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The Album Leaf – Seal Beach (2003)

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Vicino di casa dei Black Heart Procession, Jimmy LaValle (già chitarrista dei Tristeza) è l’artefice del progetto – in larga parte elettronico/strumentale – denominato The Album Leaf. Dopo Orchestrated Rise To Fall (1999), One Day I’ll Be On Time (2001) e qualche mini CD, il musicista di San Diego realizza un altro lavoro di breve durata capace di trafugare le emozioni più recondite.[1][i] Pubblicato dall’inestimabile Acuarela Discos di Madrid, Seal Beach è un adorabile EP di 25 minuti circa permeato da quisquilie elettroniche, stratificazioni post-rock (pensate un po’ ai Mogwai, ai Sigur Rós oppure ai Mùm privi di parti cantate) e canovacci pop da cui saltano fuori meraviglie senza tempo come Malmo, Brennivin e la stessa title track. Brani intensi e traboccanti di pathos che delineano ambienti oscuri e malinconici; un pugno di composizioni mai aride, costruite su delicati arpeggi di chitarra, sottofondi di pianoforte elettrico Fender Rhodes e rimandi glitch. Un disco fugace e incantevole insomma, come una notte di stelle cadenti. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 40 del 30 novembre 2006



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Ramona Córdova – The Boy Who Floated Freely (2006)

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Nato in Arizona da madre haitiana/filippina e padre spagnolo/portoricano, Ramòn Vicente Alarcòn è un ragazzo cresciuto a suon di filastrocche, musical e fiabe come Pinocchio e Biancaneve. Retaggi culturali che, inevitabilmente, lasceranno un segno ben visibile nella personalità artistica del giovane sognatore americano dalla voce tanto espressiva quanto modulata (“Un ragazzo americano con la testa nel cielo e la voce da bambino”, scrive Les Inrockuptibles). Dopo aver militato in diverse formazioni, tra cui i Denver In Dallas, l’esile songwriter prende in prestito il nome dalla nonna materna, Ramona Córdova, e decide di pubblicare la sua prima favola musicale con l’aiuto dell’amico Dave Conway che per l’occasione fonda una piccola label. Ecco quindi che, con un titolo suggestivo e con una copertina abbastanza inquietante, viene dato alle stampe The Boy Who Floated Freely, un disco che narra la storia di un ragazzo (Giver) che naufraga su un’isola apparentemente disabitata (“I was just a boy / fell into an ocean / washed up on a shore / and now I’m here to see / what i will see”), per poi diventare vittima di una pozione d’amore di una fanciulla gitana (Marcìa). Un album intenso e vibrante, screziato – qua e là – da repentine variazioni umorali e vocali, con canzoni acustiche a bassa definizione che, per quanto semplici e dirette, non stancano l’ascolto. Caratteristiche inconfutabili di un lavoro che, pur non indicando nuove frontiere, entusiasma e sorprende attraverso le sue morbide e stravaganti patine popolari. Un meraviglioso bozzetto di derivazione pre-war folk (Into The Gypsy Bar, Sung With The Birds, Hot And Heavy Harmony e Mixing The Potion) che ricorda il candore di Devendra Banhart, le cedevolezze chitarristiche di M. Ward (o di José González) e persino certe intemperanze del miglior Daniel Johnston (Giver’s Reply). Con i vocalizzi androgini e tormentati di Introduction e di One Day Someday si ha l’impressione invece di attraversare quei luoghi segreti e incantati delle sorelle Sierra & Bianca Casady (alias CocoRosie). The Boy Who Floated Freely è un esordio davvero ammaliante capace, oltretutto, di rivelare tutta l’imperfezione dell’essere umano, come quando Marcìa, per esempio, stanca dell’incantesimo e quindi anche di quell’illusione d’amore decide di abbandonare Giver, lasciandolo nuovamente libero di fluttuare sulle onde spumose di un mare profondo. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 39 del 12 novembre 2006



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Ben & Jason – Goodbye (2003)

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Se Hello dava il benvenuto a una interessante formazione dai sigilli pop (se volete chiamatelo pure New Acoustic Movement), Goodbye sancisce invece – dopo due bei lavori come Emoticons e Ten Songs About You – l’epilogo del legame artistico tra Ben Parker e Jason Hezeley, rivelandosi oltretutto la migliore prova discografica del duo britannico. Un album traboccante di lirismo capace di sfoggiare perle acustiche di una leggerezza superba: da Mr. America, in cui si srotolano melodie frugali e ricordi di Nick Drake, a You’re The Reason, Hollywood, Orphans e Window In/Window Out che si muovono tra sottofondi di pianoforte, archi, minimalismi folk e sussulti vocali alla maniera di Ed Harcourt e di Jeff Buckley, lasciando a $10 Miracle e ad A Star In Nobody’s Picture il compito di racchiudere le armonie più fluide e dirette del disco. Quelle di Goodbye sono melodie che scivolano via come lacrime di piacere; motivi che si stringono forte al cuore infilandosi negli anfratti più intimi dell’anima. Frammenti che colmano il vuoto di questa nuova solitudine, ora che l’amore è finito e che l’inverno è alle porte.[1] (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 38 del 26 ottobre 2006



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Arto Lindsay – Salt (2004)


Nuovo album da solista per Arto Lindsay[1], intellettuale del rock cresciuto fra New York e Bahia, assertore del tropicalismo capace di unire il fascino della musica brasiliana con l’irrequietezza urbana del sound americano.

Sempre in bilico tra attualità e tradizione, l’ex Lounge Lizards rappresenta l’archetipo del musicista contemporaneo, poliedrico e dalle visioni globali, brillante e temerario, abile nel saper coniugare – fin dai tempi dei DNA – suoni e culture diverse.

A rafforzare questa sua immagine di musicista sperimentatore sopraggiunge questo interessante disco, prodotto dall’etichetta di Ani DiFranco, carico di sonorità latinoamericane ma anche di fulgide melodie dagli slanci electro.

Ecco, quindi, che alle sensuali e delicate armonie tropical/jazz di Habite Em Mim e Kamo (Dark Stripe) si contrappongono gli esotismi sperimentali di Twins, le progressioni sambadeliche di Jardim Di Alma e le concezioni “avanguardistiche” di Make That Sound che avrebbe molto da insegnare ai Blur di Think Thank. Proseguono sulla stessa strada, tra innovazione e costume, De Lama Lamina e la stessa title track.

Insomma, variopinto e allo stesso tempo nostalgico, Salt non lascia alcun dubbio sul talento di Arto Lindsay, tropicalista convinto che rende omaggio ai riti pagani del carnevale attraverso dieci canzoni, popolari e disturbate, cantate sia in portoghese che in lingua anglosassone. Un miscuglio di elettronica e ritmi brasiliani che riaccendono lo spirito e la voglia d’estate. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 37 del 4 ottobre 2006

 

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Cat Power – The Greatest (2006)

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Eh sì, questa volta Chan Marshall (alias Cat Power) mi ha davvero stregato. Non tanto per quella innegabile e smisurata bellezza capace di rapire il cuore anche del più imperturbabile dei dongiovanni, quanto invece per quell’intimità, quella mitezza e quel travagliato lirismo (Hate e Where Is My Love) che la cantautrice americana è riuscita a racchiudere con apparente tranquillità dentro quest’ultimo lavoro, The Greatest.[1] Un album più accessibile e meno spigoloso dei dischi precedenti che, tuttavia, rivela la fragilità e la disperazione di un’artista alla ricerca di un nuovo equilibrio. Un equilibrio che qui sembra essere ritrovato, almeno musicalmente, e da cui scaturiscono dodici tracce dalle essenze soul/country (Could We, Willie, Empty Shell e Island) che vanno dritte al muscolo cardiaco; piccoli tasselli di una “complessa omogeneità” che riescono a incastonarsi all’interno di lievi aritmie jazz (Lived In Bars) mettendo in luce brani dalle atmosfere pop/folk (The Greatest), dai tepori blues (After It All) e persino dalle fisicità rock (Love & Communication). Un lavoro estremamente godibile che, oltretutto, trova il supporto di alcuni super musicisti come, per esempio, Mabon Lewis “Teenie” Hodges, Leroy “Flick” Hodges, Steve Potts e Dave Smith. Ecco quindi che con un titolo altezzoso (“Il/La più grande”) e con una copertina fucsia (colore dell’affermazione e dell’individualità), Cat Power non esita a intraprendere una “nuova strada” consegnandoci, dopo due meraviglie quali Moon Pix del 1998 e You Are Free del 2003, un altro grande disco dove musicalità e scrittura trascendono il dolore e le sconfitte della vita. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 36 del 4 settembre 2006



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Fatboy Slim – Palookaville (2004)

A quattro anni di distanza da Halfway Between the Gutter and the Stars (2000) e dopo un paio di riempitivi usciti nel 2002 (Live On The Brighton Beach e Big Beach Boutique II), Norman Cook (originariamente all’anagrafe Quentin Leo Cook), noto al grande pubblico come Fatboy Slim, torna a rianimare i disco club d’Europa con un lavoro concepito nella sua casa studio di Brighton.[1]

Un album desiderato, pensato e ben fatto in cui “vecchio e nuovo”, “passato e presente”, “anticonformismo e gusto del momento” si fondono alla perfezione, generando un’elettronica a misura d’uomo abile come poche a rallegrare lo spirito. Palookaville, questo il titolo che il deejay inglese ha scelto per la sua quarta creatura in studio (lo stesso del bellissimo film di Alan Taylor del 1995), è un disco composto da dodici tracce a base di misture soul/funk/rhythm’n’blues, guizzi di estrazione rock, ritagli di breakbeat e libidini hip-hop.

L’album, inoltre, vede la collaborazione di numerosi personaggi tra cui Damon Albarn (Put It Back Together), Lateef the Truthspeaker (Wonderful Night e The Journey) e Bootsy Collins (bassista dei Funkadelic e dei Parlamient) con il quale Fatboy Slim ha realizzato una splendida cover della Steve Miller Band (The Joker).

Considerata la popolarità del personaggio non poteva mancare il classico tormentone da MTV (il cosiddetto “singolo apripista”), stiamo parlando ovviamente di Slash Dot Dash (barra-punto-trattino), un brano dalle tempre hard rock/dance che, nonostante le continue (e nauseabonde) reiterazioni mediatiche, non perde mai di impeto, di vigore e di profondità.

Se poi le atmosfere di Song For Chesh dovessero rivelarsi piuttosto inconsuete, poiché prossime a quelle dei Pizzicato Five, mettete su Jin Go Lo Ba e riconsegnerete il Re del big beat alle masse di Ibiza. Infine, se volete farvi toccare le corde del cuore, ascoltate North West Three e Don’t Let The Man, esempi inequivocabili di passione, di conoscenza e di creatività musicale, peculiarità che hanno sempre contraddistinto l’evoluzione artistica dell’ex bassista degli Housemartins fin dai tempi in cui si faceva chiamare Pizzaman. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 35 dell’8 luglio 2006



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Offlaga Disco Pax – Frosinone, Cantina Mediterraneo (12.04.2006)

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La Cantina Mediterraneo è un posto piccolo, angusto, semplice ma estremamente coinvolgente. Uno di quei pochissimi locali della provincia di Frosinone in cui puoi ascoltare sempre della “buona musica”. Un luogo ospitale, puoi andarci tranquillamente da solo e sentirti sempre a tuo agio.

Arrivo infatti in perfetta solitudine, giusto in tempo per l’inizio del concerto. Sulla porta d’ingresso c’è un cartello scritto a mano “Stasera Offlaga Disco Pax, sottoscrizione 1 euro” (dovete sapere che i concerti alla Cantina Mediterraneo sono sempre gratis, questa sera però lo staff ha voluto osare chiedendo una sorta di “offerta obbligatoria”, una sciocchezza per far fronte alla tantissime spese di gestione). Questo per dirvi che quelli della Cantina sono persone davvero in gamba ma soprattutto con una gran passione, credetemi, per non parlare poi di Franco (il boss).

Apro la porta del locale, quindi, e mi ritrovo di fronte un gran numero di persone stipate a ridosso del piccolo palco, tutte sorridenti e pronte a far esplodere il proprio entusiasmo con Kappler (“Io dormivo, mia madre andava a lavorare presto…”). In un momento gli occhi sono lucidi e le labbra sembrano muoversi al rallentatore.

Mi fermo ad ascoltare, poi riparto. Faccio ancora qualche passo, ma non è affatto facile riuscire a conquistare una qualsivoglia posizione. Mi fermo allora, tentando di scorgere Max Collini da un angolo del locale. Eccolo, lo intravedo. È lì, immobile, dritto e impassibile, con uno sguardo preso da non so cosa. Chissà, forse è catturato dall’entusiasmo di tutti quei giovani che sono lì soltanto per gli Offlaga e per quel Socialismo Tascabile che muove gli sguardi ma anche le coscienze. Ogni tanto si dimena, trascinato dal pubblico che balla al ritmo di Enver e di Cinnamon e che lentamente si lascia attraversare da Tatranky e Tono Metallico Standard.

A esser sinceri gli Offlaga Disco Pax li avevo già visti qualche tempo fa al Soundlabs Festival 2005 di Roseto degli Abruzzi, davanti a un numero ristretto di appassionati e su un palco piuttosto grande (sproporzionato direi), ma non mi avevano emozionato. Stasera però tutto torna: c’è un palchetto fatto di tavole alto appena pochi centimetri, un gruppo trascinante ma soprattutto tanta – ma tanta – bella gente. Insomma: una Piccola Pietroburgo.

ML – UPDATE N. 33 (2006-06-04)

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The Coral – Magic And Medicine (2003)

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Dopo lo scoppiettante esordio del 2002, la formazione di Hoylake (Liverpool) si presenta al grande pubblico con un disco più riflessivo e meno crepitante del precedente. Magic and Medicine è, infatti, un album mitigato nelle atmosfere, dove il canto di James Skelly – abile, a tratti, nel rievocare quello di Lee Mavers dei La’s – trova finalmente equilibrio e dove certe classicità sonore (’60 e ’70) vicine a formazioni come Kinks, Love, Animals e Beach Boys diventano meno boriose e impudenti. E così, tra reminiscenze garage rock (Confessions Of A.D.D.D., Talkin’ Gypsy Market Blues) e inclinazioni neo-psichedeliche (All Of Our Love, In The Forest), si registrano echi country western di Morriconiana memoria (Don’t Think You’re The First, Secret Kiss, Bill McCai) e ballate folk, melliflue (Liezah) e sofferenti (Eskimo Lament), mentre gli ammiccamenti jazz di Milkwood Blues e le andature latino-americane di Careless Hands completano e suggellano, anche se in maniera diversa, questo secondo lavoro dei Coral. Un condensato di musica pop dagli effetti magici e terapeutici. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 45



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Low – Trust (2002)

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Un sibilo misterioso seguito da un tonfo di tamburo, così si apre il sesto lavoro in studio della formazione di Duluth (Minnesota). Sette minuti circa di andature scheletriche e chitarre dilatate accompagnate da un canto flebile e ossequioso. Consumata (That’s How You Sing) Amazing Grace qualcosa però sembra cambiare: le corde si inaspriscono, la ritmica diventa regolare e la melodia sembra fare l’occhiolino al pop. Ma Canada è soltanto un’illusione. Con Candy Girl infatti si torna nelle caligini notturne in cui risuonano nenie e colpi di grancassa quasi per addolcire una morte lenta. Si procede a rilento, con affanno e agitazione, ma non si vedono altro che lande desolate e paesaggi senza luce da cui si odono soltanto rumori cosmici e tristi invocazioni corali. Poi, finalmente, arriva il canto libero e fatato di Tonight, l’unico brano in grado di concederci un po’ di quiete che, tuttavia, non basta a cambiare il nostro stato d’animo. Ecco quindi che una volta giunti alla fine del disco si avverte un profondo senso di smarrimento, destabilizzante ma allo stesso tempo liberatorio. Ci si sente attoniti e sbigottiti, ma anche così incredibilmente purificati. Forse perché Trust è “rock al rallentatore” che scorre lungo i bordi di una psichedelia (oscura e maniacale) capace di infondere, attraverso le sue ballate disperate, una piacevole sensazione di purificazione. (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – Update n. 30 del 23 marzo 2006



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