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Pillole quotidiane: momenti di gloria

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Soltanto oggi riesco ad aggiornare il blog e a dirvi che domenica 2 agosto 2015 ho ricevuto a Frosinone una targa di riconoscimento per l’attività decennale di Musicletter.it e per la mia collaborazione con il MEI di Faenza.

Il riconoscimento mi è stato assegnato nell’ambito del Festival Nazionale dei Conservatori Italiani di cui, tra l’altro, sono stato giurato nelle serata finale. Una piccola soddisfazione che condivido simbolicamente con tutti gli amici e i collaboratori di Musicletter.it.

Grazie di cuore, davvero.
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Pillole quotidiane: Forever Changes dei Love

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Spesso mi capita di rivedere cose di cui ho perso quasi il ricordo. E ogni volta il pensiero è sempre lo stesso. È come se avessi iniziato tutto daccapo. Una nuova vita. Una nuova strada. Una nuova colonna sonora. Avete presente Forever Changes dei Love? Ecco, la sensazione è proprio quella. (L.D.)



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Pillole quotidiane: Drive dei R.E.M.

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Ricordo che da ragazzo avevo sempre una cassetta dei R.E.M. infilata nello stereo della macchina. Non facevo altro che guidare e ascoltare la loro musica. A volte, quando la benzina scarseggiava, mi fermavo interi pomeriggi nel parcheggio sotto casa, come se il mondo fosse tutto dentro quella cassetta. (L.D.)

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Pillole quotidiane: I Wanna Be Adored degli Stone Roses

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Era il 1989 e un decennio stava per concludersi in maniera colossale. Cadeva il muro di Berlino. Solidarność non era più un sindacato clandestino. Scoppiava la protesta di piazza Tienanmen. Moriva il grande Sergio Leone. I cd prendevano il sopravvento sui vinili. E di lì a poco il grunge ci avrebbe travolto. Ricordo che in quel periodo molti di noi si erano già rotti il cazzo. Eravamo smarriti. Ci sentivamo in una specie di limbo, sospesi tra il passato e il futuro. Poi, per fortuna, arrivarono loro, gli Stone Roses, e tutti in qualche modo ci sentimmo nuovamente a casa. (L.D.)



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Pillole quotidiane: Used Cars di Bruce Springsteen

Sono seduto sul sedile posteriore di una vecchia automobile verde scuro e guardo fuori dal finestrino.

La strada.

I ricordi.

Una canzone.

Mi sembra di essere in Nebraska.

Il cielo è grigio.

Mio fratello dorme sulle gambe di mamma, mentre mio padre guida senza dire una parola.

Nel taschino della mia giacca ho un’audiocassetta nuova di zecca.

Casa è ancora lontana. E io non vedo l’ora di arrivare.

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Eels – End Times (2010)

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Il Mark Oliver Everett di End Times è un uomo solo e malinconico che abbandona le fantasie di Hombre Lobo tornando a cantare il disincanto della vita reale. Lo fa, tuttavia, con l’afflato del poeta crepuscolare che racconta consapevolmente la fine di un tempo oramai andato. Un Mark Oliver Everett che si cala quasi nelle stesse tragiche atmosfere di quell’Electro-Shock Blues in cui il nostro songwriter affrontava con estremo turbamento il dolore per la scomparsa dei propri cari (papà, mamma e sorella), anche se poi questo End Times rispetto a quel capolavoro del 1998 riesce a concedere una maggiore sobrietà compositiva e barlumi di speranza ben più diffusi. Quella cantata da Everett è difatti una “fine” segnata dall’angoscia e dall’indifferenza, in cui riaffiorano ricordi familiari e affetti perduti, senza però mai perdere di vista l’amore per quei piccoli gesti quotidiani che illuminano la vita (The Beginning, I Need a Mother e Little Bird). Un condensato di folgorante mestizia che Mr. E confeziona in perfetta solitudine, o quasi. E il risultato di questo suo ottavo album è magnifico, basta ascoltare In My Younger Days, A Line In The Dirt e Nowadays, brani capaci di trafugare un romanticismo disperato alla stregua di Gone Man, Unhinged e Paradise Bluescapace che, oltretutto, riescono a dar vita a dinamiche sonore ben più vigorose. Scritto nello scantinato di casa a Los Angeles e abbellito da un suggestivo disegno di copertina realizzato da Adriane Tomine, End Times è un disco fatto di ballate folk, nenie pop e attacchi rock che mettono a nudo tutto il rassegnato cinismo e la quotidiana follia di un mondo che rasenta sempre di più l’orlo del tracollo. Uno spaccato ben preciso di un’epoca (la nostra) priva di rispetto e decenza, dove, però, potrete scorgere tutta la dignità di un uomo e di un artista che – nonostante Dio, il fato e gli esseri umani – è ancora qui a scrivere delle grandi canzoni. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – Update n. 70 del 31 marzo 2010



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Pillole quotidiane: Don’t Think Twice, It’s Alright di Bob Dylan

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È primavera inoltrata, anche se fuori piove e fa freddo. In TV stanno beatificando due Papi, mentre in Crimea spirano venti di guerra. Per fortuna poi arriva “Don’t Think Twice, It’s Alright” di Bob Dylan e io improvvisamente mi sento meglio, perché la verità è che non abbiamo bisogno di alcuna religione, ma soltanto di buoni sentimenti. Nient’altro. (L.D.)



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Pillole quotidiane: The Jazz Butcher

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She’s on Drugs era la sigla iniziale di una trasmissione che conducevo presso una delle emittenti radiofoniche della mia cittadina. Era il 1990. Ricordo che tornavo a casa stanco morto da Roma. Ciononostante, appena varcata la porta della mia cameretta, racimolavo una decina di ellepi dallo scaffale, li mettevo sottobraccio e con passo spedito mi incamminavo verso gli studi della stazione radio locale. Mi sentivo bene. Lo giuro. Tutto intorno a me sembrava in perfetto equilibrio. E Cult of the Basement dei Jazz Butcher era una delle mie certezze. Uno di quei dischi che ancora oggi mi piace ascoltare quando mi sento mancare la terra sotto i piedi. (Luca D’Ambrosio)



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La lunga estate solitaria di Barzin (intervista)

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Il 3 marzo 2014 sarà pubblicato in Italia, su etichetta Ghost Records, il quarto album di Barzin, cantautore canadese di origine iraniana che già ci aveva sorpresi con il precedente Notes to an Absent Lover del 2009. Da allora sono passati cinque anni e Barzin Hossein non ha perso un minino di ispirazione e sensibilità, tornando sulla scena musicale con un’altra meraviglia dai toni intimi e raffinati che prende il titolo di To Live Alone In That Long Summer. Dieci canzoni che si appiccicano al cuore e che rivelano definitivamente il talento di un musicista autentico e sincero, sempre in bilico tra romanticismo ed esistenzialismo. Buona lettura.

Intervista – La lunga estate solitaria di Barzin
2014© di Luca D’Ambrosio
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Allora Barzin, ci eravamo lasciati con “Notes To An Absent Lover” e adesso, a distanza di cinque anni, ci ritroviamo con un’altra meraviglia di disco intitolato “To Live Alone In That Long Summer”. Dieci canzoni folk raffinate, intime, poetiche e dalle melodie sempre più cristalline. Possiamo considerare questo nuovo lavoro discografico come una naturale evoluzione, sentimentale e musicale, del lavoro precedente?
Sì, appare come un’evoluzione naturale dell’album precedente. Dal punto di vista sonoro i due lavori sono simili, e i temi di quest’ultimo sono ancora legati a quelli di “Notes Of The The Absent Lover”.

Una voce avvolgente, arpeggi di chitarra e ritmi di batteria mai sopra le righe. La miscela sembra essere la stessa di “Notes To An Absent Lover”, tuttavia “To Live Alone In That Long Summer” pare custodire un’alchimia, o forse meglio un segreto, che fa sì che le canzoni ti entrino subito nella pelle. In alcuni momenti sembra addirittura di averle sentite chissà quante volte. E poi si avverte un’aria decisamente rilassata. Mi viene quasi da pensare che questo potrebbe essere il disco della tua maturità artistica.
Sono contento che la pensi così. In questo disco sento davvero di aver raggiunto un certo grado di maturità. Questo è il mio quarto album, quindi ho imparato molto dagli errori commessi con i lavori precedenti e ho cercato di non ripeterli. Inoltre in questo album sono stato aiutato da tante persone di grande talento, più che in passato. Il contributo di queste persone ha portato nuovi elementi nel disco, cosa che non avrei potuto ottenere se avessi provato a fare tutto da solo.

L’ultima volta che ci siamo sentiti mi dicesti che tu sei sempre stato una di quelle persone che riesce a scrivere e suonare proprio quando tutto sembra andare in pezzi. È andata così anche questa volta?
Be’, penso che solo alla fine dei giochi realizzo che la mia fonte di ispirazione nasca proprio quando le cose intorno a me cadono a pezzi. È come se la mia mente e il mio corpo possano gestire le crisi solo attraverso l’arte. Vorrei poter trarre ispirazione da diverse fonti o periodi della mia vita, ma ora non sembra essere il momento giusto.

Ecco, parafrasando il titolo del disco, cos’è accaduto in quella lunga estate solitaria?
Trascorrevo un sacco di tempo da solo. Mi piaceva svegliarmi e andare in giro per la città. Prendere brevi appunti. Leggere libri. Bere caffè in varie caffettiere. Tornare a casa e lavorare sulla musica. Vivevo in diversi posti. Ogni volta che qualcuno che conoscevo stava partendo per andare fuori città, andavo a stare a casa sua. Ero alla ricerca di modi diversi di vedere le cose. Quindi, stare a casa di altri è stato davvero il miglior modo per farlo. Mi ha fatto sperimentare cosa vuol dire svegliarsi in un letto diverso. Ho visto come gli altri vivevano la loro vita, le cose che le persone tengono nelle loro case, le loro scelte nell’arredamento e ho provato la sensazione di vivere in un quartiere diverso. Mi sentivo come se stessi vedendo attraverso gli occhi delle persone che vivevano nelle case in cui mi trovavo. In qualche modo mi sentivo di vivere la vita di qualcun altro. Hai mai letto il racconto di Raymond Carver, “Neighbors”? Ecco, era più o meno così…

Con questo quarto album sei uscito definitivamente allo scoperto, mettendo in mostra le tue eccelse qualità di cantautore attraverso brani dagli arrangiamenti sempre più eleganti e curati.
È interessante come questo album sia venuto fuori. Quando ho finito il mio ultimo disco e sono tonato dal tour, mi sono detto che avrei fatto un ultimo album. Volevo fare un disco semplice: solo voce e chitarra, o forse pianoforte. E quindi ho iniziato a lavorare sulle canzoni e lentamente, in qualche modo, cominciavano ad aggiungersi altri strumenti. E così il disco è diventato sempre più “grande” (più complesso, più ricco, ndr), coinvolgendo sempre più persone. E ora che l’album è finito, e che l’osservo a distanza per quello che è, mi accorgo che è stato il disco più difficile e complicato che abbia mai fatto.

A proposito di eleganza, le atmosfere di “In The Dark You Can Love This Place” sembrano addirittura “jazzy”…
Io amo il jazz. Lo ascolto da quando ero adolescente. Quando suonavo la batteria a un certo punto ho considerato la possibilità di diventare un batterista jazz. Ma non sono mai stato in grado di mettere del jazz nella mia musica in maniera che potesse sembrare soddisfacente. Quindi, forse, quegli elementi jazz stanno lentamente iniziando a mostrarsi nelle mie canzoni e negli arrangiamenti.

Prima dicevi che era tua intenzione fare un disco semplice, solo voce e chitarra, e invece poi non è andata proprio così. Infatti, ascoltando questo nuovo lavoro, si ha quasi l’impressione che ogni cosa sia stata studiata nel minimo dettaglio, come se tutto fosse stato ben chiaro nella tua mente ancor prima di entrare in studio di registrazione
Be’, ho cominciato a registrare questo album a casa diversi anni fa. Volevo vedere quali strumenti avrei potuto utilizzare con queste canzoni. Fatto questo, le ho portate in un altro studio di registrazione (quello di Nick Zubeck, che ha prodotto l’album con me). E così abbiamo iniziato a registrarle daccapo, per vedere come avremmo potuto arrangiarle. Dopo di che ho trascorso un po’ di tempo con la band al completo e con due produttori diversi (Sandro Perri e Les Cooper) per cercare di sviluppare gli arrangiamenti che erano venuti fuori a me e Nick. In seguito sono andato in un bellissimo studio (Revolution Recording) che un mio amico ha aperto a Toronto dove abbiamo iniziato a registrare le canzoni. Insomma, siamo arrivati alla registrazione definitiva dopo aver lavorato tanto sugli arrangiamenti.

Al disco hanno partecipato molti musicisti come, per esempio, Sandro Perri, Tony Dekker, Daniela Gesundhet, Tamara Lindeman… Come sono nate queste collaborazioni?
Conosco Sandro da molti anni, è un musicista di grande talento e volevo collaborare davvero con lui su questo album. Così, quando è arrivato il momento di lavorare sugli arrangiamenti, è venuto e ha trascorso diversi giorni con me e la band offrendo le sue idee. Anche Tony Dekker lo conosco da molti anni, ma lui non ha mai partecipato a nessuno dei miei album. Così, questa volta mi sono detto che glielo avrei chiesto. E quando l’ho fatto, ha accettato volentieri. Daniela Gesundhet e Tamara Lindeman sono due cantautrici fantastiche di Toronto. Non solo amo le loro canzoni, ma anche le loro voci. Così ho voluto che facessero parte di questo album. Penso che tutti dovrebbero ascoltare la loro musica. È meravigliosa.

C’è un canzone di questo album alla quale sei particolarmente legato?
Sono davvero contento di come la maggior parte di queste canzoni siano venute, ma ce ne sono alcune di cui sono particolarmente fiero. Una di queste è “Stealing Beauty”. Ho dedicato molto tempo a questa canzone, lavorando sul testo per diversi mesi, senza però riuscire a trovare la voce giusta per cantarlo. Così l’ho buttato via e ho iniziato a scriverne uno nuovo. È stato molto difficile trovare l’intonazione giusta per quella canzone. Devo l’arrangiamento di questo pezzo a Nick Zubeck. L’altro brano di cui sono molto orgoglioso è “In The Dark You can Love This Place”, e una delle ragioni per cui sono così affezionato a questa canzone è il ritmo di batteria. L’abbiamo elaborata più volte. Nessuno degli arrangiamenti venuti fuori per quel pezzo ci sembrava giusto. E poi ricordo che il mio batterista, Marshall Bureau, ha iniziato a suonare questo nuovo ritmo che ha immediatamente attirato la mia attenzione. E non appena ha cominciato a suonarlo tutto si è composto rapidamente. Quindi devo molto a Marshall per come quella canzone è venuta fuori.

So che oltre ad ascoltare tanta buona musica sei anche un divoratore di libri. Mi dici cosa hai letto ultimamente?
Sì, adoro i libri. Ho appena finito di leggere un grande libro di una scrittrice di Toronto, Sheila Heti, intitolato “How a Person Should Be”. È stato meraviglioso. Sto anche rileggendo “Lolita” di Vladimir Nabokov. E parecchi libri sulla musica: “How Music Works” di David Byrne, “Tune Smith” di Jimmy Webb e ” Songwriters on Songwriting ” di Paul Zollo

Ci vedremo presto in Italia?
Sì, sicuramente. Ho in programma alcuni live in Italia come parte del prossimo tour. Per questo album sto lavorando con un’etichetta italiana (Ghost Records). Quindi passerò più tempo possibile nel vostro meraviglioso Paese.

A voler essere sincero, anche questa volta non è stato difficile innamorarmi del tuo disco, perché è andato dritto al cuore. Quindi, grazie per la disponibilità ma soprattutto per la musica che fai. Buona fortuna, Barzin!
Tu sei troppo gentile, Luca. Sono lieto di sapere che l’album ti sia piaciuto. E grazie per aver dedicato il tuo tempo a parlare con me delle mie canzoni. In questi anni mi sei stato di grande supporto, quindi ti ringrazio.

Il nuovo album è in full streaming sul sito del New York Times



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Fabrizio De André – La Buona Novella (1970)

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A proposito del grande Fabrizio De André (cantautore nato a Genova nel 1940 e scomparso a Milano nel 1999) molti dicevano che fosse il Bob Dylan italiano, ma c’era anche chi – come la mai dimenticata Fernanda Pivano – sosteneva pure il contrario, ovvero che Bob Dylan fosse il Fabrizio De André americano. Un’affermazione decisamente audace, ma non per questo infondata se consideriamo il talento ma soprattutto la complessità umana dei due personaggi che, sovente, nel corso delle loro rispettive carriere, hanno dato vita a capolavori unici e irripetibili della storia della popular music. Gemme che hanno saputo sorprendere una società molto spesso stereotipata e poco attenta al particolare, alla diversità, al senso “altro” delle cose e della vita. È il caso, per esempio, de La Buona Novella di De André, un concept album incentrato sulla cristianità che, prendendo spunto dai vangeli apocrifi, celebra e commemora rispettivamente la nascita e la morte di Gesù di Nazareth attraverso una vivida allegoria composta da dieci tracce (cinque per lato, qualora aveste la possibilità di ascoltarlo su vinile) della durata complessiva di poco più di trentacinque minuti. Una miscela ben equilibrata di musica sinfonica, canti liturgici e cantautorato folk italiano che non perde mai di tensione e intensità, grazie alla voce inconfondibile di Faber (così soprannominato dall’amico e attore Paolo Villaggio) e a una scrittura lirica e musicale che, quantunque erudita e complessa, riesce a coinvolgere l’ascoltatore fin dalle prime battute. Ne è la prima lampante dimostrazione la brevissima ode al Signore, “Laudate Dominum”, che introduce “L’infanzia di Maria”, brano che ti scoppia subito nel cuore e da cui viene fuori la figura di una Maria nata – secondo il protovangelo di Giacomo – per grazia dello spirito divino e per questo motivo sacrificata al Tempio del Signore e costretta a vivere un’infanzia difficile:“Forse fu all’ora terza, forse alla nona, cucito qualche giglio sul vestitino alla buona, forse fu per bisogno o peggio, per buon esempio, presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio […] E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio avevi dodici anni e nessuna colpa addosso: ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso.” Ma sarà la traccia successiva,“Il Ritorno di Giuseppe” (“Ai tuoi occhi, il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. […] E lei volò fra le tue braccia come una rondine, e le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola, suggerivano al viso, una volta ignorato, la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato”), a rendere giustizia al sacrificio e alla sofferenza della Vergine e alla fatica di un povero Giuseppe, appena tornato dal lavoro, pronto a sostenere “Il Sogno di Maria” (“Lo chiameranno figlio di Dio: parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”), canzone catartica e di una bellezza struggente che si conclude con il verso “E tu, piano, posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte” e che schiude le porte a una “Ave Maria” che inneggia alla donna in quanto madre: “Ave Maria, adesso che sei donna, ave alle donne come te, Maria, femmine un giorno per un nuovo amore povero o ricco, umile o Messia. Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente”, ed è esattamente in questo modo che si chiude la prima parte del disco. Da questo momento in poi si sprofonderà, sempre di più, in un vortice di emozioni che – a partire da “Maria nella bottega di un falegname” (una conversazione tra Maria, il falegname e la “gente”) alle conclusive “Il testamento di Tito” (il buon ladrone pentito e crocefisso accanto a Gesù) e “Laudate hominem” (che elogia l’uomo poiché fratello e figlio di un altro uomo) – esalterà la Passione di Cristo e il dolore degli ultimi e dei dimenticati: basta ascoltare le parole di “Via della Croce” (“Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso”) oppure di “Tre madri” (”Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine d’un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte“) per rendersene conto immediatamente e per scoprire, oltretutto, la sensibilità di un cantautore e di un poeta come pochi in Italia (e forse anche nel mondo) ce ne sono stati. Un personaggio colto, umile e mai banale: sicuramente una delle figure più importanti della cultura italiana del Novecento. Un cantastorie – consentitemi l’uso di questo appellativo, nonostante possa sembrare riduttivo – che nel 1969, in piena contestazione studentesca, decise di immergersi nella scrittura di un album basato sulla nascita di Gesù e del cristianesimo, sottolineando, tuttavia, l’aspetto più umano e meno spirituale di questo avvenimento religioso. E a chi gli chiese perché proprio quella scelta in quel periodo storico così agitato e rivoltoso, il libertario Fabrizio De Andrè rispose dicendo che, secondo lui, Gesù di Nazareth è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, un signore che molto tempo prima aveva combattuto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Prodotto da Roberto Dané e arrangiato da Gian Piero Reverberi (anche se nel booklet originale troverete scritto Giampiero Reverberi), La Buona Novella vedrà la luce nel 1970 e con il passare degli anni si confermerà – malgrado quel titolo apparentemente reazionario – uno dei lavori discografici più anarchici, rivoluzionari e appassionanti della carriera del musicista e cantante genovese ma anche della musica d’autore italiana. Insomma, un disco natalizio, ma non solo. Con buona pace di credenti e non credenti. (Luca D’Ambrosio)

Articolo pubblicato sul numero di Natale 2013 del periodico polacco La Rivista.



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