Categorie
musica

Cesare Basile – Hellequin Song (2006)

Cesare-Basile-Hellequin-Song.jpg
Hellequin Song è un album che ricalca parte delle atmosfere dell’acclamato Gran Calavera Elettrica del 2003. Di quest’ultimo, infatti, ne ritaglia le ombre e ne custodisce la poesia dando vita a canzoni come Dal cranio, Finito questo, Hellequin song e To speak of love che in qualche modo sembrano specchiarsi nelle ormai conosciute Cantico dei tarantati, Trave, In coda e Little bit of rain. Ma se da un lato mancano quei dinamismi schiettamente folk e rock di Apocrifo, Orto degli ulivi, L’albero di giuda e Primo concime, dall’altro invece si levano suoni lisergici, andature alt. country (Dite al corvo che va tutto bene) e cadenze swing (Continuous lover e Silent sister) capaci di bucare la pelle e di disegnare scenari di felliniana memoria (è il caso di Deserto, sublime ballata teatrale dove la vita si consuma attraverso piccoli riti e torride visioni). C’è poi Ceaseless and Fierce, brano che racchiude sregolatezza e lirismo a metà strada tra Howe Gelb e Tim Buckley, mentre la scarna Odd man blues riecheggia il delta del Mississippi e la chitarra di Robert Johnson. A dar man forte all’ex Candida Lilith e Quartered Shadows ci pensano infine Hugo Race, Michela Manfroi, Giorgia Poli, Jean-Marc Butty e John Parish che, come accadde tre anni fa, si accomoda nuovamente in cabina di regia. I testi, mai banali, raccontano l’asprezza della passione (inchiodato all’amore/il coltello non chiede il permesso di uscire/lascia solo il silenzio/lascia solo il silenzio e un legno a marcire) ma anche l’audacia di questo lento vivere (questo è il palco che rompe la voce/quando il canto è più dolce/questo è il giorno che piove negli occhi/questo è giusto il deserto) in cui trovano spazio il fervore elettrico di Fratello gentile, la strumentale Tema di Laura e la breve storia di Stella & The Burning Heart. Brandelli di vita che, a dodici anni dall’esordio solistico (La Pelle, 1994)[1], confermano il talento artistico e universale del viandante e musico siciliano. (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – n. 28 del 26 febbraio 2006



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento

Categorie
musica

Electric President – S/T (2006)

electric-president.jpg
Dream pop farcito di raffinata elettronica da laptop e ricoperto di morbide glasse folk: è questa la ricetta musicale degli americani Electric President. Niente di più. Eppure S/T, pezzo dopo pezzo, rivela fragranze ben più complesse di un semplice impasto di sostanze melodiche e di fermenti digitali (se volete, chiamatela pure indietronica), e quel qualcosa in più sembra essere proprio l’essenza autorale che Ben Cooper & Alex Kane riescono ad aggiungere diligentemente in ogni traccia del disco, a cominciare dall’invitante Good Morning, Hyprocrite fino alla conclusiva Farewall, che avvicina il duo ai Grandaddy e ai Radiohead. Frammenti che fluttuano leggeri come spuma del mare e capaci di racchiudere in un unico afflato la grazia di Ed Harcourt, la genuinità di Joseph Arthur e la malinconia dei Doves, svelando, oltretutto, digressioni sonore post-industriali. Un succedersi di brani immediati e apparentemente “facili” che, tuttavia, riescono a cingersi di sfumature psichedeliche e di refrain di stampo sixties (Ten Thousand Lines), trovando in Hum e Snow On Dead Neighborhoods gli episodi più coinvolgenti dell’intero album d’esordio. Armonie melanconiche, coretti alla Polyphonic Spree (è il caso di Insomnia) e destrutturazioni ritmiche alla Telefon Tel Aviv (Metal Fingers e We Were Never Built To Last) che si adagiano delicatamente su un tappeto di effetti acustici e di altri incantevoli artifici. Dieci splendide canzoni di pop contemporaneo che di questi tempi non è così facile trovare in giro. (Luca D’Ambrosio)

Recensione pubblicata su ML – n. 26 del 31 gennaio 2006



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
musica

Bonnie “Prince” Billy – Master And Everyone (2003)

BonniePrinceBilly.jpg
L’amore per un disco è un sentimento reale. È qualcosa di strettamente personale che ti attraversa dentro e che non riuscirai mai a spiegare a nessuno.

L’unico artificio è provare a buttare giù dal proprio cuore quattro umili righe di recensione; tentare di tessere con le proprie mani e con la propria coscienza un’agile tela d’emozioni capace di catturarvi in un istante, rendendovi partecipi della seduzione di un’opera al di là di ogni riferimento prettamente stilistico e musicale.

È questo insomma l’auspicio più grande con il quale mi appresto a commentarvi Master And Everyone, un album dalla magnificenza intima e naturale che si sbroglia in appena 34 minuti e che mette in risalto l’aspetto bucolico e indipendente di Will Oldham (alias Bonnie “Prince” Billy). Il cantore di Louisville (Kentucky) sa benissimo che fare rock con dignità e onestà culturale equivale a sopravvivere, ma soprattutto significa credere nei sogni.

Ecco quindi che Master And Everyone, attraverso le sue nobili divagazioni acustiche, la sua gelida poesia e il suo country quieto e bislacco, si candida a diventare uno dei veri dischi alternativi del nuovo millennio americano.

La voce di Oldham è un anelito che riscalda il cuore; sussurri che s’insinuano in ogni angolo del disco, dall’iniziale The Way fino all’adorabile Hard Life che sorprende per intensità e melodia.

Dieci composizioni soffici e vaporose, suonate quasi alla maniera di Nick Drake, che vedono la partecipazione di Tony Crow, John Kelton, Matt Swanson, Gary Tussing e Marty Slayton che accompagnano il nostro Principe in questo viaggio silenzioso e notturno.

Un quadretto d’acquerelli dove è possibile scorgere la bellezza della pace e della virtù. È inutile continuare: adoro questo disco! (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata prima su ML – Update n. 24 del 20 dicembre 2005 e successivamente su ML – Update n. 45 del 20 aprile 2007



/script>

Categorie
musica

Pink Mountaintops – S.T. (2004)

PinkMountaintops.jpg
Dopo i Jerk With A Bomb e i Black Mountain, ecco un’altra creatura partorita della fervida mente del canadese Sthephen McBean, i Pink Mountaintops, uno dei progetti più insoliti e interessanti del momento.[1] Un esordio dai sigilli “classici” capace di raccordare, in maniera del tutto originale, nuclei psichedelici, andature folk rock e persino sequenze elettroniche ben misurate. Musica di una volta, ci verrebbe da dire, ma con qualcosa di attuale. E quel qualcosa di attuale è il modo in cui il nordamericano è riuscito a mettere insieme Neil Young con i Grant Lee Buffalo, i Velvet Underground con i Morphine, Gram Parsons con i Grandaddy. Ballate eteree (Rock’n’roll Fantasy) e graffianti (Sweet ‘69) che racchiudono passaggi floydiani e percorsi di velvettiana memoria (Tourist In Your Town). Otto tracce narcotiche e dagli ambienti quasi autunnali (I Fuck Mountains) imperniate sostanzialmente su voce, chitarra e ritmiche circospette che affidano la conclusione a una più che piacevole (anche se fuorviante) cover dei Joy Division, una versione psychedelic pop di Atmosphere. Un debutto insomma che non possiamo fare a meno di consigliare, soprattutto a coloro che, pur guardando avanti, non hanno mai smesso di rovistare nel passato. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 24 del 20 dicembre 2005



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
musica

John Parish – Once Upon A Little Time (2005)

John-Parish.jpg
Sono le languide e brevi note di Salò a far schiudere questa nuova fatica di John Parish. Un lento succedersi di tasti in bianco e nero che sembrano restare sospesi tra il cielo e la terra, per poi abbandonarti improvvisamente, lasciando il passo all’incedere pigro, ossessivo e vacillante di Boxers, dove il canto biascicato di Parish incontra le morbide linee di basso di Giorgia Poli, le cadenze ritmiche di Jean-Marc Butty, le tastiere di Marta Collica e la slide guitar di Jeremy Hogg. Passaggi di deragliante torpore come le strumentali Stranded e Water Road che riecheggiano certe atmosfere colte/depressive di Joseph Costa e Lindsay Anderson (in arte L’Altra), mentre Choise e Glade Park trasferiscono le emozioni in quei territori musicali bazzicati dagli Eels e dai 16 Horsepower. C’è poi il folk pop, elettrico e dalle code sixties, di Even Redder Than That che assieme a Kansas City Electrician incalzano quelle scie post-country tracciate da gruppi come Walkabouts, Yo La Tengo, Giant Sand e Lambchop. Dopo How Animals Move del 2002, Parish realizza un disco intimo e familiare che riesce tuttavia a sfoggiare toni lisergici (Somebody Else e The Last Thing I Heard Her Say), fragori a bassa fedeltà (Even Redder Than That) e vigori indie rock che in alcuni momenti fanno pensare al miglior Beck (Sea Defences). Registrato da Marco Tagliola tra Brescia, Bristol e Copenhagen, Once Upon A Little Time (titolo suggerito dalla figlia di Parish, la piccola Hopey) è un lavoro che non manca d’ispirazione e di compattezza, capace di racchiudere delle piccole gemme musicali che raccontano la vita così com’è: seria, triste, allegra e altre volte frivola. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 23 del 12 dicembre 2005



Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
musica

It’s Jo and Danny – But We Have The Music (2003)

It's-Jo-and-Danny-But-We-Have-The-Music.jpg
But We Have The Musicè un altro bel disco di Jo Bartlett e Danny Hagan che, tra essenze rock (Velvet Underground) e melodiose ricreazioni pop (Belle and Sebastian), imbastiscono trame acustiche e bizzarri grovigli folk ed elettronici. Ma non solo, perché i brani di questo terzo lavoro dei britannici It’s Jo and Danny lasciano trasparire persino una certa new wave e taluni strascichi psichedelici alla My Bloody Valentine. Un album pieno di idee, dove ogni composizione sembra irrorarsi di un tono impercettibilmente crepuscolare e dove alla gentilezza e alla limpidezza del canto femminile di Jo Bartlett (pensate a una cantante country) si contrappongono tracce strumentali e misture elettroniche come Cool Breeze, Stella Maris e Sound Of Barra. Un disco multiforme che ci piace ascoltare non solo per quella inconfondibile leggerezza capace di rincuorare lo spirito e la mente (si ascoltino, per esempio, Lost And Found, Godsend e Better Off) ma anche per via di quei singolari sottofondi radiofonici che si avvertono quasi ovunque nel CD: dal folk/rock di Mean fino alla disturbata Late Night Doubts, passando per le semioscurità di The Sooner, It Should Have Been Me e Let It Happen. Insomma, quando tutto sembra non andare per il verso giusto ricordatevi di questo album perché in fondo, amici miei, noi abbiamo la musica. Non dimenticatelo mai! (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 22 del 15 novembre 2005



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
musica

Robert Wyatt – Cuckooland (2003)

Robert-Wyatt-.jpg
Dopo l’esperienza collettiva con i Soft Machine e l’ineguagliabile Rock Bottom del 1974, Robert Wyatt suggella la propria carriera da solista con un album ancora una volta insolito e di una bellezza non comune, Cuckooland. Un’opera intima e commovente, dagli accenti meno sperimentali del precedente, che ripropone, a sei anni di distanza da Shleep, quello stesso concetto di musica senza schemi: composizioni che scorrono come pellicole in bianco e nero al ritmo suggestivo di un jazz fumoso e allo stesso tempo confortante; partiture deliziose e sussurranti espressioni della memoria che si estendono dentro ambienti etnici e spirituali. Un lavoro dai tratti romantici e dalle fogge stravaganti che diffonde, malgrado i toni offuscati e una latente inquietudine, una silenziosa e incantevole vivacità. Caratteristiche che fanno di Cuckooland un disco semplicemente adorabile, madido di poesia e di costumata partecipazione politica, che, tuttavia, prende le dovute distanze da quelle oratorie compiacenti e da quelle celebrazioni calcolate tipiche del musicista impegnato. Perché Wyatt non è il classico personaggio che cerca a tutti i costi le luci della ribalta. Lui è diverso dagli altri, se ne sta tranquillo nella sua casa di Lincolnshire, insieme a sua moglie Alfreda Benge (Alfie) e guarda questo mondo con lo sguardo di chi ha sofferto (sono più di 30 anni che l’ex Soft Machine è costretto a vivere su una sedia a rotelle)[1], di chi racchiude una speranza nel cuore, di chi è riuscito a trovare nella musica il seme dell’esistenza, di chi, nonostante i numerosi ricordi d’intolleranza, confida ancora nella saggezza di questa umanità. Così, con la complicità della moglie Alfie, nascono canzoni come Old Europe (liberamente ispirata alla vicenda d’amore tra Miles Davis e Juliette Greco) che rende omaggio alla Parigi di un tempo, rifugio di artisti americani poco stimati in patria. C’è poi la stralunata e teatrale Cuckoo Madame, mentre Forest è una sorta di blues onirico e narcotico: un tributo alle popolazioni di etnia rom. In Foreign Accents, invece, le parole diventano musica e combattono le falsità ideologiche anglo-americane, quasi un upload – come lui stesso ha affermato – di un vecchio brano di Old Rottenhat (1985), The United States Of Amnesia. Le cover di Raining in My Heart (Bryant & Bryant) e Insensatez (di Jobim/Moraes con il canto evanescente di Karen Mantler) sono chiari esempi d’integrazione culturale. La conclusione infine è affidata a una versione strumentale di un brano arabo, La Ahada Yalam (No-One Knows), sviluppato magnificamente dal “soffio vitale” del jazzista israeliano Gilad Atzmon e dal contrabbasso di Yaron Stavi: l’ultimo lembo di questo meraviglioso luogo musicale. Settantacinque minuti di preziose armonie abbozzate dentro le mura di casa e riprodotte nello studio di Phil Manzanera, con il supporto dei soliti amici (Brian Eno, Paul Weller e David Gilmour) e di un nugolo di musicisti che ruotano attorno al circuito jazz d’oltremanica, tra cui Annie Whithead che suona il trombone nel magnifico brano d’apertura Just a Bit. Insomma, Cuckooland è un posto fantastico in cui Wyatt trafuga le proprie certezze e le proprie paure. Una terra sconosciuta, l’unica in grado di filtrare “realtà e immaginazione”, la sola capace di concepire inconsuete e impalpabili forme di comunicazione di questo nuovo millennio. E mi raccomando, non lasciatevi distogliere dalla durata eccessiva del disco, perché soltanto l’ardente pazienza vi porterà al raggiungimento di un intenso piacere. Minuto dopo minuto, fremito dopo fremito, nota dopo nota. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 21 del 6 giugno 2005



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento

Categorie
musica

Eleventh Dream Day – Prairie School Freakout (1988)

Acquistato per pura casualità in un’epoca contraddistinta soltanto da riviste musicali e da qualche buon programma radiofonico notturno (stiamo parlando degli anni Ottanta), Prairie School Freakout degli Eleventh Dream Day fu una piacevole rivelazione soprattutto per chi, non soddisfatto di band imprescindibili quali R.E.M., Hüsker Dü, Dream Syndicate e Sonic Youth, continuava a scavare in quel fertile substrato rock cosiddetto “underground”.

Formatisi agli inizi degli anni ‘80 grazie al sodalizio tra Rick Rizzo (voce e chitarra) e Janet Beveridge Bean (batteria e voce), la formazione di Chicago realizzò, con l’ingresso del chitarrista Baird Figi e del bassista Douglas McCombs (già nei Tortoise), il suo primo lavoro sulla lunga distanza che seguiva l’omonimo mini album d’esordio del 1987.

Correva l’anno 1988 e Prairie School Freakout, registrato l’anno precedente a Lousiville (Kentucky) in appena sei ore, rappresentò un buon viatico per chi in quel periodo stava aspettando qualcosa di nuovo ed esplosivo. Gli Eleventh Dream Day riuscirono infatti ad anticipare, seppure in maniera empirica e confusa, quell’esigenza di trasformazione che da qualche tempo si avvertiva nell’aria e che, nel 1991, sarebbe culminata alla perfezione (e altrove) nel post punk melodico e rumorista (leggasi grunge) di Nevermind dei Nirvana.

Ne venne fuori un album “a bassa fedeltà” e dalle sonorità decisamente corrosive capaci di mettere insieme il paisley underground con l’hardcore punk, il folk rock con la psichedelia, il noise con il garage. Dieci brani di una “classicità trasversale” che fecero incontrare Neil Young & Crazy Horse con i Television e i Gun Club con i Dream Syndicate.

Un alternarsi di voci, chitarre distorte e passaggi ritmici che trovarono gli episodi migliori nella bruciante apertura di Watching The Candles Burn e nella sequenza composta da Tarantula, Among The Pines, Through My Mought e Beach Miner (quattro tracce da ascoltare tutte d’un fiato). Un disco “minore” per chi, oggi come allora, non hai mai smesso di rovistare nel sottosuolo della musica rock. (Luca D’Ambrosio)

P.S.
La versione rimasterizzata del 2003 vede l’aggiunta dell’EP “Wayne” e di un CD-ROM contenente alcune tracce video.

[1]Recensione pubblicata su ML – Update 61 del 28 gennaio 2008

Categorie
musica

Calexico – Carried To Dust (2008)

Calexico--.jpg
Che i Calexico di Joey Burns e John Convertino stessero incamminandosi – forse anche senza rendersene conto – verso una nuova direzione musicale ne avevamo avuto il sentore già con Feast Of Wire del 2003, un album in cui gli ex componenti dei Giant Sand iniziarono a tingere, ad arte e con piccole pennellate, una tela sonora appena più policroma e non più strettamente legata a quel suono folk roots e di frontiera a cui ci avevano abituati precedentemente con Spoke (1997), The Black Light (1998) e Hot Rail (2000). Un lavoro – Feast Of Wire – che nel giro di tre anni avrebbe traghettato la band di Tucson (Arizona) verso un sostanziale cambiamento “pop” (ascolta Garden Ruin del 2006). Una trasformazione che, oltretutto, non ci aveva neanche delusi, non solo per l’audacia dimostrata da Burns e Convertino nel sapersi rimettere in gioco ma, in particolar modo, per lo spessore delle nuove composizioni capaci di conservare, nonostante un’evidente leggerezza melodica, quel caratteristico “profumo” di tex-mex. Quella stessa “fragranza” sonora emanata da quest’ultima fatica[1] di Casa Calexico che, pur rispecchiando l’impriting di Garden Ruin, sembra rivolgere lo sguardo al passato pescando, qua e là, proprio da quel Feast Of Wire da cui erano nate le loro prime riflessioni. Ecco, quindi, che ne esce fuori un disco dalla bellezza ibrida dove agli smalti iniziali di Victor Jara’s Hands (che vede la partecipazione di Jairo Zavala) e Two Silver Trees con Nick Luca alla chitarra elettrica, fanno eco la strumentale El Gatillo (Trigger Revisited), che spilla mariachi e fischiettate morriconiane, e la languida e conclusiva ballata folk Contention City, mentre Fractured Air (Tornado Watch) mette insieme dub, rock e un sound spagnoleggiante quasi alla maniera dei Clash (un riferimento che non può che sottolineare la grandezza dei Calexico, nei confronti dei quali nutro un sopito e innegabile amore alla stregua dei R.E.M.). Numerose, infine, le collaborazioni: da Pieta Brown e Sam Bean (Iron & Wine), che cantano rispettivamente in Slowness e House Of Valparaiso, ad Amparo Sanchez che, assieme al trombettista Jacob Valenzuela, presta la propria voce in Inspiraciòn, brano che sembra uscito direttamente dal progetto Buena Vista Social Club di Ry Cooder. C’è persino la partecipazione di Vinicio Capossela in Polpo, extra track presente nel CD in versione italiana di cui purtroppo non posso dirvi nulla avendo acquistato quella americana. A tutti i nostalgici di certe sonorità della formazione di Tucson, invece, posso tranquillamente affermare che i Calexico di Carried To Dust, anche se non sono più quelli di The Black Light, continuano a piacermi lo stesso, soprattutto per quell’indiscutibile capacità di fare canzoni leggere come il vento, in grado di portare ancora con sé la polvere del deserto. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 58 del 28.10.2008



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento




Categorie
musica

Okkervil River – The Stand Ins (2008)

okkervil-river.jpg
The Stand Ins degli Okkervil River è un altro disco da annoverare tra le uscite più belle del 2008. È bastato un ascolto, attento e tutto di un fiato, per rafforzare l’idea che ci troviamo di fronte a una delle band americane più carismatiche e fertili di questi ultimi anni. Una formazione che, dopo l’acclamato Black Sheep Boy del 2005, ha saputo rigenerarsi con un sound più “immediato e vivace”, mettendo da parte certe atmosfere “difficili e depresse” dei primi lavori e imboccando una strada – come dire? – più mainstream, più facile da ascoltare. Un lavoro che sulla scia del gemello The Stage Names del 2007 mette in linea canzoni semplici e di rara bellezza ma che, per gli amanti dell’inaudito a tutti i costi, potrebbe risultare “scontato” e “noioso”. Al contrario, invece, The Stand Ins si rivela un album coinvolgente e ben strutturato con arrangiamenti cristallini e testi meravigliosi e mai banali, il tutto suggellato dalla inconfondibile voce di Will Sheff che in Lost Coastlines duetta, per la gioia di molti di noi, con Jonathan Meiburg degli Sheawater. Ecco quindi che, ancora una volta e a distanza di un anno, il gruppo di Austin (Texas) riesce dove gli altri avrebbero potuto sbagliare facilmente perché – detto tra noi – stiamo pur sempre parlando di semplici canzoni folk, pop e rock… (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 57 del 09.09.2008



Cerca e compra online il biglietto dell’evento che desideri

T1_Generic_468x60

Cerca e compra un disco, un dvd, un acccessorio di abbigliamento