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Stephen Malkmus – Face The Truth (2005)

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Con quest’ultimo lavoro[1] Stephen Malkmus riscatta la magra figura rimediata nel 2003 con Pig Lib superando, seppure di una spanna, il sorprendente e omonimo esordio da solista del 2001. Face The Truth comprende infatti undici splendide tracce dalle essenze pop e dai riverberi colorati che confermano – una volta per tutte – il talento assoluto dell’ex frontman dei Pavement. Lo si capisce immediatamente ascoltando Pencil rot e I’ve hardly been che, tra ninnoli elettronici e lievi astrattezze rumoriste, sembrano saltar fuori dal lato migliore di Think Tank dei Blur. Lo si intuisce tendendo l’orecchio alle radiose armonie di Freeze the saints e Mama e facendo girare canzoni come Baby c’mon, Loud cloud crowd e It kills che sfoggiano altresì tempre seventies, cantilene oblique e arrangiamenti stile anni ’80. Non manca poi quel misto di psichedelica/folk/new-wave assaporabile nelle estensioni di No more shoes (ben 8 minuti di durata!) e nelle fugaci trasfigurazioni lisergiche di Malediction. Con Post-paint boy si respira, invece, l’aria dello slacker scanzonato di Crooked Rain, Crooked Rain (1994) mentre Kinding for the master si avventura in territori disco/funk/blues e stramberie alla Prince. Insomma, un disco essenzialmente melodico ma in grado di toccare un po’ tutti i vertici sonori cari al “rockfilo” più infervorato. Mi verrebbe da dire che quello ascoltato è un lavoro quasi a 360 gradi, tuttavia mi rendo conto che una simile definizione potrebbe stizzire il mondo della critica specializzata, se non addirittura me stesso tra qualche mese. Però una cosa posso affermarla: Face The Truth è una prova “completa” che mette in risalto le straordinarie capacità dell’artista americano. Un’opera immediata, vivace e al tempo stesso intensa che, nel giro di quarantatré minuti, riesce a infilarsi negli anfratti più reconditi dell’anima. Un album stravagante, iridescente e a tratti lievemente accigliato che non deluderà affatto le vostre aspettative. Provate a immaginare uno spensierato e giovane Lou Reed che canta sulle spiagge assolate della California. Fatto? (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – n. 10 del 24 maggio 2005



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