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Early Day Miners – All Harm Ends Here (2005)

Early Day Miners
All Harm Ends Here racchiude gran parte delle esperienze musicali maturate in questi anni dagli Early Day Miners.[1] Una sorta di compendio artistico, naturale e proteiforme, che intreccia il torpore di Placer Found (2000), l’impeto passionale di Let Us Garlands Bring (2002) e l’aspetto pressoché cantautorale di Jefferson At Rest (2003), e che trova nella confortevole voce di Daniel Burton e nelle mitezze armoniche di The way we live now e We know in part degli autentici e inconfondibili marchi di fabbrica.

Ma se da un lato si scorgono strutture di un passato arido e abulico (The purest red) e scampoli di elettricità che scorrono sulle guide di uno slowcore sregolato e talvolta prossimo al noise (Errance), dall’altro, invece, si intravedono tracce oscure e caliginose come Precious blood e All harm che sembrano inseguire gli strascichi sonori di formazioni quali Bauhaus ed Echo & The Bunnymen. Elegie dilatate e accenni di violino (sono gli archi di Maggie Polk) che fluttuano sulle onde di un mare profondo, ora fermo, ora agitato.

Nove solchi rispettabilissimi, permeati dal sincronismo di una collaudata sezione ritmica – Matt Griffin alla batteria e Jonathan Richardson al basso – e dalle aperture chitarristiche di Joseph Brumely e Kirk Pratt. Quelle realizzate dal gruppo di Bloomington, Indiana, sono canzoni dalle costruzioni elettriche (Comfort/guilt), dai rimandi post-rock (The union trade) e dai riverberi popolari (Townes) che fanno di questo album il “luogo ideale” in cui condividere questa prima parte di vita e di carriera della formazione americana.[1] Un immaginario sonoro fatto di torbidi richiami neo-tradizionali e di ambienti tenebrosi che a stento riuscirete a scrollarvi di dosso. Scommettiamo? (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – Update n. 4 del 21 marzo 2005

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R.E.M. – Lifes Rich Pageant (1986)

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Uno dei dischi inamovibili della mia formazione culturale è senza ombra di dubbio Lifes Rich Pageant dei R.E.M.: quarto LP della band di Athens (Georgia) prodotto dall’abile Don Gehman. Un album immediato e dinamico che mette insieme pop (Fall on me), folk (Swan Swan H), punk (Just a touch), country (I believe) e brani dalle atmosfere sixties/garage (Superman, cover dei texani Clique cantata da Mike Mills). Dodici tracce che bucano l’epidermide, energiche (These days, Hyena), malinconiche (The Flowers of Guatemala) e finanche bizzarre come Underneath the bunker. Un 33 giri che sancirà l’impegno politico/ecologista di Berry (batteria), Buck (chitarra), Mills (basso) e Stipe (voce) e che allargherà i confini del sound “remmiano”. Imprescindibile per chi ama i R.E.M.

ML – UPDATE N. 3 (2005-03-15)

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Low – The Great Destroyer (2005)

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Dopo Things We Lost In The Fire (2001) e Trust (2002) – opere di spirituale bellezza in grado di comprimere l’essenzialità dello slowcore e il torpore della psichedelia all’interno di strutture armoniche dai rimandi pop -, i Low aggiungono un altro straordinario tassello alla loro encomiabile evoluzione musicale. Un album – come dire? – “diverso” dai lavori precedenti (a causa delle sue nervature essenzialmente rock e discretamente noise), tuttavia profondo e deflagrante, flemmatico e immateriale come sempre. Un disco che procede instancabilmente lungo i solchi acustici della forma canzone (la pregevole When I go deaf e l’eccelsa Death of a Salesman) ma capace di esplorare altre dimensioni sonore dove le ritmiche si infervorano e le chitarre si inaspriscono (Monkey, Everybody’s song). The Great Destroyer, settimo full-lenght del trio di Duluth prodotto da David Friedmann (The Flaming Lips e Mercury Rev), è una sorta di sintesi artistica che fonde (o distrugge?) la mitezza dei Beatles, il disagio dei Velvet Underground e l’impeto dei Sonic Youth. Grazie al talento di Alan Sparhawk (voce e chitarra), Mimi Parker (voce e percussioni) e Zak Sally (basso), ecco a voi un’altra meraviglia senza tempo con la quale, probabilmente, faremo i conti alla fine dell’anno. [1] (Luca D’Ambrosio)

[1] Recensione pubblicata su ML – Update n. 3 del 15 marzo 2005



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The Pogues – Rum Sodomy & The Lash (1985)

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Un titolo tratto da una (presunta) citazione di Winston Churchill, “Don’t talk to me about nava e l’immagine di una zattera malridotta carica di sventurati in costume adamitico (goliardica e personale rivisitazione della “Zattera della Medusa” di Gericault) per il capolavoro folk rock della ciurma più chiassosa e commovente degli anni ’80: i Pogues.

Una galleria d’immagini per dar voce ai poveri e agli oppressi: dai disoccupati ai pescatori di balene, dai vagabondi ai carcerati; un album che giunge dopo appena un anno dall’esordio, Red Roses For Me del 1984, ma che sa scavare nell’intimo, consacrando il genio narrativo di Shane MacGowan, poeta del whiskey e cantore delle verdi colline.

Fiero e impavido come un “qualsiasi” Joe Strummer e con una voce sgraziata e fuori dalle righe, Shane palesa lo spirito del condottiero senza spada, intrepido e allegro sognatore che celebra meraviglie senza tempo (The old main drag) e fugaci utopie (And the band played waltzing Matilda) tra cori, flauti, violini e debordanti fisarmoniche. Strepitoso e toccante come una sbornia tra vecchi amici. (Luca D’Ambrosio)

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Bloc Party – Silent Alarm (2005)

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È il primo lavoro sulla lunga distanza della formazione londinese dopo il discreto EP d’esordio realizzato sul finire del 2004. Cinquanta minuti di sonorità dalle essenze new wave e dalle plasticità pop (This modern love e So here we are) che si fortificano di fervori punk e atmosfere dark. Tredici tracce dagli avvii nevrotici e sobbalzanti come Like eating glass, con chitarre all’unisono e refrain alla maniera dei primi U2, e Blue light che rivela invece soluzioni alla Tv On The Radio. Quelli realizzati da Kele Okereke, Russell Lissack, Gordon Moakes e Matt Tong sono brani immediati, accattivanti (Helicopter) e dagli ambienti lievemente psichedelici (Price of gas); canzoni che entrano subito nella pelle, anzi, nei muscoli. Insomma, questi quattro personaggi britannici potrebbero essere i Cure che si colorano d’immenso, i Talking Heads guidati da David Byrne o gli Interpol che guadano tra le intemperanze collegiali dei Pixies (o dei Dinosaur j.r.) e le oscure cavità dei Joy Division. In verità, però, loro sono (soltanto) i Bloc Party, i nuovi alfieri dell’indie rock. E se gli anni zero saranno ricordati come il decennio del rock revival (dagli Strokes agli Editors passando per i Franz Ferdinand), non dimenticate di inserire questa band e questo disco sotto la voce “post punk revival”. Un album piacevole e sollazzante quanto basta. (Luca D’Ambrosio)

Articolo apparso sul Numero 2 del 2005 di Musicletter.it – PDF



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Linton Kwesi Johnson – Bass Culture (1980)

Un autentico capolavoro dub/reggae che ti assorbe lentamente. Traccia dopo traccia. Ascolto dopo ascolto. Anno dopo anno. Un album che va piano, ma che picchia forte nell’intimo, stanando sogni e impavide passioni che si propagano attraverso il ritmo della poesia.

Episodi apparentemente fatui e senza nerbo, ma infinitamente rivoltosi e trascinanti come i versi di Inglan is a bitch e Street 66 che srotolano armonie insinuanti e fremiti di un reggae visionario.

Brani che narrano di discriminazioni, di soprusi razziali e di esecrabili dispotismi di cui fu vittima proprio il giamaicano Linton Kwesi Johnson in terra britannica.

Alla stregua dei Clash, che gettarono un ponte tra la musica bianca, i ritmi caraibici e la cultura dei neri britannici, l’emigrato LKJ (grazie anche alla regia di Dennis Bovell) con questo disco ha posto le basi per quel genere e quella scena che negli anni a venire saranno identificati anche come “Bristol Sound”.

Pubblicato nel 1980 da Island Records, Bass Culture di Linton Kwesi Johnson è un disco necessario. Vitale come il battito del cuore! (L.D.)

PS: articolo pubblicato originariamente sul PDF n. 1 del 2005 di Musicletter.it

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M. Ward – Transistor Radio (2005)

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Se consideriamo Duet for Guitar #2 pubblicato originariamente nel 1999, Transistor Radio è il quarto lavoro di M. Ward, songwriter originario di Portland, Oregon. Un artista che continua a incantare con il suo folk rock intimista e scheletrico (One life away), polveroso e graffiante (Sweethearts on parade), attraverso canzoni che si muovono sull’asse Kurt WagnerWill OldhmanNick Drake e che talvolta si tingono tanto di tex-mex (echi di Calexico soprattutto in Four hours in Washington) quanto di vivacità in odore di rock and roll che fanno pensare a Jerry Lee Lewis (Big boat). Un album fatto anche di passaggi strumentali come Regeneration No.1 e l’iniziale You still believe in me dei Beach Boys, quest’ultima suonata alla maniera di John Fahey. E così, tra minimalismo e lampi di nuove visioni, il buon Ward dà vita a sedici splendidi bozzetti di Old-time music che vedono, tra l’altro, la partecipazione di John Parish, Vic Chesnutt, Rachel Blumburg (The Decemberists) e molti altri ancora. Un disco raro e coinvolgente in cui il musicista americano sembra suonare quasi con la stessa classe ed eleganza di un provetto e insolito Burt Bacharach.

Articolo apparso sul Numero 1 del 2005 di Musicletter.it – PDF


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Intervista su Qui Magazine (2009)

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QUI MAGAZINE Frosinone | Maggio 2009

Musicletter, la musica è in linea di Ilaria Ferri

ALLA FANZINE NATA NEL 2005 PER INIZIATIVA DI LUCA D’AMBROSIO COLLABORANO TANTI APPASSIONATI

L’amore per la musica, la voglia di diffondere una cultura alternativa, il piacere di scrivere, di curiosare e portare alla luce le gemme spesso nascoste del panorama nazionale e internazionale: sono questi gli elementi che hanno portato alla nascita di Musicletter, fanzine creata da Luca D’Ambrosio, oggi una delle riviste on line più consultate e autorevoli, grazie all’apporto di collaboratori appassionati, provenienti anche dal mondo del giornalismo musicale “tradizionale”. Di questa bella realtà abbiamo parlato con Luca (ideatore anche del festival sorano “Riverland”).

Luca, come nasce l’avventura di Musicletter?

Nasce dalla mia passione per la musica e dal tentativo di voler condividere le proprie emozioni cercando di metterle “nero su bianco”. L’avventura è iniziata nel febbraio del 2005 con una semplice newsletter contenente alcune mie recensioni destinata ad appena 300 indirizzi di posta elettronica. All’epoca non avevo alcun collaboratore e il sito ancora non esisteva, anche perché non pensavo minimamente che quell’idea potesse riscontrare così tanto successo. Poi, con il tempo, il numero dei destinatari è andato ad aumentare così come quello dei collaboratori. Il nostro scopo è di fare da filtro alla gran quantità di dischi che oggigiorno si producono e ci vengono propinati dalla rete, dalle radio e dalle stesse riviste specializzate. In un certo senso ci stiamo riuscendo, almeno nel principio generale che è, appunto, quello di scegliere la “buona musica”.

Musicletter è anche cartacea o ha solo un’edizione on line?

ML è scaricabile gratuitamente in formato pdf sul sito www.musicletter.it. Ognuno può farne ciò che vuole: leggerla on-line o stamparne una o più copie per sé o per gli amici. Noi, per esempio, ne facciamo giusto un paio di copie cartacee, anche perché bisogna salvaguardare l’ambiente. Altrimenti tutta questa tecnologia a disposizione a cosa serve?

Quanti contatti al mese avete?

Abbiamo una mailing list di oltre 9.000 indirizzi di posta elettronica a cui spediamo sistematicamente i nostri aggiornamenti. Posso dirti che nell’ultimo mese abbiamo avuto circa 1.300 visite. Il contavisite del sito in questo preciso istante segna 41.358.

Tra i collaboratori ci sono anche nomi noti del giornalismo “tradizionale” nazionale.

Sì, ci sono “semplici” appassionati di musica e critici che collaborano con altre riviste nazionali: tra questi ci sono anche dei giornalisti iscritti all’albo e persino un ex conduttore di Rai Stereonotte. La cosa più importante è che si tratta di gente davvero esperta e in gamba: dal nord al sud dell’Italia. Senza di loro Ml non sarebbe quello che è.

Il Riverland festival ha siglato l’anno scorso la seconda “puntata”.

Dopo tanti anni di “buio culturale” ho tentato di portare una ventata d’aria nuova nella mia città, Sora, realizzando un festival di “musica alternativa” che, nell’ultima edizione del 2008, ha visto esibirsi gruppi come The Niro e Gentlemen’s Agreement. Che atmosfera si è respirata? Semplicemente emozionante e con un pubblico numeroso che è accorso specialmente da fuori.

La prima, nel 2007, invece come è andata?

Molto bene anche se la tensione era davvero altissima. Un’agitazione che è stata sciolta dai Desert Motel capaci di regalarci una serata indimenticabile.

L’edizione numero 3 invece è in forse. Ci puoi spiegare perché?

È una tristezza, ma sono stanco di chiedere l’elemosina per organizzare certi eventi culturali che, oltretutto, vengono snobbati dalla popolazione autoctona e dalle istituzioni locali. Nonostante la buona volontà di alcuni amici e di qualche amministratore, siamo ancora legati a un concetto “tradizionale” e “classico” di cultura. Un esempio? Con tutto il rispetto per i grandi della musica rock, che tra l’altro adoro, conosco gente che ascolta ancora solo ed esclusivamente i soliti nomi come Bruce Springsteen, Bob Dylan, Ry Cooder, i Doors, i Pink Floyd credendo che di musica buona non se ne faccia più. Una sciocca affermazione. La musica buona c’è ancora, basta non smettere di cercarla ma soprattutto di ascoltarla. La vecchiaia spesso fa brutti scherzi. Tornando al festival, posso dirti che, nonostante il successo delle due precedenti edizioni, allo stato attuale ho deciso di mettere tre puntini sospensivi. Il mio auspicio, ovviamente, è quello di trovare un buon samaritano (pubblico o privato) che con un migliaio di euro voglia sostenere questa terza edizione di Riverland. Al momento non vedo vie d’uscita.

Esiste un autore o una band italiana secondo te sottovalutati?

Ti faccio qualche nome che in questo momento mi ronza nella mente: i Flor De Mal (poi Flor), Amerigo Verardi e Moltheni.

Conosci bene la scena musicale provinciale? Che ne pensi?

In linea generale posso dirti che, rispetto al passato, c’è stato un netto miglioramento specialmente nell’area di Frosinone. Qui a Sora, invece, da qualche anno qualcosa si sta muovendo ma siamo ancora lontani anni luce. Il problema è sempre lo stesso: mancanza di cultura “alternativa”. Nonostante i buoni propositi, il substrato culturale è ancora arido.

Perché, secondo te, nonostante tutti gli sforzi e alcuni nomi validi, questa scena non ha mai veramente “sfondato” a livello nazionale?

È il solito mistero italiano. A dire il vero però c’è un personaggio “indie” che conosco e che ha sfondato, si chiama Silvio ma fa un genere troppo “fake” per piacermi (sorride, ndr).

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