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Moon Duo al Muzak di Roma (01.11.2012)

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Un’ora abbondante di suoni psichedelici ed elettronici quelli messi in scena dai californiani Moon Duo nel piccolo e angusto Muzak di Roma, poco più di una cantina riempita all’inverosimile di bella gente e amplificatori. L’attesa è abbastanza lunga e per questo abbiamo il tempo di mandare giù qualche long drink disquisendo di neopsichedelia e krautrock, Suicide e Spacemen 3, My Bloody Valentine e Warlocks. Intanto, tra una chiacchiera e l’altra, ci accorgiamo che mancano pochi minuti alle 23 e 30. Alziamo lo sguardo e vediamo farsi spazio tra la folla, assiepata giusto a qualche centimetro dal palco e dalla strumentazione, Erik “Ripley” Johnson e Sanae Yamada. Una veloce regolazione alle apparecchiature e si parte subito con Sleepwalker, brano d’apertura del loro ultimo lavoro in studio che coinvolge immediatamente il pubblico in una sorta di danza ipnotica e allucinogena. Di lì a breve sarà un muro sonoro fatto di chitarre distorte, battiti elettronici e voci riverberate. Eseguono gran parte dei brani dell’ultimo disco, Circles, come è ovvio che sia, con la gente che non smette di agitarsi e che sembra essere caduta in una specie di trance. Si arriva a fine concerto con un senso di catarsi. Allora ci dirigiamo verso Ripley e Sanae e chiediamo loro se sono contenti della serata romana. Rispondono, quasi all’unisono e con i volti estasiati, “Yeah”. E così, il tempo di fare qualche foto e di acquistare un paio di vinili, ripartiamo in preda agli ultimi rantoli psichedelici. Questa sera Roma ci sembra San Francisco. (L.D.)

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Advance Base – A Shut-In’s Prayer (2012)

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Advance Base è il nuovo progetto del californiano Owen Ashworth, musicista attualmente con dimora a Chicago, Illinois, meglio conosciuto sotto la sigla CFTPA (Casiotone for the Painfully Alone) con cui ha dato vita a cinque delicatissimi album indie pop a bassa fedeltà e dalle strutture elettroniche. Più o meno la stessa strada intrapresa con questo nuovo percorso artistico che lo vede impegnato in un cantautorato lo-fi ricoperto di quisquilie sonore ed effetti vintage. A Shut-In’s Prayer è infatti un album registrato sia in casa che in sala prove con il suo vecchio piano rhodes 54. Dieci canzoni dal sapore nostalgico e malinconico che raccontano amori perduti, ricordi d’infanzia e amare illusioni. Dieci splendidi tasselli di vita vissuta che scorrono leggeri su melodie accattivanti e su semplici ritmi di drum machine, come il valzer sognante di The Sister You Never Had che commuove e conquista il cuore più di ogni altra traccia del disco, anche se Summer Music riesce a trasmettere una sana inquietudine di fine estate. (Luca D’Ambrosio)



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The xx – Coexist (2012)

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Non erano passati di certo inosservati gli inglesi xx che, nel 2009, avevano dato alle stampe il loro omonimo esordio sulla scia di una vituperata new wave di stampo “revivalistico” già abbondantemente in voga negli anni ‘00. Ciò nonostante la giovane formazione londinese era riuscita a guadagnarsi l’attenzione e la stima non solo da parte dei “grandi nomi” della critica specializzata, ma anche dalla maggior parte di quelle piccole webzine orbitanti nel prolifico universo della musica indipendente e alternativa. Il merito di tutto questo lo si deve a un sound decisamente accattivante e magnetico che, sebbene risulti “già sentito”, riesce a essere autentico grazie a una combinazione ben proporzionata di elettronica, new wave e perfino soul quando a cantare è Romy Madley Croft e non Oliver Sim. Ora, però, alla luce di questo secondo disco e dopo diversi ascolti non è facile dirvi se questa nuova fatica degli xx avrà lo stesso successo del precedente, tuttavia quel che posso assicuravi è che Coexist vira verso territori più sperimentali ed elettronici (IDM in primis), con brani dai nuclei destrutturati tenuti insieme dall’alchimia di Jamie Smith che miscela, straordinariamente, tutti i suoni e le parole del nuovo album. E poi, sarà che Baria Qureshi non fa più parte della band, sarà il mood autunnale di questi giorni, sarà, infine, che non riesco a fare a meno di due chicche come The Angels e Swept Away, chi scrive preferisce, anche se di un pizzico, la complessità oscura e catchy di questa seconda difficile prova. (Luca D’Ambrosio)



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Lambchop – Mr. M (2012)

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Quello dei Lambchop è un mondo magico e caliginoso fatto soprattutto di note soffuse e versi quasi sussurrati. Liriche che lo stesso Kurt Wagner – anima e cuore pulsante della formazione di Nashville, Tennessee – canta con tono intimo, biascicato, bisbigliante e mai sopra le righe. Un universo soffice e al contempo dolente permeato da violini, chitarre, piano, giri di basso avvolgenti, ritmi abulici… E il risultato è un sound essenzialmente pigro e orchestrato che unisce, però, le intemperanze del country con le mitezze del soul e da cui nascono capolavori come How I Quit Smoking, What Another Man Spills, Nixon, Is a Woman e Oh (Ohio). Atmosfere fumose e melodie eleganti che tornano a fare capolino in Mr. M, un lavoro arrangiato nei minimi particolari che si libera di qualsiasi asperità sonora quasi alla maniera di Is a Woman, inseguendo una forma canzone fragile e raffinata dove traspare tutta la gentilezza, la classe e la sofferenza di Kurt Wagner, compreso il dolore per l’amico scomparso Vic Chesnutt al quale è stata dedicata quest’ultima produzione. Basteranno infatti le note iniziali di If Not I’ll Just Die per essere rapiti della voce e dalla poesia di questo grandissimo uomo e artista che, ancora una volta, è riuscito a essere romantico, profondo e alternativo come pochi altri. Lunga vita ai Lambchop. (Luca D’Ambrosio)



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M. Ward – A Wasteland Companion (2012)

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Ok, devo ammetterlo: M. Ward è uno di quei moderni cantautori alt-country o indie folk rock, che dir si voglia, che amo a prescindere. Vuoi per quel fulminante debutto intitolato Duet for Guitars #2 del 1999, ripubblicato diversi anni dopo, e vuoi anche per quel “micidiale” uno-due servito agli inizi degli anni zero (sto parlando di End of Amnesia del 2001 e Transfiguration of Vincent del 2003). Poi venne Transistor Radio, nel 2005, e l’innamoramento fu totale, con il musicista proveniente dalla scena indipendente di Portland, Oregon, che suonava quasi alla maniera di John Fahey e che sembrava muoversi sull’asse Will OldhmanKurt WagnerBurt Bacharach. Il resto, invece, è storia di questi ultimi anni: Post-War (2006), Hold Time (2009) ma soprattutto il progetto artistico di natura country pop con l’attrice e cantante Zooey Deschanel a firma She & Him. Una collaborazione che sembra abbia influenzato, almeno in parte, quest’ultimo lavoro discografico di Ward il quale palesa una personale e sospirata felicità basata sull’amore e sulle cose semplici della vita, dando vita a canzoni folk pop dal piglio romantico e cristallino (Primitive Girl e Sweetheart su tutte) che all’occorrenza, però, riescono a scendere nelle cavità più profonde del cuore e dell’anima (Pure Joy, Wild Goose e Crawl After You). Insomma, ascoltando A Wasteland Companion si ha la sensazione che Ward stia cercando di individuare una nuova cifra stilistica pur mantenendo un piede ben saldo nel passato. E se queste, amici miei, sono le premesse, prenoto fin da ora il prossimo disco solista del mio caro e adorato cantautore americano. (Luca D’Ambrosio)

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The Clash – London Calling (1979)

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Se c’è un disco da isola deserta per antonomasia questo è, senza alcun dubbio, London Calling dei Clash. Difficile, infatti, non riuscire a tirare fuori dallo scaffale questo capolavoro della band inglese in vista di un ipotetico, quanto definitivo, viaggio di piacere. Un lavoro completo che tocca tutto, o quasi tutto, l’arco costituzionale della popular music: il punk rock della title track, il rockabilly bruciante di Brand New Cadillac, le attitudini pop di Lost in the Supermarket, le smorfie swing di Jimmy Jazz, le posture reggae di The Guns Of Brixton e Revolution Rock, il miscuglio ska e rhythm and blues di Wrong ‘Em Boyo e molto altro ancora. Un doppio vinile pieno di commistioni musicali dove trova spazio anche il combat rock di Spanish Bombs, canzone ispirata alla guerra civile spagnola combattuta tra nazionalisti e repubblicani dal 1936 al 1939. Con questa terza prova discografica Joe Strummer e Mick Jones (che scrivono la maggior parte dei brani) realizzano, con il supporto della sezione ritmica formata da Paul Simonon e Topper Headon e sotto la produzione di Guy Stevens, una e vera e propria miliare della storia del rock. Diciannove tracce dall’inconfondibile spirito ribelle custodite all’interno di una ormai celebre copertina che, oltre a ricalcare la grafica del primo album di Elvis Presley, ritrae Simonon mentre spacca il basso sul palco. Credo che sia arrivato il momento di andare in vacanza. (Luca D’Ambrosio)




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Recensione: R.E.M. – Lifes Rich Pageant (1986)

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Lifes Rich Pageant è un disco che mi ha fatto cambiare il punto di vista sulla vita, sul mondo e sulla musica. È stato il vinile della mia personale svolta, diventando con il passare degli anni uno dei capisaldi inamovibili della mia educazione musicale e culturale. Un punto fermo del mio essere “alternativo”, così come sono alternative, e forse lo erano ancor di più quando uscirono, tutte le canzoni di questa meraviglia firmata da Berry, Buck, Mills e Stipe. Un lavoro che mette insieme il pop rock di Fall on Me, le inclinazioni punk and roll di Just a Touch, le strutture folk di Swan Swan H, l’attacco country di I Believe e persino gli smalti sixties di Superman (una reinterpretazione di un brano dei Clique che vede come lead vocal il bassista Mike Mills). Quelle della formazione americana sono canzoni che ti entrano subito nelle vene e che ti sconvolgono fin dal primo ascolto (These Days, Cuyahoga e Hyena su tutte), raggiungendo l’apice del piacere con la magnifica The Flowers of Guatemala. Prodotto da Don Gehman, Lifes Rich Pageant è il disco che, oltre a decretare l’impegno politico ed ecologista di Stipe e soci, inizierà a estendere i confini del sound dei R.E.M. che, nel giro di qualche anno, esattamente nel 1988 con Green, saranno scritturati dalla Warner Bros. Records; un passaggio, quello dalla I.R.S. alla multinazionale discografica, che non scalfirà di un solo millimetro la qualità, l’originalità e il carattere indipendente della band di Athens, Georgia. Un gruppo seminale del rock alternativo degli anni ’80 e ’90 che ha cambiato la mia visione del mondo proprio con questa quarta fatica in studio. Un album indispensabile, fondamentale, necessario, vitale, soprattutto ora che i R.E.M. si sono sciolti. (Luca D’Ambrosio)



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Recensione: Wilco – Yankee Hotel Foxtrot (2002)

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Yankee Hotel Foxtrot è il disco della svolta dei Wilco, ma anche il punto di rottura con i dirigenti della Warner/Reprise che, per una questione di budget limitato, decisero di licenziare la formazione di Chicago lasciandola senza contratto. L’album, che era già stato completato nel 2001, venne quindi messo in streaming sul sito della band americana, ma la condivisione gratuita durò ben poco perché, visto il passaparola del web, il disco ottenne le attenzioni della Nonesuch Records che decise di pubblicarlo il 23 aprile 2002 (etichetta che, manco a dirlo, qualche anno dopo entrò a far parte del gruppo Warner).

Il risultato fu decisamente sorprendente considerato che, a oggi, resta uno dei lavori più venduti del gruppo guidato dal chitarrista e cantante Jeff Tweedy. E riascoltandolo, per l’ennesima volta, non posso che biasimare quelle “teste pensanti” che, allora, ritennero questo disco un lavoro approssimativo e soprattutto poco vendibile. La prova lampante e tangibile che nella musica, così come in qualsiasi altra attività, c’è bisogno non solo di competenza ma anche di tantissima passione. Quella passione e quella sensibilità che non possono farti passare sopra a un capolavoro di simile intensità e bellezza, con canzoni come Ashes Of American Flags e Jesus, Etc. che toglierebbero il respiro anche al più algido e distratto degli ascoltatori.

Insomma, per dirla tutta, Yankee Hotel Foxtrot è l’album che ha decretato la popolarità dei Wilco, riuscendo a mettere d’accordo tutti i cultori del rock alternativo e indipendente. Giovani, meno giovani e vecchi. Uno dei dischi fondamentali degli anni zero. Anzi, della popular music. ([Luca D’Ambrosio)



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Bob Dylan – Blood On The Tracks (1975)

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Ero adolescente e Stefano, se non ricordo male, fece un piccolo sondaggio tra i compagni di scuola per sapere quale fosse la più bella canzone d’amore mai scritta. Prima di me toccò al buon Mauro che disse: «“In Ginocchio da te” di Gianni Morandi.» Poi venne il mio turno e, senza pensarci due volte, risposi: «”You’re a big girl now” di Bob Dylan.» È con questo flashback che mi sono svegliato questa mattina e, sinceramente, non saprei spiegarmi il motivo di questo pensiero mattutino; o forse c’è, in ogni caso non è mia intenzione stare a rovistare nel passato. Resta il fatto però che Blood on The Tracks è uno dei miei dischi preferiti del menestrello di Duluth e non solo per quella abbagliante poesia che prende il titolo di You’re a Big Girl Now, ma per ogni singolo brano di questo lavoro da cui stillano gocce di sangue e di passione. Un disco, il quindicesimo per l’esattezza, che vide la luce in uno dei maggiori momenti di difficoltà, sofferenza e riflessione di Dylan in rotta di collisione con la moglie Sara Lownds, che già in passato aveva ispirato l’artista americano, e da cui nascono brani del calibro di Tangled Up In Blue e Idiot Wind che mescolano dolore, ardore e dolcezza. Un album folk rock ben arrangiato e dai suoni levigati che pur perdendo, almeno in parte, l’istintività di capolavori come The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on Blonde (1966) – solo per citarne alcuni dei trentacinque dischi realizzati finora in cinquant’anni di carriera – non perde un grammo di profondità e trasporto. E nonostante siano passati molti anni da quel sondaggio fatto a scuola, quella canzone resta sempre una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte. Con la speranza, ovviamente, che il mio amico Mauro nel frattempo abbia cambiato idea. Io, intanto, ascolterò nuovamente Blood on The Tracks cercando di capire il motivo di questa singolare reminiscenza. E allora via con la prima traccia: “Early one mornin’ the sun was shinin’ / I was layin’ in bed…” (Luca D’Ambrosio)



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Cat Power – Sun (2012)

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Di Chan Marshall, alias Cat Power, oramai sappiamo tutto. Sia delle sue debolezze psicologiche che delle sue indiscutibili capacità artistiche che, anno dopo anno, a partire da Dear Sir del 1995 ha saputo esprimere splendidamente attraverso una miscela di canzoni oscure e rumorose ma dalle profondità folk e blues. Talento che la cantautrice originaria dello stato americano della Georgia ha poi confermato con il successivo Myra Lee e What Would the Community Think del 1996, fino ad arrivare alla sua opera d’inizio carriera più rappresentativa intitolata Moon Pix del 1998 che rivelava dei toni più riflessivi e caldi rispetto a quell’urgenza dolorosamente ribelle dei dischi precedenti. Ma sono You Are Free del 2003 e The Greatest del 2006 a consacrare l’artista americana sull’olimpo della musica indie rock internazionale. Due lavori che, in maniera diversa e senza mai perdere di tensione emotiva, segnano ancora una volta un punto di rottura con il recente passato. Un cambiamento insito nell’anima della bella e affascinante Charlyn Marie Marshall (così all’anagrafe) che a distanza di sei anni si ripete con Sun: un disco sicuramente dall’ascolto più facile, per via degli arrangiamenti edulcorati e ricoperti di battiti elettronici, ma non per questo inferiore agli altri. Anzi, quest’ultima fatica – prendendo spunto dal titolo e dalla copertina dell’album – mostra tutti i colori dell’arcobaleno con canzoni dalla scrittura impeccabile in grado di unire il passato tempestoso con l’ottimismo per il futuro. Basta ascoltare le prime tre tracce di Sun (Cherokee, Sun e Ruin) per capire immediatamente la natura e la bellezza di questo nuovo episodio firmato da Cat Power, una delle più grandi cantautrici contemporanee sempre in bilico tra forza e fragilità, come, del resto, le sue composizioni. (Luca D’Ambrosio)


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