Musica brutta. Typing from Abroad di Brevevita Letters

Secondo appuntamento con «Typing from Abroad», la nuova rubrica di Natalino Capriotti (aka Brevevita Letters) che questa volta affronta il tema della “musica brutta”.

La musica brutta è diagonale e alberga nelle anime delle persone. Può essere ovunque, può essere data anche solo da una voce che ascolti per strada, da una frase della tua fidanzata, da un battito d’ali di zanzara che si palesa al momento sbagliato, e non è una cosa che si può catalogare in quattro e quattr’otto.

Certo, salterebbe subito alla mente quel certo tipo di latino-americano insopportabile e melenso, quello che fa ballare i maiali over 50 nelle balere da ritardati del Lungomare o in quelle a luci rosse insaccate dietro le zone industriali. Oppure la trap, credo che si chiami così, quando un cantante per cantare è costretto ad asportarsi i testicoli e a leggere due manuali sull’adorazione del demonio, per poi alla fine ritrovarsi quella particolare voce lì, da diplomato in seduta spiritica professionale informatica.

Eppure, non è che puoi chiuderla semplicemente così, la questione.

La musica brutta è quella fatta senz’anima, è nelle orecchie di chi l’ascolta, e può provenire da ogni segmento della scena musicale mondiale, anche da ogni segmento delle sceneggiature umane quotidiane mondiali, a partire dalle cantine underground fino ai maggiori palcoscenici della Terra; a partire dai discorsi del bar fino alle schifezze che vengono vissute in famiglia e nel mondo del lavoro, giungendo fino alle immani stronzate dei social e di tutti i governi del pianeta.

Perché la musica proviene da lì, dal profondo di noi stessi, da noi gente semplice, ma anche da loro potenti che fanno le leggi, e da tutti gli atteggiamenti umani superficiali o meno, violenti o meno, rispettosi del prossimo o meno.

La musica brutta è in agguato ovunque.

“L’udito è un senso sopravvalutato”, disse una volta un mio amico;

“…io per esempio sono emigrato all’estero principalmente per non capire ciò che mi viene detto, ché così mi sento più tranquillo”, continuava a dire il mio amico, giusto per fare un esempio dei terribili effetti della musica brutta sull’umore, e sul proliferare del nichilismo tra le classi meno abbienti.

Comunque, tornando a noi.

La musica brutta e bruttissima sotto ogni forma, e intesa essa come parte delle espressioni ancestrali degli esseri umani, può inquinare le stanze come uno sgradevole odore di fumo industriale rossastro, e questo potrebbe essere il caso di certe moderne trasmissioni televisive denominate talent, dove fenomenali ma acerbi giovani – spesso privi di dolore – gridano il nulla; d’altro canto, potrebbe anche essere il caso di una rompicoglioni di coinquilina che passa l’aspirapolvere proprio mentre quel famoso amico emigrato, di cui sopra, sta parlando al cellulare col direttore della banca inglese, in inglese, telefonata difficilissima ma finalmente si viene al punto, Cristo, dopo 35 minuti di attesa condita da altra musica brutta in sottofondo, che arrivava stavolta dalla cornetta telefonica in stand-by.

Tutto è nebuloso e inesatto quando si parla di bruttezza, tutto è indefinibile, perché la musica brutta è personale, soggettiva; è quel suono che anziché rilassarti ti disturba, che quando lo senti arrivare ti viene in mente di abbassare, abbassare, abbassare il volume; è quel suono doppio horror di aspirapolvere + impiegato della banca inglese, completo di elucubrazioni sempre paurosamente incomprensibili, aggrappate a logaritmi più potenti dell’uomo; è quel doppio suono che quando viene udito dal nostro amico emigrato egli sobbalza dalla sedia e molla la cornetta: “basta, spegni cazzo, spegni tutto, leva ‘sta cazz di roba”. Non si scherza, sono cose che vanno soppresse senza pietà, perché fanno malissimo, più di quelle maledette sigarette che provocano ogni genere di orrenda malattia.

Musica brutta su musica brutta produce demonio, si sa, equazione demonio fratto zero, l’esorcista.

E se a tutto questo mi ci aggiungi un testo superficiale che include “le storie su Instagram” (perché mo’ va di moda citarle nei testi della musica brutta “emancipata”) e per finire mi ci metti pure delle armonizzazioni da cottolengo, della stessa ricchezza e complessità di una suoneria di cellulare, beh, allora, a noi poveri mortali, che cosa ci resta?

Resta quel malefico ronzio di aspirapolvere, insieme a tutti gli altri suoni elencati poc’anzi, e oltre a tutto questo ci restano anche le sempreverdi banalità sanremesi, il trash anni ’80, of course, e quelle squallide imitazioni della bossanova, certo, ma anche molti dischi di indie-rock esasperati e senza ispirazione, esagerati tecnicismi a danno del cuore che batte, del sangue che scorre, della poesia che vaga selvaggia sulla cresta di un’onda che troppo spesso non ci viene concessa di cavalcare.

Perché in fondo a tutto, poi, a noi vivi o morti che siamo, ci resta sempre l’anima, che ha fame, e che deve essere nutrita. L’anima umana è una entità cannibale e si nutre di altre anime, che a volte possono uscire magicamente da una musica, appunto.

E non occorrono istruzioni per usufruirne, in questi casi, perché dell’anima tu te n’accorgi, perché l’anima buca lo schermo e gli altoparlanti, arriva a ondate e ti travolge, fa levitare tutto, tutti gli oggetti nella stanza, e perfino te, brutto manichino e vergognoso automa ormai privo di un carattere.

Mah.

Non lo so.

Forse sono solo i discorsi di un vecchio, uno stanco e canuto rudere che va in palestra la mattina e che la sera beve bottiglie di whisky da 60 sterline.

Io so solo che la musica brutta è come la morte, colpisce a casaccio.

È una vera e propria lotteria, e può nascondersi ovunque.

Che lo si voglia o no, la vita è comunicazione.

La vita è musica, ed è musica appena parliamo, e dovremo stare tutti attenti a produrne di buona, in nome di Dio. (Brevevita Letters)

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