oltretutto di osare qualcosa in più; e quel qualcosa in più non sono altro che le lievi incursioni sperimentali inserite nell’iniziale How Come That Blood e nella conclusiva (e personale) Red che spingono un po’ più in là i confini di quest’ultima meraviglia registrata in Islanda al Greenhouse Studios. Gli arrangiamenti orchestrali di archi, ottoni e fiati sono affidati come al solito all’impareggiabile Nico Muhly mentre la produzione è, per la seconda volta consecutiva, di Valgeir Sigurðsson che pubblica con la sua Bedroom Community questa nuova fatica di Sam Amidon.[1] Un altro capolavoro di grazia e leggerezza da non farsi sfuggire assolutamente. Merce sempre più rara di questi tempi. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 70 del 31.03.2010



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Modest Mouse – We Were Dead Before The Ship Even Sank (2007)

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Con We Were Dead Before The Ship Even Sank torna l’indie rock sghembo e squinternato dei Modest Mouse. Un concentrato di schizofrenia, vitalità e puro sentimentalismo che non ha nulla da invidiare alle precedenti produzioni della band di Issaquah, Washington. Registrato tra Oxford (Mississippi) e Portland (Oregon), il quinto lavoro del “Topo Modesto”, nonostante il suo approccio apparentemente disordinato, mantiene a distanza di mesi tutta la sua isterica e ironica freschezza a partire dall’iniziale March Into The Sea dove Isaac Brock, voce e leader del gruppo, sembra colto da un improvviso attacco d’ira. Una tensione emotiva diffusa, che si percepisce in ogni singola traccia dell’album da cui zampillano passaggi esuberanti e pungenti come Dashboard, Florida e We’ve Got Everything e perle assolute, a tratti anche dai toni languidi, che prendono il nome di Fire It Up, Missed the Boat, Spitting Venom e Little Motel. Composizioni pop rock, vibranti e piene di smalto che trovano il coronamento negli arrangiamenti chitarristici dell’ex Smiths John Marr, nel supporto vocale di James Mercer degli Shins e in un Brock particolarmente ispirato (“Oh and we owned all the tools ourselves not the skills to make a shelf with / Oh what useless tools ourselves”). Per qualcuno We Were Dead Before The Ship Even Sank non sarà certamente l’opera migliore della formazione americana ma per chi scrive è, senza dubbio, quanto di più elettrizzante, provocatorio e travolgente sia uscito nel 2007.[1] (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 51 del 30.01.2008



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LCD Soundsystem – Sound Of Silver (2007)

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James Murphy, santone oramai incontrastabile di un certo revival anni ’70 e ’80, capace di far agitare i culetti anche ai meno avvezzi alle discoteche, attraverso un cocktail ben equilibrato di elettronica-punk-funk, lo avevamo lasciato giusto qualche anno fa con lo splendido e omonimo disco di esordio LCD Soundsystem (2005). Un lavoro che ci aveva affascinato soprattutto per quella originale e irresistibile chiave di rilettura dance rock con la quale il produttore-compositore newyorkese – dopo diverse compilation contrassegnate dalla sua DFA Records – ricalcava percorsi sonori cari a Talking Heads, Kraftwerk, Moroder, Human League, Brian Eno e via discorrendo. Un disco che, di lì a poco, avrebbe decretato l’inizio del successo del musicista/DJ americano portandolo dapprima alla realizzazione per conto della Nike di 45:33 (brano unico del 2006 disponibile solo su iTunes) e, successivamente, a questo straordinario Sound of Silver. Meraviglia del 2007 ben più levigata nei suoni e negli arrangiamenti ma con un appeal decisamente più coinvolgente e profondo, capace tanto di ipnotizzarci (Someone Great, All My Friends) quanto di trasportarci in sfrenatezze disco beat (Time To Get Away e Us v Them) mantenendo, tuttavia, quella sana carica esplosiva punk rock ravvisabile, in particolar modo, in brani come Watch The Tapes e North American Scum o nel groove di Get Innocuous. Chiude il disco New York, I love you but you’re bringing me down, vera e propria canzone rock (da far invidia al miglior Lou Reed) che suggella con un suono d’argento un altro capolavoro marchiato LCD Soundsystem. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 51 del 30.01.2008



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Luca D'Ambrosio musica

Moltheni – Intervista (2007)

Moltheni - Intervista (2007)
Dopo due lavori prettamente rock come “Natura In Replay” (1999) e “Fiducia Nel Nulla Migliore” (2001), realizzati per la Cyclope Records del grande Francesco Virlinzi, e una partecipazione al Festival di Sanremo nel 2000 con il brano “Nutriente”, la carriera di Umberto Giardini (alias Moltheni) è segnata improvvisamente dalla scomparsa dell’amico Francesco che decreterà anche la fine dell’etichetta catanese Cyclope Records. Così, dopo un lungo periodo di riflessione durato quattro anni, con in mezzo un album mai pubblicato (”Forma Mentis”), nel 2005 il cantautore, nato a Sant’ Elpidio a Mare, si rimette in gioco con “Splendore Terrore”, un disco indipendente che sancisce la sua maturità artistica attraverso composizioni intense ma allo stesso tempo scheletriche. L’anno successivo è la volta di “Toilette Memoria” (2006) che, invece, lascia trapelare una latente vivacità che nel 2007 si assottiglia notevolmente attraverso le note di “Io Non Sono Come Te”, mini fatica dai toni bucolici che mette in risalto il carattere di un compositore schivo, intimista e decisamente fuori dal coro…

Umberto, te la senti di riassumere in poche righe i momenti più significativi, belli e brutti che siano, della tua evoluzione artistica?
Il momento più bello è stato quando al mio esordio cercai il mio CD nei negozi e di fatto lo vidi… Ero felicissimo. Il momento più brutto invece è stato di sicuro quando è scomparso Francesco Virlinzi. Il vuoto lasciato da Francesco è rimasto incolmabile un po’ per tutti, anche per la discografia italiana in genere.

Quando nel 1991 comprai l’esordio dei Flor De Mal, uscito appunto per la Cyclope Records di Catania, mi resi subito conto che Francesco Virlinzi stavo osando qualcosa in più. Tu che l’hai conosciuto molto bene, cosa ha perso il nostro ambiente musicale con la sua scomparsa?
La realtà musicale italiana ha perso moltissimo con la scomparsa di Francesco Virlinzi, non solo per un discorso diplomatico che lo vedeva comunicare con le Major in maniera umana, riuscendo a farle ragionare, ma anche per quel grande buon gusto che dava la possibilità ai nuovi progetti di esprimersi come volevano, uscire cioè discograficamente solo ed esclusivamente per le proprie qualità.

Credo che non sia stato affatto facile ripartire da zero dopo la partecipazione al Festival di Sanremo nel 2000, un album (“Fiducia Nel Nulla Migliore”) registrato negli Stati Uniti e prodotto dall’ex produttore dei R.E.M. Jefferson Holte e, soprattutto, dopo la chiusura della Cyclope Records la cui distribuzione era curata dalla Sony BMG…
Sì è stato molto difficile, difficilissimo, ma superato l’ostacolo di liberarmi della BMG è stato tutto molto più semplice.

Successivamente ci fu anche la delusione di un tuo album (“Forma Mentis”) “snobbato”…
Sì, anche se delusione è un termine un po’ esagerato per descrivere il mio stato d’animo di quel periodo. Sapevo che le persone con cui stavo avendo un approccio di lavoro erano inaffidabili, pertanto la delusione è stata molto relativa.

Prima di parlare del tuo ultimo lavoro, “Io Non Sono Come Te”, recensito proprio su queste pagine nel numero precedente, vorrei parlare di “Splendore Terrore”, lavoro del 2005 che ha decretato innanzitutto il sodalizio tra La Tempesta dei Tre Allegri Ragazzi Morti e Moltheni. Come è avvenuto l’incontro con Davide Toffolo & Co. e quali sono state le prime cose che vi siete detti all’inizio della collaborazione?
L’approccio iniziale in realtà è stato con Enrico Molteni, durante un live dei Tortoise a Ferrara. È stato tutto molto genuino; ci siamo parlati e stretti la mano. Fu come una parola d’onore tra due persone serie e decise di lavorare insieme, tutto qua… Poche settimane dopo, si era già a buon punto, fino alla registrazione dell’album qualche mese dopo.

Ho letto da qualche parte che “Splendore Terrore” è stato pensato e realizzato in poco tempo. Sono convinto però che per fare un album così intenso, al di là dell’ispirazione, bisogna avere le idee ben chiare…
Può darsi, io le ho sempre molto chiare le cose in testa che debbo poi realizzare. È anche vero, però, che la grossa ispirazione che avevo in quei giorni ha fatto da buona consigliera, fu registrato tutto in brevissimo tempo.

Con “Splendore Terrore” esce fuori un Moltheni che si muove tranquillamente tra composizioni strumentali e canzoni evocative, piene di pathos e capaci di sintetizzare splendidamente le amarezze della vita…
Non lo so. A me appare tutto molto semplicemente naturale… È Moltheni

Poi “Splendore Terrore” è anche l’album che segna la tua maturità artistica e che toglie ogni dubbio a tutti coloro che ti hanno sempre paragonato a Manuel Agnelli…
Probabile, con “Splendore Terrore” mi sono sentito veramente io. Mi sono guardato allo specchio e mi sono finalmente riconosciuto. Per ciò che riguarda i paragoni, lasciano sempre il tempo che trovano, è anche vero che senza i paragoni molti giornalisti o addetti alla musica sarebbero persi e senza più riferimenti, quindi, tanto vale leggerli e riderci su.

Ascoltando “Toilette Memoria” ho avvertito invece una misurata e latente vivacità sia nelle ritmiche che nei testi. È solo la mia impressione?
No, è di fatto un album più luminoso; è anche vero però che nelle mie composizioni la luce e la giocosità di alcuni episodi, va vista e interpretata in un’ottica diversa rispetto ad album qualsiasi o a progetti pop. È la melanconia l’ingrediente che, in un modo o nell’altro, stende sempre un velo sottilissimo sopra le mie produzioni. È come una ragnatela invisibile che quando ci si avvicina, ci tocca, e qualcosa cambia.

Nell’album c’è anche un brano cantato da Franco Battiato. Come è nata la collaborazione e l’amicizia con l’artista siciliano?
L’amicizia con Franco è nata precedentemente alle registrazioni di “Toilette Memoria”, esisteva già. La collaborazione è nata dall’idea di far cantare il brano a una voce fortemente evocativa. Il brano era perfetto per lui. Franco ha accettato subito. È bastata una telefonata.

Cosa ci puoi raccontare a proposito della tuo ultimo lavoro “Io Non Sono Come Te”? Come è nato il disco, dove è stato registrato?
Non ho nulla da raccontare; sono una manciata di dolci canzoni che rilassano e, come spesso accade, fanno pensare alla vita. È stato registrato da Giacomo Fiorenza a Bologna e due brani da Gigi Galmozzi a Milano, il tutto poi mixato in Svezia da Kalle Gustafsson.

Con questo EP si scorge un Moltheni dai toni decisamente più bucolici. Credi che il prossimo seguirà questa strada oppure è arrivato il momento di tirare fuori dal cassetto “Forma Mentis”, casomai riveduto e corretto?
Che dire, non mi faccio mai molte domande sulla strada da percorrere per il futuro. So di certo che questa è la mia strada e non la lascerò per vendere più dischi o per una visibilità maggiore che snaturi Moltheni. “Forma Mentis” è un album mai pubblicato e tale rimarrà. Ogni cosa è figlia del suo tempo, e il tempo di questo lavoro è passato. Non si può morire e rinascere, purtroppo o per fortuna, non si può.

Oramai i tuoi arrangiamenti sono un marchio di fabbrica e la tua voce è riconoscibilissima…
Può darsi, il tempo a volte aiuta anche in questo…

Raggiungere una propria identità artistica non è così facile…
No, non lo è affatto. Bisogna essere se stessi nel tempo, ed essere convinti di quello che si fa. Forse bisogna anche un po’ piacersi…

Se “Toilette Memoria” e “Splendore Terrore” erano titoli abbastanza criptici “Io Non Sono Come Te” è, al contrario, una intestazione decisamente lapalissiana. Da cosa sono scaturiti i titoli di questi tre album?
Non lo so bene. I titoli che attribuisco ai miei lavori rispecchiano i miei stati d’animo, è come un nome che dai a un figlio/a, in quel momento fai quella scelta, spesso solamente estetica. Dubito che dietro i titoli degli album ci siano pensieri profondi.

Tu che hai avuto l’occasione di vivere e vedere da vicino sia il mondo delle multinazionali che quello delle etichette indipendenti, pensi che tutto sommato sia meglio stare dalla parte delle piccole label e accontentarsi di andare in giro a fare concerti in piccoli club?
Decisamente quello che ci si guadagna è tantissimo. È pur vero che però dipende da come è fatto ognuno di noi. Da un punto di vista etico, credo che uscire per un etichetta indipendente sia molto più gratificante, ma credo anche che ci siano alcune Major che possano comportarsi onestamente e professionalmente, il problema è trovarle e instaurare un buon rapporto di lavoro con loro. Questo è molto difficile, almeno qui nell’estremo sud del continente.

Sta cambiando qualcosa nell’industria discografica oppure siamo al collasso in quanto la situazione è oramai irreversibile?
Non me lo sono mai chiesto, di sicuro la discografia riflette la società. Quindi siamo vicini al capolinea.

Sei anche tu dalla parte di coloro che pensano, come i Radiohead, che a questo punto sia meglio mettere i propri i lavori in rete gratis o al massimo dietro sottoscrizione o libera offerta?
Sì.

Sappiamo benissimo che sei un grande esperto di musica rock. Quali dischi di questi ultimi anni non dovrebbero mancare nella nostra discografia?
Sono tantissimi i dischi che non dovrebbero mancare ad alcuni di noi. Dico alcuni di noi, poiché non tutti i dischi che considero fondamentali, vanno bene nel lettore di molti. Di certo ne posso citare 3:
– Stars of The Lid – “The Ballasted Orchestra”
– Elliott Smith – “XO”
– Tortoise – “Millions Now Living Will Never Die”

Ci mettiamo anche un album di Moltheni, almeno per quanto riguarda la sezione riservata alla musica italiana?
No, non mi interessa proprio.

C’è qualcosa che davvero non sopporti del genere umano e di questo mondo? Cosa invece salveresti di quest’epoca?
Salverei gli animali e la natura, non sopporto più la gente. lo ammetto.

Sei molto legato alle tue origini? Quanto hanno influito sulla tua crescita culturale e professionale?
No non hanno influito per niente, poiché non sono legato affatto alle mie origini.

Un’ultima curiosità: la farmacia da cui prendesti il nome esiste ancora?
No, chiuse circa 4 anni fa… Non esiste più.

ML – UPDATE N. 50 (2007-10 -30)

foto by Simone Cecchetti

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Luca D'Ambrosio musica video

Joanna Newsom – Roma, Circolo degli Artisti (23.09.2007)

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È una tiepida serata d’inizio autunno ed è anche la prima volta di Joanna Newsom a Roma. Ammetto di essere particolarmente eccitato come lo è del resto gran parte del pubblico che affolla il Circolo degli Artisti. Nonostante al mio ingresso i Moore Brothers abbiano smesso di suonare già da alcuni minuti, l’attesa è di quelle impazienti e tra gli spettatori serpeggia anche una evidente insofferenza per la temperatura, piuttosto elevata, all’interno del locale. Intanto c’è chi discute, chi ridacchia, chi sbuffa, chi fotografa, chi si asciuga il sudore sulla fronte e chi, invece, in religioso silenzio ha lo sguardo costantemente rivolto verso il palcoscenico. Insomma, una platea decisamente eterogenea: dal critico professionista al semplice appassionato passando, ovviamente, per i soliti alternativi di turno. Nel frattempo mi godo la vista di un palco illuminato di un tenue color arancione in cui troneggia nel bel mezzo, alla stregua di un grosso monolito, l’arpa della giovane Newsom; strumento a dir poco inconsueto per chi è abituato a frequentare raduni in cui svettano solitamente imperiose pile di amplificatori e improbabili chitarre elettriche. Sono da poco passate le 22:30 e quella tollerabile insofferenza improvvisamente viene spezzata dall’entrata in scena della giovane artista californiana. È lei! Graziosa più che mai, vestita di un intenso color rosso e un sorriso capace di far sciogliere l’intera calotta polare. Il pubblico applaude e lei si inchina porgendo un timido “Hello” mentre il resto della band, composta da una violinista, un chitarrista/mandolinista e un percussionista, prende posizione in ossequiosa tranquillità. Classe 1982, con all’attivo svariate collaborazioni con personaggi riconducibili alla cosiddetta scena pre-war folk quali Devendra Banhart e Vashti Bunyan, la ragazza prodigio dà immediatamente dimostrazione del suo smisurato talento artistico eseguendo una perfetta Bridges and balloons, brano tratto da The Milk-Eyed Mender del 2004, al termine del quale la platea, ancora attonita e stordita dall’esecuzione davvero impeccabile, esplode in una sincera ovazione. Joanna ringrazia, sorride e non esita a presentare i propri compagni di viaggio porgendo anche un saluto particolare ai “Fratelli Moore”, duo pop americano che ha aperto il concerto e di cui però non posso raccontarvi le gesta a causa del mio giustificato ritardo. Dopo aver sorseggiato dell’acqua, riparte con Emily e altre composizioni provenienti da Ys, capolavoro indiscusso datato appena 2006. L’entusiasmo, seppur contenuto, è a mille! Miss Newsom è ineccepibile sia nel canto che nel suonare l’arpa. Incantevole è infatti la sua espressività vocale come inappuntabile risulta essere la sua destrezza tecnica. Passione più attitudine insomma, e il risultato che ne consegue è un folk ancestrale, bucolico, da camera, suonato alla perfezione ma al contempo fresco e attuale soprattutto quando il canto dell’angelo californiano sembra accostarsi a quello straziante e vellutato di Billie Holiday e Bjork. Sawdust and diamonds e Monkey & Bear sono pezzi che prendono l’anima e le sue mani sembrano compiere continui giochi di prestigio. Poi tutto finisce. Il pubblico l’acclama. Allora lei torna per il bis, questa volta da sola, regalandoci qualche inedito e l’ultimo sorriso della serata. Eh sì, è proprio il caso di dirlo: un concerto da favola!

ML – UPDATE N. 49 (2007-10-25)

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Preston School Of Industry – Monsoon (2004)

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Iniziamo con l’unica e meno determinante delle osservazioni: titolo e immagine di copertina di questo secondo lavoro realizzato dai Preston School Of Industry dell’ex Pavement Scott Kannberg sono davvero poco rappresentativi delle atmosfere prodotte dalle sonorità del disco. Quindi, eccezion fatta per la copertina, possiamo affermare con estrema serenità che Monsoon è quanto di più gradevole e rincuorante possa esserci capitato di ascoltare in queste ultime settimane. Indie rock a stelle e strisce dove si può riscoprire il folk rock dei R.E.M. (Escalation breeds escalation), il sound collegiale dei Pixies o dei Pavement (Line it up) e certi passaggi alla Steve Wynn (The furnace sun). Un album “giovane”, a volte dai tratti impulsivi e malinconici (Walk Of A girl e So many ways) altre volte, invece, dai toni country (Caught In the rain) e dai riverberi sixties (Her estuary twang). Trentasette minuti di buona musica che vedono, tra l’altro, la partecipazione dei Wilco e di Scott McCaughey dei Minus Five. Dieci episodi che si lasciano ascoltare tranquillamente: dal pop rock disturbato di If the straits magellan should ever run dry alle cadenze visionarie di Get your crayons, fino ad arrivare allo spleen acustico e conclusivo di Tone it down. Canzoni di buona fattura, con splendidi arrangiamenti, anche se abbastanza distanti da quelle melodie che Scott aveva condiviso con l’ex compagno di avventure Stephen Malkmus. Insomma: un album piacevolissimo e di facile ascolto, ma che sa già di sentito. Avete presente The Search dei Son Volt e Howl dei Black Rebel Motorcycle Club? (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 49 del 25.10.2007



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L’altra – Intervista a Joseph Costa (2007)

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Dopo due perle d’indiscutibile bellezza come “Music Of a Sinking Occasion” e “In The Afternoon” e a due anni dall’uscita di “Different Days”, album che ha segnato un decisivo cambiamento di rotta della formazione di Chicago, abbiamo contattato Joseph Costa, chitarrista e voce de L’altra, per tentare di scoprire qualcosa sul futuro della formazione americana. Ne esce fuori una intervista breve, a spizzichi e bocconi, dove l’unica certezza è che per ora sia Joseph che Lindsay Anderson (voce e piano) hanno deciso di prendersi un lungo periodo di pausa per dedicarsi, ciascuno, ai propri progetti solisti. Con la speranza di incontrarli nuovamente su queste pagine…

Ciao Joseph, sono passati più di 3 anni dall’ultima volta che ci siamo sentiti per un’intervista; quali sono le novità dopo “Different Days”?
Ciao, le novità riguardano Lindsay che ha finito il suo disco solista intitolato “If” mentre io ho un nuovo album in uscita a gennaio su Costa Music e si chiamerà “Lighter Subjects”. Come L’Altra invece siamo in una sorta di vacanza per esplorare e sostenere le nostre nuove identità soliste.

Con “Different Days” c’è stato un significativo cambio di direzione. Una scelta coraggiosa. Che tipo di risposta avete avuto dal vostro pubblico e dalla critica in generale?
Parte di questo cambio di direzione è dovuto al lavoro a stretto contatto con il nostro nuovo produttore Josh Eustis dei Telefon Tel Aviv. Un’altra parte è dipesa dalla voglia di fare qualcosa di diverso e di non fare 3 dischi sullo stesso stile. Credo che alcune persone abbiano accettato il cambiamento altre invece no. Con “Different Days” abbiamo incrementato il numero di fans negli States. Penso che in Italia ci sia una più marcata differenza tra chi ama l’elettronica e chi ama più un suono indie-rock. Così, forse, questo nostro mix di elettronica e rock ci ha alienato qualche fan.

Vivi sempre a Chicago?
Sì, sebbene spendo sempre più tempo a New York per il mio lavoro sulla fotografia.

Cosa si dice da quelle parti? Voglio dire: c’è sempre il solito fermento creativo?
Chicago è un gran bel posto per fare musica, ci sono così tante cose interessanti che vengono prodotte e ottimi produttori con i quali lavorare…Marc Hellner dei Pulseprogramming ha prodotto il mio disco solista (Costa Music).

Siete ancora nel giro dell’Hefty Records di John Hughes (aka Slicker)?
No, sfortunatamente la Hefty Records sta chiudendo… Il disco di Lindsay Anderson uscirà su Minty Fresh, mentre Costa Music sarà rilasciato da Still Recordings.

Da L’altra dovremo aspettarci un altro cambio di rotta o un ritorno alle origini?
Non penso mai alle origini, quello che stiamo facendo è solo un cammino. Io non guardo mai indietro, è pericoloso.

Come sono i rapporti con Ken Dyber della Aesthetichs? Lo sentite ancora?
Sì, qualche volta parliamo, soprattutto sulle vendite dei dischi che ha rilasciato.

Musicalmente, c’è un sogno che vorresti realizzare?
Vorrei solo essere in grado di fare la musica che voglio. È sempre più difficile per le piccole etichette e per gli artisti in questa attuale fase dell’industria discografica. Mi sento fortunato a poter fare la mia musica, a poterla mettere su disco e farla arrivare alle orecchie della gente.

Recentemente abbiamo realizzato una raccolta degli album più rappresentativi del periodo 2001-2005 e tra questi abbiamo inserito “In Afternoon” del 2002. Cosa pensate di quel disco?
Sono felice di questa scelta. Quel disco è andato molto bene in Italia. Mi piace, è così ingenuo. Eravamo così giovani e aperti in quel periodo.

È molto bella la copertina di “In The Afternoon”, riesce a trasmettere perfettamente il contenuto musicale dell’album.
Grazie, ho lavorato a tutto l’artwork dell’album. Poi ho fatto le foto per il disco solista di Lindsay, così come per il mio… Musica e arte visiva sono la stessa cosa per me.

Tra quelli fino a ora realizzati, quale è il tuo disco preferito?
“Different Days” è quello che preferisco. Ed è stato anche il più difficile da realizzare.

La solita domanda: attualmente quale album stai ascoltando?
Ho appena comprato l’album dei Twilight Sad. Davvero buono, potente.

L’ultima volta Lindsay mi disse che sentiva la necessita di avere un figlio. Allora: maschio o femmina? È già un provetto musicista?
È un maschietto! E già ama suonare il piano !

Come va la tua carriera di fotografo?
Bene, è tutto quello che faccio oltre a suonare. Sono così fortunato a trovarmi in questa posizione.

Quando vi vedremo in Italia?
Personalmente spero di venire presto in tour in Europa col mio album solista. Ho anche sposato una ragazza italiana, quindi suppongo che passerò molto tempo in Italia…

Grazie e buon lavoro!
Grazie, continuate così.

ML – UPDATE N. 49 (2007-10-25)

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The Stone Roses – S.T. (1989)

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Figli di quella Manchester alienata e “discotecara” che sul finire degli anni Ottanta vide la diffusione dell’ecstasy e di nuove sonorità dance rock, gli Stone Roses rappresentarono – per chi scrive – l’apice musicale di quel subbuglio culturale che attraversò l’Inghilterra e che prese il nome di “Madchester”. A differenza dei ben più prolifici e amati Happy Mondays, la band di Ian Brown (voce) e John Squire (chitarra) mostrò infatti, meglio di qualsiasi altra formazione del momento, quella pubblica esigenza di evasione che i giovani dell’epoca stavano inseguendo, e lo fecero superbamente, privilegiando un sound ritmato, psichedelico e dalle essenze marcatamente Sixties. Manifesto di quella “piccola rivoluzione” fu l’omonimo album d’esordio che la formazione mancuniana consegnò al popolo della notte nel lontano 1989, un (capo)lavoro orecchiabile e perfettamente pop in cui trovarono spazio le morbidezze vocali di Brown e le ritmiche attente e vigorose di due personaggi del calibro di Alan John “Reni” Wren (batteria) e Gary Mounfield (basso). Ne uscirono fuori passaggi epocali dal titolo She Bangs The Drums, This The One, Made Of Stone e I Am The Resurrection ma anche brani sorprendenti come Shoot You Down e Don’t Stop (non altro che Waterfall mandata al contrario e con un nuovo testo) mentre Elizabeth My Dear e Bye Bye Bad Man, assieme a quei limoni antilacrimogeni disegnati in copertina dallo stesso Squire (ispiratosi al pittore Jackson Pollock e alla rivolta studentesca di Parigi del 1968), furono l’esempio lampante del loro spirito ribelle e non allineato al sistema. Cinque anni più tardi l’ignobile Second Coming decreterà la fine degli Stone Roses lasciando nel sottoscritto una indefinibile sensazione di vuoto. Un disco da isola deserta.

ML – UPDATE N. 48 (2007-09-20)

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Desert Motel – Out for the Weekend (2007)

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Diciamocelo subito: l’esordio dei Desert Motel colpisce non per l’originalità del sound, in fin dei conti la band di Aprilia ripercorre parabole musicali già note ai più avvezzi a certo rock americano, ma per l’evidente qualità di ciascuna delle realizzazioni contenute in questo EP. Un folk rock di buona fattura che ha tra i principali mentori – manco a dirlo – personaggi come Neil Young, Gram Parsons, Jackson Browne e formazioni quali The Band e Credence Clearwater Revival. Una compagine sicuramente poco attuale ma non per questo priva di ingegno, anzi. Con questo primo episodio Cristiano Pizzuti (voce, chitarre, lapsteel, armonica, banjo nonché autore di musiche e parole) e il vulcanico Fabrizio Lo Cicero (batteria e percussioni) con il contributo di Massimo Gresia al basso, Roberto Ventimiglia alle chitarre, Alessio Guzzon alla tromba e Silvia Zanellato (voce) mettono immediatamente in mostra il loro carattere di talentuosi outsider. Un gruppo fuori dal coro capace di realizzare un lavoro dalle sonorità sostanzialmente classiche e “out of time”, senza perdere tuttavia quel piglio indie e quella latente modernità alla maniera di Calexico, Okkervil River e Wilco. Non è certamente nostra abitudine tessere le lodi di chiunque si affacci improvvisamente nell’attuale panorama musicale ma ascoltando Paths, Resurrection e In You Time Of Need, brani che trasudano sangue e passione, ci si rende conto che i Desert Motel sono una bella realtà tutta italiana che, in barba a tutto, percorrono coraggiosamente certe strade secondarie, polverose e talvolta dimenticate, alla stregua dei madrileni Grupo Salvaje. Grazie alla loro recente apparizione alla prima edizione di Riverland, tenutasi a Sora in provincia di Frosinone, abbiamo potuto constatare che i Desert Motel, contrariamente a molte giovani band che durante le esibizioni live perdono identità e impatto sonoro, sono una vera e propria formazione da palcoscenico in grado di dare il meglio di sé soprattutto dal vivo. La dimostrazione che Out For The Weekend, pur custodendo piacevoli canovacci rock che s’imbrattano di soul, country e profumi di tex mex, non esprime appieno le potenzialità del gruppo pontino. Dunque, per ora godiamoci questo interessante debutto perché in futuro potrebbero rivelarci sorprese ben più appaganti.

ML – UPDATE N. 48 (2007-09-20)

La musica per me