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Intervista ai New Candys

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INTERVISTA AI NEW CANDYS di Alessio Zago
Un connubio di attesa e curiosità circondava l’uscita dell’album d’esordio del giovane gruppo trevigiano New Candys, almeno per chi, come lo scrivente, ha seguito il percorso della band dagli esordi, passando per l’EP autoprodotto dell’anno scorso, fino a giungere al disco di debutto (uscito lo scorso 23 marzo per la Foolica Records). Stars Reach the Abyss non solo conferma il potenziale della band, ma stupisce per la freschezza e la capacità di miscelare in un sound corposo e univoco la psichedelia con il garage rock, in un prodotto finale, ben equilibrato nel gestire episodi più tesi alternandoli a momenti più cauti e sognanti, dal sapore internazionale. Abbiamo fatto due chiacchiere con i ragazzi del gruppo per scoprire qualcosa di più sulla loro musica e i loro progetti.

Ciao ragazzi, Iniziamo con una considerazione personale sul disco: me l’aspettavo più oscuro. Potete raccontarci quali sono state le occasioni che dall’EP autoprodotto vi hanno portato a registrare il primo album al T.U.P. Studio di Brescia e infine all’approdo in Foolica?
Ciao Alessio, te lo aspettavi più oscuro? Meno male, siamo felici non lo sia troppo. Dopo la vetrina di Rockit con la recensione positiva dell’EP si sono mosse le cose, da lì siamo stati chiamati da Foolica per suonare a Mantova, tramite Foolica abbiamo poi conosciuto Marco Obertini, direttore artistico del Vinile 45 e del Lio Bar di Brescia, per noi i concerti lì sono stati tra i più belli del 2011 ed è dove abbiamo conosciuto Stefano Moretti e Pierluigi Ballarin, che si sono proposti di produrci il disco al T.U.P. Studio. Parlando assieme a Pier e Stefano ci siamo trovati subito d’accordo. Terminato il disco lo abbiamo fatto sentire a Foolica, con cui eravamo rimasti in contatto, ed è piaciuto.

Come dicevo in apertura, mi pare che la produzione abbia conferito una qualità di (relativa) leggerezza al vostro suono. È solo un merito della produzione oppure con il tempo è avvenuto anche una sorta di cambiamento nel vostro stile e nel modo di comporre le canzoni?
Più che la produzione, sono alcuni brani a essere “leggeri” in sé, quelli potenti sono potenti. Prima di entrare in studio abbiamo passato quasi l’intera estate a provare in un ex ufficio sopra a un capannone di una zona industriale, lì ci siamo concentrati maggiormente nei pezzi con il sitar e in quelli i più acustici, perché volevamo un disco vario che rispecchiasse tutti i nostri gusti. Si chiama “Stars Reach The Abyss” proprio perché non è tutto abisso…

Finalmente, in questa tempesta elettrica, riescono a trovare il loro degno spazio anche le vostre canzoni più lente e soffuse. Ci sarà occasione di sentire questi pezzi live e ci dite come saranno organizzati i prossimi concerti?
La novità più grande rispetto ai live del 2011 saranno i brani con il sitar, in altri abbiamo cambiato qualcosa per renderli più improvvisati, alcuni invece li suoneremo solo nei set acustici per ora. Poi ci sarà una novità visiva con l’utilizzo di un proiettore a olio.

I momenti più spiazzanti del vostro disco, a mio avviso, emergono nelle canzoni maggiormente contaminate da strumenti normalmente ai margini del rock, come nei pezzi dov’è presente il sitar (e l’ombra di Harrison), ad esempio Nibiru o Sun is gone. Ma il pezzo dove maggiormente riuscite a completare la fusione intima delle vostre tendenze è Salar (B-side del singolo Blackbeat). Come vi è venuta, e da cosa è nata, l’idea di fondere queste diverse influenze assieme?
Salar è nata in un giorno, durante un’improvvisazione nella sala prove ex ufficio citata prima, quindi non c’è stato nessun studio particolare attorno al brano. Era l’ultimo pezzo che avevamo abbozzato prima di entrare in studio, subito registrato nel nostro registratore 4 tracce, poi dimenticato, ci sembrava troppo malato… Prima di andare a Brescia abbiamo preparato i provini di tutti i pezzi e mentre passavamo i brani dalle cassette al pc è risaltato fuori. Quando siamo tornati da Brescia avevamo inciso tutti i pezzi tranne quello, e ci siamo detti che dovevamo finirlo e includerlo nella parentesi del disco, così lo abbiamo inciso a dicembre allo Yack Studio di Mogliano (TV).


Parlando di registrazioni, c’è da notare che siete già arrivati alla terza versione di Dry Air Everywhere, e anche questa suona diversa. Sembra diventata un’ossessione. Siete soddisfatti oppure credete che la registrazione giusta per questa canzone debba ancora saltar fuori? D’altronde ognuno insegue la propria chimera…
“Dry Air Everywhere” era un pezzo che volevamo fosse presente nel nostro primo disco ufficiale, in più secondo noi le versioni in studio precedenti non rendevano giustizia al brano, nella prima versione eravamo troppo inesperti e quella dell’EP era migliorabile. La versione del disco presenta dei piccoli cambiamenti, ha un testo differente e ci soddisfa. Ce ne sarà anche una quarta versione! non nostra questa volta, un remix di John Willis (ex Loop, ex The Hair & Skin Trading Company, ora nei Pumajaw, NdR), che uscirà a breve e ci piace molto.

Ascoltando il vostro disco si intuiscono alcune delle vostre passioni musicali: se la benedizione di band storiche come Velvet Underground e 13th Floor Elevators fanno da sfondo alla vostra opera, ogni canzone offre realmente una sfumatura diversa che sia una sfumatura dei Jesus and Mary Chain o gocce di neopsichedelia alla Black Angels. In quale misura i vostri ascolti condizionano le creazioni? Esiste qualche influenza (vecchia o nuova) che influisce in maniera meno diretta e che quindi è come se la teneste nascosta?
Gli ascolti ci influenzano ed è inevitabile, ma ci accorgiamo che quando vediamo una band live rimaniamo colpiti maggiormente, probabilmente perché l’ascolto è più intenso e la situazione più coinvolgente, diciamo che vedere le band dal vivo è stimolante. Per quanto riguarda un’influenza poco evidente ma importante in questo disco, sicuramente Desertshore di Nico (per pezzi come Welcome To The Void Temple, Sun Is Gone, Half-Heart e Salar). Quel disco assieme all’immaginario associato al film fratello La Cicatrice Interieure è speciale ed è stato importante.

A proposito di passioni, so che voi siete molto attenti alla vostro equipaggiamento e soprattutto usate strumenti d’epoca. Fino a che punto la scelta della strumentazione è stata determinante nel definire il vostro suono?
È basilare, soprattutto in una band come la nostra che fa largo uso di effetti, con parti strumentali che viaggiano da sole senza voce sotto. A volte lo spunto per un brano ce lo dà un suono, in quel caso la strumentazione giusta è importantissima, oppure non rimarremmo colpiti da quel suono. Gli strumenti di una volta si avvicinano di più al nostro gusto e ci piacciono esteticamente perché portano i segni del tempo e sono imperfetti, come anche gli effetti analogici che usiamo, non suonano “bene” come gli strumenti nuovi.

I vostri testi sono particolarmente foschi e privi di speranza. Con una battuta potrei dire che Kurt Cobain era un allegrone al confronto! Ma mi viene in mente che l’oscurità trasmessa nelle vostre parole trova eco in altre bands. Ad esempio, per restare nella zona, i Margareth hanno nel loro ultimo disco una canzone molto bella intitolata “Shadows come” e i Father Murphy hanno fatto uscire un nuovo bellissimo lavoro caratterizzato dai loro toni cupi. Si può considerare dunque questa attitudine come una sorta di sentimento collettivo, rapportato ai tempi e al luogo, oppure si rivelano espressione di una semplice visione personale delle cose, nel periodo in cui queste canzoni furono composte?
La canzone che ci viene da associare di più ai tempi attuali è Meltdown Corp. (che sta per Corporation), ma in generale tutti i brani del disco sono dei flussi di coscienza che descrivono delle immagini, alcuni si rifanno di più alla natura e al comportamento e condizione umana, altri a situazioni surreali

Il disco è stato registrato qualche tempo fa, nel frattempo a cosa vi siete dedicati? Avete avuto occasione di lavorare su nuovi pezzi?
Prima di tutto all’artwork del disco, che abbiamo curato con la stessa meticolosità dei brani. Poi abbiamo lavorato al video di Blackbeat e a un nuovo video che uscirà a breve; e sì, stiamo lavorando a dei nuovi pezzi, alcuni sono già a buon punto.

In conclusione una nota sul vostro futuro: ditemi una speranza reale legata all’uscita del disco e un sogno nel cassetto.
Una speranza reale è quella di suonare all’estero, invece un sogno è L’Austin Psych Fest, hai visto la lineup di quest’anno? Da sogno!

Foto 1 di Enrico Paramento / Foto 2 e 3 di Benedetta Albertini

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