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The Hotel Alexis – Goliath, I’m On Your Side (2007)

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Capita raramente di imbattersi in dischi di siffatta bellezza, avvolti – quasi per miracolo – da una spiccata e sincera musicalità che prende le distanze da ogni strepito mediatico e sovversivo. Così, girovagando qua e là nei meandri della rete, succede di scovare vere e proprie opere d’arte del calibro di Goliath, I’m On Your Side in grado di catturare l’attenzione fin dalle prime note. Permeata da una evidente qualità compositiva, la seconda fatica degli Hotel Alexis (Portsmouth, New Hampshire) procede lungo i solchi di un cantautorato alternativo che potrebbe ricordare tanto i Wilco e gli Sparklehorse quanto Howe Gelb e Bonnie Prince Billy. Quattordici tracce malinconiche, cantate sottovoce, abili tuttavia a rinfrancare lo spirito attraverso le sue intime costruzioni melodiche che si adagiano su tappeti di vibrafoni, effetti digitali, tastiere e lap steel che si percepiscono già dall’iniziale Soft Soft War, brano dalle consistenze country ma dall’incedere swingato, e San Diego Backslide capace di togliere il respiro in un solo istante. Un lavoro dai toni sfumati che cresce minuto dopo minuto, traccia dopo traccia, a partire dalle acustiche di I Will Arrange For You To Fall II, Owl e The Devil Knows My Handle fino a scivolare nelle sperimentazioni di Ticket e Oh The Loneliness che tracimano magnificamente nei diciotto minuti di Hummingbird/Indian Dog e, subito dopo, nelle ritmiche “post-rock” di The Range; e se Our Good Captain e The Silent One, che esala profumi d’oriente e sfumature corali, potrebbero rivelarsi passaggi poco convincenti, saranno le leggerezze alla Sufjan Stevens di Silver Waves Crash Through The Canyons e il tepore di Sister Ray, autentica gemma che sembra uscita da New England di Jason Anderson, a sottolineare il talento del cantante Sidney Lindner. Sospeso tra folk, pop e psichedelia, Goliath, I’m On Your Side si candida a diventare, per chi scrive, uno degli album emotivamente più coinvolgenti di questa prima parte del 2007.[1] (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 47 del 28.06.2007



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The Pipettes – Firenze, Viper Theater (28-04-2007)

Divertono ed entusiasmano le Pipettes sul palco del confortevole Viper Theater di Firenze attraverso una buona oretta di concerto in cui sciorinano tutte le composizioni del loro gradevolissimo album d’esordio. Come da copione le tre ragazze di Brighton ancheggiano, sorridono e salutano mentre cantano piacevoli canzoncine d’estrazione soul pop accompagnate da una formazione completamente al maschile.

Nonostante i tacchi alti e i vestitini attillati, le fanciulle improvvisano agili e ammiccanti balletti, scambiandosi continuamente di posto e trasportando il pubblico, numeroso e sostanzialmente di giovane età, sulle melodie retrò e in stile Motown di Why Did You Stay, Judy, Tell Me What You Want, Why e Because It’s Not Love (But it’s Still a Feeling).

Insomma, gli spettatori partecipano compiaciuti alla performance di Becki, Gwenno e Rosay che con i loro abiti a pois sembrano uscite direttamente dalla serie televisiva “Happy Days” o dal nostalgico “American Graffiti”.

Pull Shapes, I Love You, ABC, One Night Stand, It Hurts To See You Dance So Well e Sex, tanto per citarne alcuni, sono brani che non perdono d’impatto grazie anche alla complicità di un locale dall’acustica eccellente.

Per alcuni frequentatori del giro indie qualcosa il sound proposto dalla formazione inglese non è altro che l’ennesimo fenomeno revivalistico e di cassetta, ma a noi le Pipettes piacciono tantissimo, non solo per l’inequivocabile grazia che le contraddistingue, soprattutto per quella inconsueta carica espressiva che anche dal vivo riescono a trasmettere.

Non sbagliano un colpo. Cantano bene e senza strafare, e a vedere quelle giovani donne così demodé abbiamo quasi l’impressione di aver fatto un salto nel passato, anche se poi saranno le note conclusive di We Are The Pipettes (brano dagli effetti garage) a destarci da questo breve sogno fatto di coretti sixties e attacchi rythm’n’soul. Terminato il concerto abbiamo giusto il tempo di salutare e scambiare due chiacchiere con la simpatica Becki. Il suo splendido sorriso ci accompagnerà per tutto il viaggio di ritorno.

ML – UPDATE N. 46 (2007-05-24)

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Lyrics Born – Later That Day (2003)

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Tom Shimura – alias Lyrics Born – ha partecipato a numerosi progetti riconducibili all’hip hop indipendente della Bay Area di San Francisco. Nel 1992 forma i Latyrx con un certo Lateef Daumont e, in seguito, entra a far parte del collettivo SoleSides, un’encomiabile crew dalle evidenti propensioni sperimentali composta da produttori, b-boy, writers, rapper e dj tra cui Dj Shadow, Chief Xcel, Gift of Gab e Jurassic Five. Trascorsi sette anni, dopo aver cambiato nome in Quannum e creato una nuova etichetta discografica (Quannum Projects), la gang californiana dà alle stampe Spectrum (1999), un lavoro che prosegue nella ricerca di nuove forme stilistiche e dal quale Shimura (giapponese trapiantato in California) attinge linfa e sostentamento per la realizzazione della sua prima fatica da solista intitolata Later That Day… Un debutto che affonda le proprie radici nell’Old School Rap di Grandmaster Flash, Sugarhill Gang e Kurtis Blow e che, in alcuni passaggi, sembra conservare i tepori vocali di Joe Tex e Bill Withers. Una mistura di funk e soul in salsa elettronica che ti accarezza fin dalle prime battute di Rise And Shine, brano dalle fattezze reggae e dub sospinto dalla calda e sensuale voce di Joyo Velarde. Altri frammenti dai tessuti giamaicani sono The Last Trumpet, nenia ricoperta da brevi rimandi spirituals, e One Session, incalzante e fonda cantilena dalle inclinazioni raggamuffin dove il basso di Tom Guerrero si cinge di incursioni digitali. Uno stillicidio d’interludi (Dream Sequence, U Ass Bank, Interlude e Nightro), di ritmiche penetranti (Before And After) e di aperture funkydeliche (Callin’ Out, Stop Complaining, Do That There) che in alcuni passaggi diventano sempre più trascinanti; è il caso di Hott Bizness capace di racchiudere un inebriante refrain da club dance fine anni ‘70. Piacevole e svagante quanto basta, Later That Day… è un disco che si presta per una scorribanda estiva lungo le coste di una qualsiasi località di mare. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 46



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The Microphones – Mount Eerie (2003)

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Dietro lo pseudonimo The Microphones si nasconde Phil Elvrum, uno dei personaggi più prolifici e geniali d’inizio secolo. Batterista schivo e irrequieto degli Old Time Relijun, con Mount Eerie il cantautore americano mette in fila cinque pregevoli composizioni che si muovono tra sperimentazione e motivi di folk depresso. Canzoni generate dall’angoscia che hanno come filo conduttore una storia surreale a partire dall’iniziale The Sun, diciassette minuti di melodie instabili, rumori improvvisi e battiti cardiaci che si disperdono dentro ritmi ancestrali sempre più incalzanti, passando per le tetre orchestrazioni di Universe (episodio n. 3) e Mount Eerie, fino a raggiungere la conclusiva Universe (sì, il titolo è lo stesso della precedente) che rivela l’intera e struggente bellezza della montagna misteriosa. Un disco difficilmente assimilabile al primo ascolto nonostante Solar System cerchi di profonderci una fugace letizia attraverso le sue atmosfere placide e quasi popolari. Nel suo complesso Mount Eerie si rivela un lavoro sperimentale e con forme di cantautorato davvero fuori dal comune. Un concept album da affrontare attentamente e in più ascolti. Un’opera teatrale? Mah! Di sicuro un capolavoro. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 45



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L’altra – In The Afternoon (2002)

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Formatisi nel 1997 dall’incontro di Ken Dyber (ovvero Kenneth James, bassista e fondatore dell’etichetta Aestehics), Joseph Costa (voce e chitarra), Lindsay Anderson (voce e piano) ed Eben English (batterista e membro dei Del Rey), i chicagoani L’altra – dopo l’EP d’esordio datato 1999 e l’applaudito Music Of a Sinking Occasion del 2000 – con In The Afternoon mettono in scena l’intero immaginario poetico e musicale della scena “post” americana, in bilico tra l’intimità del canto e il sottile piacere della ricercatezza. Un album composto da melodie ammalianti e nobili divagazioni strumentali che, dall’iniziale Soft Connection alla conclusiva Goodbye Music, lasciano trasparire antiche e disturbate tradizioni. Equilibri armonici, eleganza, discrezione ritmica e alvei popolari che rendono questo lavoro un’autentica meraviglia neotradizionalista. Un disco decisamente suggestivo come la sua splendida foto di copertina realizzata dallo stesso Joseph Costa.

ML – UPDATE N. 45 (2007-04-20)

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Geoff Farina – Reverse Eclipse (2001)

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Voce, chitarra e cuore, sono questi gli elementi che caratterizzano il secondo lavoro da solista di Geoffrey Farina dei Karate. Reverse Eclipse, che segue Usonian Dream Sequence del 1998, è un disco che mi ha catturato fin dai primi sussulti per via della sua frugale spontaneità. Un lavoro “Jazz”, mi verrebbe da dire, ma che in realtà “Jazz” non è (o forse lo è soltanto nello spirito). Di sicuro però i tredici frammenti che compongo questo lavoro non hanno nulla a che vedere con l’artificioso e il cervellotico, anzi, le sonorità che vengono fuori da Reverse Eclipse sono immediate, leggere e vellutate, sempre avvolte da una sopita e struggente malinconia. Melodie pressoché incompiute, sospese tra stilemi di forma canzone, accenni jazzy e latenti fusioni di rock e blues che inseguono il canto irrequieto e a tratti lancinante di Geoff. Passaggi d’indelebile bellezza come Special Diamonds, Henningson Or Hemingway, Gravity, The Dianne Eraser, Olive Or Otherwise e One Percent che, se messi in sequenza successiva l’uno dopo l’altro, potrebbero toglierci il respiro rivelandoci l’intera essenza dell’album che, a distanza di alcuni anni, non perde un briciolo di romanticismo. Un abbagliante quadretto di acquerelli che evidenzia un’ingenua e creativa geometricità come la sua immagine di copertina. Quando la musica non è altro che l’espressione dell’anima. (Luca D’Ambrosio)

[1][i]Recensione pubblicata su ML – n. 45



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Menomena – Intervista (2007)

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Divertenti e intensi allo stesso modo, i Menomena vengono da Portland, Oregon, una delle città musicalmente più attive degli ultimi anni. Il nome della band scaturisce da una celebre e spensierata composizione del maestro Piero Umiliani, la rinomata “Mah Nà Mah Nà” contenuta nella colonna sonora del film-documentario “Svezia, Inferno e Paradiso” che, alcuni anni dopo, sottolineò anche il successo della serie televisiva Muppets Show. In occasione dell’uscita di “Friend And Foe”, interessante terzo lavoro in studio della formazione americana, abbiamo rivolto qualche domanda a Danny Seim (batteria e voce) che ha dimostrato una disponibilità davvero inconsueta.

[1]Intervista pubblicata su ML – n. 44 del 24 marzo 2007

INTERVISTA AI MENOMENA
© 2007 di Luca D’Ambrosio
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“Friend And Foe” è un caleidoscopio di generi e umori diversi dall’effetto decisamente stregante. Un disco dai toni quasi teatrali, pieno di riferimenti musicali (new wave, spiritual, rock, elettronica, psichedelia, funk, progressive…) e con canzoni “impazzite” che, pur prendendo direzioni diverse, si muovono all’interno di un corpo pop. Avete un particolare segreto per comporre la vostra musica? Oltre gli strumenti tradizionali, ho letto che fate uso anche del Deeler, un particolare congegno informatico…
Wow, nemmeno io avrei potuto dare una descrizione migliore del nostro album. Il Deeler è probabilmente la differenza principale tra noi e la maggior parte delle altre rock band, anche se è uno strumento assai diffuso nell’ambiente della musica elettronica. È un congegno che ci permette di comporre la nostra musica usando in maniera spontanea loop registrati e trattare successivamente le nostre canzoni come dei puzzle. Un altro fatto rilevante è che proveniamo da tre differenti background musicali, e credo che questo contribuisca a diversificare la nostra musica.

Il titolo dell’album scaturisce dall’aspetto contrastante dei brani oppure c’è un’allusione ben precisa?
“Friend and Foe” è molto più di un semplice riferimento al complesso processo attraverso cui è stato registrato il disco. Mentre stavamo registrando abbiamo dovuto affrontare anche problemi personali che sicuramente hanno influito sul risultato finale; il titolo è proprio un riferimento alla dualità di odiare e amare allo stesso tempo qualcosa (o qualcuno).

Siete una formazione in continua evoluzione e nella vostra musica si avvertono sensazioni di precarietà e agitazione, elementi oramai tipici di questa nuova e spasmodica società. Quanto c’è di vero in questa considerazione?
È possibile che qualcosa di vero ci sia. È infatti impossibile estraniarsi da tutto ciò che ti sta succedendo intorno; non era nostra intenzione registrare un album che riflettesse la società e l’attuale clima politico, ma nemmeno ci siamo prefissati di escludere o ignorare il mondo esterno.

Radiohead, Flaming Lips, Blur, Peter Gabriel, TV On The Radio e Modest Mouse sono soltanto alcuni dei riferimenti che mi sono balzati alla mente ascoltando questo terzo album. Si avverte anche una certa ironia e stravaganza alla Frank Zappa. Quanto vi sentite legati a questi nomi?
Tutti questi artisti hanno avuto un profondo impatto su di me in differenti momenti della mia vita, ma non posso dire lo stesso per miei compagni. Ascoltiamo cose differenti e ognuno di noi contribuisce alla produzione delle nostre canzoni nella stessa proporzione (esattamente il 33.33333333%!) quindi è davvero difficile definire con esattezza le diverse influenze.

Siete di Portland, Oregon, una città musicalmente molto attiva in questi ultimi anni. Penso a Elliott Smith, M. Ward, Thermals, Quasi, Decemberists, Shins… Per caso da quelle parti sta succedendo qualcosa di particolarmente interessante così come successe a Chicago nei primi anni Novanta?
Credo che il tuo paragone con Chicago sia perfetto. Molti citano di solito la scena di Seattle dei primi anni ‘90, ma la scena post-punk di Chicago fu molto più influente e meno “pubblicizzata” dai media, e ciò è esattamente quello che sta accadendo oggi a Portland. Tutti si conoscono, tutti suonano e collaborano con le altre band e in qualche modo siamo riusciti a tenere i media lontani dal sovresporre troppo la nostra bellissima città. Qui si respira un clima davvero solidale e affettuoso tanto che risulta difficile poter immaginare oggi di essere una band in un altro posto diverso da Portland.

È vero che il nome della band prende spunto dalla celebre “Mah Nà Mah Nà” di Piero Umiliani?
Ah, vedo che sei ben informato! Allora mi puoi anche dire se è vero che la canzone fu originariamente usata alla fine degli Sessanta per un documentario porno? Qua la gente la conosce soltanto come “La canzone dei Muppets “. Ne sanno davvero poco… (il brano è incluso nella colonna sonora del film-documentario “Svezia, Inferno e Paradiso” del 1968 di Luigi Scattini, n.d.r.)

Qualcosa in più di una semplice infatuazione per una canzone?
Credo proprio di sì… ne parlerò al mio analista.

Chi sono i componenti dei Menomena?
Brent è il “Nerd dei Computer” del gruppo. Ama programmare e uscirsene con invenzioni veramente fuori di testa. Il suo background musicale è soprattutto influenzato dagli anni ’90; è un vero patito delle radio pop commerciali e i suoi gruppi preferiti saranno per sempre Depeche Mode, Smashing Pumpkins e Tool. Justin è il nostro “Caldo Modello Svedese”. Ama le cose odiose più popolari. Era soltanto un bassista quando lo incontrai per la prima volta circa quindici anni fa, ma ora suona il sax, la chitarra, le tastiere e canta, a volte tutto nello stesso momento! Adora T. Rex, Pulp e Led Zeppelin. Infine ci sono io e credo di potermi definire il “Batterista Insicuro” dei Menomena. Sono l’opposto di Justin in fatto di gusti musicali. Mi piace tutto, e spendo davvero troppi soldi per comprare album vecchi e nuovi. Attualmente i miei preferiti sono Andrew W.K., Ween, e Deerhoof ma con tutta probabilità cambierò idea fra una settimana.

Quando è nato il progetto?
Abbiamo iniziato a suonare insieme alla fine del 2000, e il nostro primo concerto è stato nel 2001.

E.P. compresi, mi elenchi tutti i lavori ufficiali realizzati dai Menomena?
Ufficialmente abbiamo realizzato tre dischi: I am the Fun Blame Monster! (2003), Under An Hour (2005) e Friend And Foe (2007). Abbiamo poi realizzato un paio di E.P. in giro per Portland prima che uscisse il nostro primo album. Uno s’intitolava più o meno “The Rose EP” e conteneva cinque pezzi, credo… l’altro era un CD-R con sopra uno scheletro, conteneva circa una decina di demo che alla fine divenne “The Fun Blame Monster”. Ne facemmo meno di 100 copie di entrambi e li regalammo in giro.

Coretti sixties, sottofondi di glockenspiel e violoncelli, giri di basso trascinanti, ritmi vivaci, lap-steel e chitarre accattivanti, malinconiche melodie pianistiche, passaggi di hammond, effetti sintetizzati, fischiettii, incursioni di sax alla Morphine e inaspettati cambi di direzione fanno di “Friend And Foe” un lavoro complesso e avanguardista ma dal carattere pop universale (diciamo, global-pop). Credo che non sia stato facile mettere insieme tutte queste parti con il giusto equilibrio. Quanto tempo ci avete lavorato sopra? È stato lungo il lavoro di ricerca?
Sì, abbiamo impiegato parecchio tempo per finire questo disco. Credo ci siano voluti complessivamente due anni dall’inizio alla fine, molto più tempo di qualsiasi nostra altra attività come band. Questo è uno dei nostri più grandi problemi, cioè il lento ritmo con cui realizziamo le cose. Gruppi come Deerhoof pubblicano almeno un disco all’anno e ho davvero molto rispetto per questo tipo di approccio lavorativo. È davvero incredibilmente difficile per ognuno di noi tre riuscire ad essere d’accordo su qualsiasi cosa, così ogni dettaglio nel nostro processo produttivo impiega secoli prima di prendere forma.

Chi scrive i testi?
Tutti e tre scriviamo le canzoni individualmente, e solitamente nessuno di noi chiede agli altri quale sia il loro significato. Forse perché preferiamo che l’interpretazione dei testi sia lasciata all’ascoltatore nel modo che ritiene più adatto.

Quali sono le formazioni che stimi particolarmente?
I miei gusti cambiano in continuazione. È davvero difficile ridurli in pochi nomi anche se ho cercato di farlo in una domanda precedente.

Avremo la possibilità di vedervi prossimamente in Italia?
Ah, davvero lo spero! Mi sento così protetto qui. È davvero triste ma non ho mai viaggiato oltreoceano. Ho visto il vostro paese soltanto in foto e nei film, e avrei davvero voglia di visitarlo, di persona! Speriamo di poter suonare presto la nostra musica da voi, magari con un piccolo tour che tocchi qualche città italiana.

Buona musica e grazie per la disponibilità.
Grazie a voi, apprezziamo davvero quello che fate.

(foto di Alicia J. Rose)



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L’Altra – Music Of a Sinking Occasion (2000)

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Con Music of a Sinking Occasion Lindsay Anderson e Joseph Costa (in arte L’Altra) danno vita a qualcosa in più delle solite e reiteranti lentezze euritmiche a cui eravamo stati abituati con il post-rock.[1] Con questo pregevole album d’esordio il combo di Chicago realizza, infatti, un vero e proprio compendio di musica alternativa capace di traghettare l’ascoltatore verso i confini impalpabili della canzone d’autore in cui si alternano, soavemente, melodia e ricercatezza assieme alle voci suggestive di Lindsay e Joseph. Un condensato di sonorità slowcore e passaggi dalle atmosfere cinematografiche che trovano l’immancabile apporto di Eben English alla batteria, Ken Dyber al basso e, per l’occasione, anche di Rob Mazurek (Isotope 217) e Mike Lust (Lustre King). E così, tra ballate pianistiche lievemente jazzate, aperture di chitarre elettroacustiche e morbide incursioni elettroniche, Music of a Sinking Occasion si rivela un disco raffinato e traboccante di idee, impreziosito, oltretutto, da gemme come Room Becomes Thick, Lips Move On Top Of Quiet, Say Wrong e Movement: un numero di solchi sufficienti per consigliarvi, senza alcun indugio, l’acquisto di questo interessante lavoro discografico della formazione americana. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 43 del 23 febbraio 2007



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Okay – Intervista (2007)

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Originario di Fremont, California, Marty Anderson (in arte Okay) è un ragazzo dalle indiscutibili capacità creative. “Low Road” (update n. 41) è la prima parte di un doppio lavoro di “canzoncine” indie pop uscito nel 2005 negli Stati Uniti d’America ma pubblicato in Europa soltanto nel 2006. Un delizioso miscuglio di tastiere, chitarre, batterie sintetizzate, brusii e strepiti di fondo dall’effetto malinconico ma stranamente elettrizzante….

A essere sincero prima di “Low Road” non avevo mai sentito parlare di Marty Anderson. Mi racconti brevemente la tua evoluzione artistica ?
Quando ero piccolo suonavo molto il piano. Mia madre comprò un vecchio Dresden e verso i 12 anni cominciai a scrivere canzoni. Poco tempo dopo iniziai a scriverle col computer utilizzando un vecchio programma MIDI (chiamato “Trax”) che mi prese mio padre. Alle superiori, poi, incontrai Jay Pellicci e cominciammo a suonare musica “rock” nel garage di casa sua con suo fratello Ian. Con l’inserimento del nostro amico Craig Colla al basso diventammo i Dilute, formazione con cui abbiamo inciso 2 dischi in studio e 2 CD live (split) condivisi con Hella. Nel periodo della band continuavo ugualmente ad incidere dischi per conto mio: 3 dischi autoprodotti raggruppati inizialmente sotto il nome di Pomographic Dye e, successivamente, col nome Jacques Kopstein col quale uscì “a” su “Frenetic Records. Questo materiale diede vita al progetto “Okay”. Infatti, quando i Dilute fecero una pausa nel 2002 – pausa che continua ancora oggi – mi concentrai sull’idea di creare una band impostata solo su di me o che includesse persone che fossero presenti nella mia vita e volessero suonare. Nacque così il moniker “Okay”, un nome da mettere su qualsiasi musica stia creando al momento, che sia un lavoro solista o con un collettivo di 9 amici (il massimo delle persone con cui finora mi sono esibito).

Okay è una tipica espressione americana che indica consenso, intesa… Una delle parole più diffuse al mondo come del resto “Ciao”. C’è un motivo ben preciso per cui hai scelto questo nome?
Ho pensato molto al nome. Ho fatto dei test mentre altre persone hanno realizzato delle ricerche con statistiche e grafici … abbiamo fatto di tutto. Credo che non abbiamo dormito per due settimane. In quel periodo una persona cominciò perfino a fare uso di droghe per rimanere concentrato, un altro fu ricoverato per un attacco di ansia ed altri quattro invece lasciarono perdere. Nonostante tutto, non trovammo un nome! Solo quando rimanemmo senza speranza, perché non sapevamo più dove cercare, venne fuori il nome. Fu davvero molto semplice.

Con quali riferimenti musicali sei cresciuto?
Christmas music, Top 40, Beatles, Bob Dylan, Neil Young, Velvet Underground, John Frusciante, Merzbow.

Non ho ancora ascoltato “High Road”, tuttavia, trovo davvero interessante “Low Road”. Se il disco non fosse uscito nel 2005 negli Stati Uniti sarebbe entrato, sicuramente, nella mia Top Ten del 2006. Come mai è stata ritardata la distribuzione in Europa? Eppure internet dovrebbe garantire una diffusione globale e immediata, quasi in tempo reale…
Non conosco il motivo del ritardo. A dire il vero non ho fatto molta attenzione a questa parte del processo, a mio discapito credo. Mi rendo conto che internet avrà un ruolo fondamentale sulle mie produzioni a venire e spero che in futuro l’uscita europea sia più immediata.

Pensi che questa enorme quantità di musica autoprodotta, in circolazione su internet, in qualche modo penalizzi o rallenti l’affermazione di certi musicisti di talento?
Questa è una domanda alquanto complessa, ma risponderò comunque. Solo quando hai uno scopo che prevede una ricompensa o il raggiungimento di qualche livello di consenso, l’idea di “penalizzazione” rientra nel quadro. Qualsiasi gioia derivante da tale “elogio del talento” ti andrebbe inevitabilmente contro, non credi? Detto ciò, in un mercato saturo come quello della musica contemporanea, c’è una mancanza di chiarezza e questa mancanza naturalmente altera i parametri di ciò che si crede “vera arte”. Non è sempre facile individuare la differenza tra arte che sostiene l’inganno ed arte che, invece, tenta di rivelarlo. A volte la differenza è sottile, ma molto importante. A volte, alle persone con le quali suono, dico: “se ascolti bene non stiamo suonando delle canzoni… ma qualcosa di molto simile”.

Mi spieghi perché hai deciso di esordire con due lavori distinti e separati e non con un doppio CD?
L’idea dei 2 CD era pratica. Non volevo far uscire un cd di 80 minuti o ignorare il fatto che il progetto era di una tale grandezza. Così, Cory di Absolutely Kosher Records ed io abbiamo deciso di fare uscire 2 dischi separati ma collegati concettualmente.

Parliamo di “Low Road”, un disco sostanzialmente pop, pieno di dettagli sonori… Un lavoro suonato, cantato e arrangiato splendidamente con richiami dark, rock, folk, post… Un disco malinconico e poetico ma dall’effetto finale decisamente elettrizzante.
Sono contento che tu sia in sintonia con la musica. Sono state dette molte cose sulle mie registrazioni. Sono abbastanza soddisfatto della reazione. Ancor prima che uscissero i dischi, dissi che mi sarebbe piaciuto ricevere qualsiasi tipo di critica, nel bene o nel male per quanto possibile. Sono contento sia che il disco venga definito “capolavoro” che “disastro”. Sono comunque d’accordo con entrambi i giudizi!

Sono stati tanti i riferimenti che mi sono balzati alla mente: Neil Young, Mercury Rev, Daniel Johnston, Pavement…
Ho ascoltato tutti quelli che hai elencato eccetto Mercury Rev. Ascolto ancora spesso il vecchio Neil Young. Il nuovo documentario di Daniel Johnston è interessante.

A parte l’intervento di Jay Pellicci, ho letto che hai fatto tutto da solo. Hai persino creato la copertina…
Sì è vero. In particolare per quei dischi (Low Road e High Road, n.d.r.), ho fatto il 98% di essi, ma non è stato pianificato. È semplicemente successo.

In vista di un eventuale tour, ti stai organizzando con una vera band oppure pensi di andare in giro da solo?
Non penso affatto di andare in giro. Forse un giorno, quando avrò la giusta combinazione di elementi, andrò di nuovo in tour. Sicuramente non ora. Ciò però non significa che io non stia scrivendo o suonando occasionalmente, significa semplicemente che per vedermi devi venire nella Bay Area.

So che hai realizzato il disco in un momento non particolarmente felice della tua vita. Vuoi raccontarci qualcosa a proposito?
Non penso che la mia esperienza sia stata più difficile di altre. Sono passato attraverso alcune forme acute di malattia e pazzia mentre registravo quei dischi, ma ci sono forme acute di malattia e pazzia ovunque tu guardi.

Ti va di dire qualcosa sui temi trattati e da cui hai tratto ispirazione?
I temi trattati sono complessi e sfaccettati. L’idea di se stesso si sovrappone all’idea di paese e viceversa. Questo è stato fatto per renderlo universale. I dischi sono due reazioni diverse verso lo stesso stimolo. È una questione di prospettiva, sia del narratore che di colui che ascolta. Una delle idee originali era di avere una sottile differenza nello stile e nella dinamica dei dischi. In questo modo, quando qualcuno preferisce un disco piuttosto che l’altro, si capisce da che parte sta l’ascoltatore.

Quanto ti aiuta la musica nella vita di tutti i giorni?
Questa è una bella domanda. Non saprei risponderti. Quanto ha bisogno il tuo piede del calzino ogni giorno?

Nell’attesa di ascoltare “High Road”, ci sono altri progetti o dischi in vista?
In questo momento ho circa 168 canzoni ancora da registrare. L’anno scorso ho messo su una grande band, abbiamo imparato 10-20 canzoni e suonato nelle feste locali durante il 2005 con Joanna Newsom, Xiu-Xiu e Stereolab. Da allora la band si è sciolta. Non siamo arrivati a registrarle in studio con quel gruppo di persone quindi, per ora, non so quale sarà il destino di quel materiale. Sono felice di lasciarlo così. Comunque prossimamente ho un’uscita online per la Absolutely Kosher che documenta quel periodo. Per quanto riguarda le produzioni future per Okay, c’è un disco di vecchie canzoni d’amore, Huggable Dust, che uscirà con Absolutely Kosher nel 2007. Al momento sto lavorando su alcuni nuovi dischi nel mio appartamento di Berkeley.

Beh, è tempo di classifiche. La tua top ten del 2006 ?
Non penso neanche di poter nominare 10 album usciti nel 2006. Davvero, non conosco abbastanza la musica attuale per rispondere a questa domanda.

Prima di salutarci, possiamo affermare che la musica di Marty Anderson è OKAY?
Puoi, ma non sei il primo.

ML – UPDATE N. 42 (2007-01-23)

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Okay – Low Road (2005-USA) / (2006-Europe)

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Low Road è la prima parte di un doppio lavoro realizzato da Marty Anderson (già cantante dei Dilute e collaboratore di Kenseth Thibideau sotto la sigla Howard Hello) che per l’occasione – dopo numerose registrazioni sotto lo pseudonimo di Jacques Kopstein – sceglie di chiamarsi Okay. Originario di Fremont, California, Marty è un ragazzo dalle indiscutibili capacità creative in grado di comporre e arrangiare un disco completamente da solo, complice (purtroppo) un disturbo cronico allo stomaco che lo costringe, quasi tutti i giorni, a rimanere chiuso nella casa-studio dei genitori attaccato a una flebo. A dire il vero, però, proprio solo non è perchè a dargli una mano c’è anche il vecchio amico Jay Pellicci, ingegnere del suono che contribuisce alla riuscita di questo appassionante album di canzoncine indie pop. Un miscuglio di tastiere, chitarre, batterie sintetizzate, brusii e strepiti di fondo dall’effetto malinconico e allo stesso tempo elettrizzante come Holy War, sospesa tra leggerezze acustiche e sregolatezze rumoristiche, e Replace il cui attacco potrebbe ricordare, vagamente, qualcosa dei Velvet Underground & Nico. Un CD pieno di spunti e di riferimenti (Neil Young, Mercury Rev, Daniel Johnston, The Decemberists e Pavement i primi che vengono in mente) che mostra il talento del giovane cantautore americano quasi alla maniera di Beck e Dylan. Ed è per questo che Low Road, nonostante le armonie vivaci e festose di Hoot e Devil, il dinamismo pop rock di Now e l’attitudine post-rock di Roman e il piglio dark/new-wave di We, si rivela un album appassionante, capace, oltretutto, di bucare la pelle con canzoni che hanno un effetto dolce e poetico come, per esempio, Oh e Bullseye: brani che struggono il cuore e che lasciano un nodo in gola. Nell’attesa della parte seconda (High Road) non possiamo che ringraziare la RuminanCe che, su licenza Absolutely Kosher, sta distribuendo in Europa il debutto di Mr. Okay.[1] Un disco da mettere assolutamente sotto l’albero di Natale. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 41 del 16 dicembre 2006

INTERVISTA A MARTY ANDERSON
2007© di Luca D’Ambrosio
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Originario di Fremont, California, Marty Anderson (in arte Okay) è un ragazzo dalle indiscutibili capacità creative. “Low Road” è la prima parte di un doppio lavoro di “canzoncine” indie pop uscito nel 2005 negli Stati Uniti d’America ma pubblicato in Europa soltanto nel 2006. Un delizioso miscuglio di tastiere, chitarre, batterie sintetizzate, brusii e strepiti di fondo dall’effetto malinconico ma stranamente elettrizzante…[2]

[2]Intervista pubblicata su ML – n. 42 del 23 gennaio 2007

A essere sincero prima di “Low Road” non avevo mai sentito parlare di Marty Anderson. Mi racconti brevemente la tua evoluzione artistica ?
Quando ero piccolo suonavo molto il piano. Mia madre comprò un vecchio Dresden e verso i 12 anni cominciai a scrivere canzoni. Poco tempo dopo iniziai a scriverle col computer utilizzando un vecchio programma MIDI (chiamato “Trax”) che mi prese mio padre. Alle superiori, poi, incontrai Jay Pellicci e cominciammo a suonare musica “rock” nel garage di casa sua con suo fratello Ian. Con l’inserimento del nostro amico Craig Colla al basso diventammo i Dilute, formazione con cui abbiamo inciso 2 dischi in studio e 2 CD live (split) condivisi con Hella. Nel periodo della band continuavo ugualmente ad incidere dischi per conto mio: 3 dischi autoprodotti raggruppati inizialmente sotto il nome di Pomographic Dye e, successivamente, col nome Jacques Kopstein col quale uscì “a” su “Frenetic Records. Questo materiale diede vita al progetto “Okay”. Infatti, quando i Dilute fecero una pausa nel 2002 – pausa che continua ancora oggi – mi concentrai sull’idea di creare una band impostata solo su di me o che includesse persone che fossero presenti nella mia vita e volessero suonare. Nacque così il moniker “Okay”, un nome da mettere su qualsiasi musica stia creando al momento, che sia un lavoro solista o con un collettivo di 9 amici (il massimo delle persone con cui finora mi sono esibito).

Okay è una tipica espressione americana che indica consenso, intesa… Una delle parole più diffuse al mondo come del resto “Ciao”. C’è un motivo ben preciso per cui hai scelto questo nome?
Ho pensato molto al nome. Ho fatto dei test mentre altre persone hanno realizzato delle ricerche con statistiche e grafici … abbiamo fatto di tutto. Credo che non abbiamo dormito per due settimane. In quel periodo una persona cominciò perfino a fare uso di droghe per rimanere concentrato, un altro fu ricoverato per un attacco di ansia ed altri quattro invece lasciarono perdere. Nonostante tutto, non trovammo un nome! Solo quando rimanemmo senza speranza, perché non sapevamo più dove cercare, venne fuori il nome. Fu davvero molto semplice.

Con quali riferimenti musicali sei cresciuto?
Christmas music, Top 40, Beatles, Bob Dylan, Neil Young, Velvet Underground, John Frusciante, Merzbow.

Non ho ancora ascoltato “High Road”, tuttavia, trovo davvero interessante “Low Road”. Se il disco non fosse uscito nel 2005 negli Stati Uniti sarebbe entrato, sicuramente, nella mia Top Ten del 2006. Come mai è stata ritardata la distribuzione in Europa? Eppure internet dovrebbe garantire una diffusione globale e immediata, quasi in tempo reale…
Non conosco il motivo del ritardo. A dire il vero non ho fatto molta attenzione a questa parte del processo, a mio discapito credo. Mi rendo conto che internet avrà un ruolo fondamentale sulle mie produzioni a venire e spero che in futuro l’uscita europea sia più immediata.

Pensi che questa enorme quantità di musica autoprodotta, in circolazione su internet, in qualche modo penalizzi o rallenti l’affermazione di certi musicisti di talento?
Questa è una domanda alquanto complessa, ma risponderò comunque. Solo quando hai uno scopo che prevede una ricompensa o il raggiungimento di qualche livello di consenso, l’idea di “penalizzazione” rientra nel quadro. Qualsiasi gioia derivante da tale “elogio del talento” ti andrebbe inevitabilmente contro, non credi? Detto ciò, in un mercato saturo come quello della musica contemporanea, c’è una mancanza di chiarezza e questa mancanza naturalmente altera i parametri di ciò che si crede “vera arte”. Non è sempre facile individuare la differenza tra arte che sostiene l’inganno ed arte che, invece, tenta di rivelarlo. A volte la differenza è sottile, ma molto importante. A volte, alle persone con le quali suono, dico: “se ascolti bene non stiamo suonando delle canzoni… ma qualcosa di molto simile”.

Mi spieghi perché hai deciso di esordire con due lavori distinti e separati e non con un doppio CD?
L’idea dei 2 CD era pratica. Non volevo far uscire un cd di 80 minuti o ignorare il fatto che il progetto era di una tale grandezza. Così, Cory di Absolutely Kosher Records ed io abbiamo deciso di fare uscire 2 dischi separati ma collegati concettualmente.

Parliamo di “Low Road”, un disco sostanzialmente pop, pieno di dettagli sonori… Un lavoro suonato, cantato e arrangiato splendidamente con richiami dark, rock, folk, post… Un disco malinconico e poetico ma dall’effetto finale decisamente elettrizzante.
Sono contento che tu sia in sintonia con la musica. Sono state dette molte cose sulle mie registrazioni. Sono abbastanza soddisfatto della reazione. Ancor prima che uscissero i dischi, dissi che mi sarebbe piaciuto ricevere qualsiasi tipo di critica, nel bene o nel male per quanto possibile. Sono contento sia che il disco venga definito “capolavoro” che “disastro”. Sono comunque d’accordo con entrambi i giudizi!

Sono stati tanti i riferimenti che mi sono balzati alla mente: Neil Young, Mercury Rev, Daniel Johnston, Pavement…
Ho ascoltato tutti quelli che hai elencato eccetto Mercury Rev. Ascolto ancora spesso il vecchio Neil Young. Il nuovo documentario di Daniel Johnston è interessante.

A parte l’intervento di Jay Pellicci, ho letto che hai fatto tutto da solo. Hai persino creato la copertina…
Sì è vero. In particolare per quei dischi (Low Road e High Road, n.d.r.), ho fatto il 98% di essi, ma non è stato pianificato. È semplicemente successo.

In vista di un eventuale tour, ti stai organizzando con una vera band oppure pensi di andare in giro da solo?
Non penso affatto di andare in giro. Forse un giorno, quando avrò la giusta combinazione di elementi, andrò di nuovo in tour. Sicuramente non ora. Ciò però non significa che io non stia scrivendo o suonando occasionalmente, significa semplicemente che per vedermi devi venire nella Bay Area.

So che hai realizzato il disco in un momento non particolarmente felice della tua vita. Vuoi raccontarci qualcosa a proposito?
Non penso che la mia esperienza sia stata più difficile di altre. Sono passato attraverso alcune forme acute di malattia e pazzia mentre registravo quei dischi, ma ci sono forme acute di malattia e pazzia ovunque tu guardi.

Ti va di dire qualcosa sui temi trattati e da cui hai tratto ispirazione?
I temi trattati sono complessi e sfaccettati. L’idea di se stesso si sovrappone all’idea di paese e viceversa. Questo è stato fatto per renderlo universale. I dischi sono due reazioni diverse verso lo stesso stimolo. È una questione di prospettiva, sia del narratore che di colui che ascolta. Una delle idee originali era di avere una sottile differenza nello stile e nella dinamica dei dischi. In questo modo, quando qualcuno preferisce un disco piuttosto che l’altro, si capisce da che parte sta l’ascoltatore.

Quanto ti aiuta la musica nella vita di tutti i giorni?
Questa è una bella domanda. Non saprei risponderti. Quanto ha bisogno il tuo piede del calzino ogni giorno?

Nell’attesa di ascoltare “High Road”, ci sono altri progetti o dischi in vista?
In questo momento ho circa 168 canzoni ancora da registrare. L’anno scorso ho messo su una grande band, abbiamo imparato 10-20 canzoni e suonato nelle feste locali durante il 2005 con Joanna Newsom, Xiu-Xiu e Stereolab. Da allora la band si è sciolta. Non siamo arrivati a registrarle in studio con quel gruppo di persone quindi, per ora, non so quale sarà il destino di quel materiale. Sono felice di lasciarlo così. Comunque prossimamente ho un’uscita online per la Absolutely Kosher che documenta quel periodo. Per quanto riguarda le produzioni future per Okay, c’è un disco di vecchie canzoni d’amore, Huggable Dust, che uscirà con Absolutely Kosher nel 2007. Al momento sto lavorando su alcuni nuovi dischi nel mio appartamento di Berkeley.

Beh, è tempo di classifiche. La tua top ten del 2006 ?
Non penso neanche di poter nominare 10 album usciti nel 2006. Davvero, non conosco abbastanza la musica attuale per rispondere a questa domanda.

Prima di salutarci, possiamo affermare che la musica di Marty Anderson è OKAY? (sorriso, ndr.)
Puoi, ma non sei il primo (sorriso, ndr).



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