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Categorie: ARTICOLI

Big Country – The Journey (2013)

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Alla fine la metamorfosi è completa: i Big Country sono riusciti a diventare i Bon Jovi inglesi. Un silenzio discografico lungo quattordici anni durante i quali la memoria di Stuart Adamson è stata oltraggiata con l’uscita di raccolte, box, antologie e collezioni che manco i Led Zeppelin. E, adesso, il ritorno. Assieme ad altri due reduci della stagione d’oro del rock passionale inglese degli anni Ottanta: Derek Forbes dei Simple Minds e Mike Peters degli Alarm. The Journey non fa altro che allungare la lista di dischi inutili della band scozzese il cui altissimo potenziale venne bruciato nel giro di pochissimi anni e di un paio di album se non indispensabili, quantomeno dignitosi. Poi, il tunnel della depressione inghiotte tutto. L’ispirazione, il successo, la gloria. Infine risucchia anche Stuart Adamson. E la Grande Terra diventa un campo santo. Però, visto che per la legge contrariamente a quello che l’etica del rock dovrebbe imporre le reunion non sono perseguibili, i Big Country si ributtano nella mischia. Una prima volta nel 2007, un’ altra nel 2010, stavolta con Mike Peters alla voce. E visto che un abbraccio ai superstiti non si nega mai, i loro tour hanno il successo che si aspettano. L’idea di mettere su un disco di inediti arriva poco dopo, e il risultato è questo The Journey che echeggia di tutta l’ enfasi del rock da stadio di cui i Big Country divennero portabandiera al fianco degli U2, dei Simple Minds di Once upon a time, dei Cult di Sonic Temple, di Bryan Adams, dei Bon Jovi. Roba che alza il testosterone di qualcuno e a me invece ingrossa i testicoli. Qualcuno troverà di che gioire e agiterà le sue palme salutando l’ingresso del nuovo Cristo in città. Io rimango in disparte, aspettando che arrivi il prossimo. (Franco Dimauro)


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