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A Weather – Intervista (2008)

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“Cove” è l’esordio degli A Weather, formazione di Portland (Oregon) artefice di un album di canzoni malinconiche ma estremamente intriganti, a metà strada tra folk e dream pop. Un debutto sicuramente di non facile presa per via delle sue atmosfere intense e dei suoi ritmi blandi, tuttavia, “Cove” è un disco madido di vibrante poesia e parabole sonore che potrebbero ricordare qualcosa dei Dakota Suite e L’Altra ma anche dei Kings Of Conveniece. Un gruppo che attraversa con attitudine indie certi ambienti musicali cari agli appassionati del cosiddetto New Acoustic Movement. In occasione dell’uscita discografica abbiamo preso subito la palla al balzo per fare due chiacchiare con Aaron Gerber, voce e chitarra della formazione americana.

Oh, mio Dio, anche voi di Portland! Negli ultimi anni da questa città stanno venendo fuori un numero considerevole di artisti e di band che fanno buona musica. Mi dici cosa sta succedendo da quelle parti?
Ho trovato Portland come il posto ideale per una band che vuole iniziare a suonare e farsi conoscere. La comunità musicale è una comunità nel vero senso della parola. Le persone si aiutano a vicenda e i musicisti sono disponibili e vivono con i piedi per terra. A parte questo c’è un sacco di buona musica che sta nascendo: Laura Gibson, Weinland, Loch Lomond, Horse Feathers etc. È una sorta di casualità che ci siamo trovati qui però sembra che il nostro stile musicale abbastanza tranquillo si adatti perfettamente alla visione musicale che gli Stati Uniti e il mondo hanno nei confronti di Portland.

Pensi che da quelle parti stia nascendo un nuovo movimento culturale e musicale? Qual è il segreto di questa città?
Non credo ci sia un segreto. Io penso che Portland attragga i musicisti che vengono da altri paesi come una specie di mecca creativa, ma non penso ci sia qualche codice nascosto e indecifrabile nel modo in cui le cose avvengono. Le gente qui ha un genuino interesse nel creare arte, ma sono sicuro che è cosi da qualsiasi altra parte del mondo. Personalmente non mi sento parte di un movimento. Come ti dicevo, noi suoniamo la nostra musica che potrebbe essere simile a quella di altre band di Portland, ma nonostante tutto è particolare, insolita e personale. Noi avremmo suonato questo tipo di musica indipendentemente dal posto in cui avremmo vissuto.

Ok, parliamo ora del gruppo. Come e quando sono nati gli “A Weather”?
Gli “A Weather” si sono formati nel Gennaio 2007, poco più di un anno fa. Tutto è iniziato come progetto solista sul quale stavo lavorando quando mi sono trasferito a Portland nel 2005. Volevo inanzitutto saltar fuori dalla mia camera da letto e fare qualche concerto ma ero terrorizzato di affrontare questa esperienza da solo, quindi ho cercato dei musicisti con cui condividere il palco e il peso di questa pressione. Abbiamo inziato a suonare in piccoli locali con una formazione sparsa, infine siamo arrivati a suonare con 3 chitarristi, 1 basso, una batteria e 2 cantanti…e questa formazione era la combinazione perfetta.

Perchè “A Weather”?
Amo la natura nebulosa di questo nome. La mancanza di uno specifico o concreto immaginario lascia il nome aperto a qualsiasi sfumatura che la nostra musica può evocare. Il nome non crea necessariamente un preconcetto nell’ascoltatore. È un nome neutrale. Per un momento sono stato interessato al tempo, alle stagioni, alle ore del giorno e agli altri significati che diamo allo scorrere della nostra vita. Ecco, questo è il motivo per cui il nostro gruppo si chiama così.

“Cove” è un album delizioso, un mix perfetto di musica folk e pop dove è possibile ravvisarci influenze recenti e passate, penso per esempio a Simon & Garfunkel, ai Dakota Suite, a L’Altra e a tutto il New Acoustic Movement. A cosa o a chi vi siete ispirati nel realizzare l’album?
Le ispirazioni o influenze, per me sono molto più frequenti durante la scrittura e l’arrangiamento delle canzoni. Mentre siamo in studio è importante solo registrare e mettere i pezzi al posto giusto. Il resto non conta quando una canzone è stata mixata o arrangiata in studio. Quando scrivo è diverso perchè sto ancora modellando la musica con i frammenti della vita di ogni giorno, lo stress e l’idiosincrasia di vivere che inevitabilmente giocano una parte rilevante nel processo di scrittura. Penso costantemente anche a come una canzone si adatti all’album, se i brani sono troppo simili e se hanno un filo logico… Non mi stupisce il tuo riferimento a Paul Simon. Pitchfork ha comparato la mia voce con la sua in una canzone. È stato un grande complimento per me.

Questo alternarsi di voci tra te e Sarah è stato qualcosa di intenzionale o un’idea che si è sviluppata durante la realizzazione del disco come naturale conseguenza nel cantare e suonare assieme?
Non volevo essere il solista della band e nemmeno il leader. Pensavo fosse più interessante avere a disposizione due voci autonome che potessero lavorare insieme pur mantenendo una certa indipendenza. Mi annoia l’idea stereotipata del cantante associato alla corista. Io e Sarah abbiamo cantato insieme per quasi due anni. Passiamo ancora un sacco di tempo rielaborando le nostre parti. A volte lei apporta a una canzone, che io ritenevo già completa, qualcosa di completamente inaspettato e questo è ciò che più mi appaga nell’avere due cantanti nella band.

Avete lavorato molto su questo album d’esordio?
Abbiamo iniziato le registrazioni a metà del mese di Luglio nel 2007 e finito di mixare nella metà del mese di Agosto. Avevamo lavorato sulle canzoni per un anno intero, poi abbiamo speso il primo mese per la registrazione e l’altro per gli aggiustamenti finali; così il tempo nello studio di registrazione, anche se breve, è stato molto produttivo dando l’esito desiderato.

Come nascono le vostre canzoni?
Come già detto, molti dei miei testi si riferiscono a fatti di vita quotidiana, ricordi o stati d’animo particolari. Io non cerco di ordinare queste idee fin dall’inizio, lascio che si liberino nella mia mente e successivamente le organizzo. Poi inizio a lavorare sul ritmo, le rime, e ogni altro aspetto formale legato al testo. Cerco sempre di mantenere una distanza tra me stesso e il mio lavoro, in particolare quando sento che mi sto inoltrando in un’area che mi suscita troppe emozioni; cerco di alleggerire alcuni dei temi piu pesanti con qualcosa di più leggero o ironico. Con questo non penso di fare torto alle mie emozioni; penso che quello che molti di noi musicisti fanno (nel bene e nel male) è cercare di essere utili alla gente. Normalmente l’impeto di una canzone è una melodia che sta al di sopra degli accordi di base. La parte più difficile è trovare un testo che si sposi bene con la melodia senza che questa sia insopportabile o banale.

La copertina del disco è meravigliosa: un piccolo elefante che cammina da solo sulla spiaggia. L’immagine rappresentata rende perfettamente l’atmosfera che si respira ascoltando il disco. Chi è l’autore del disegno?
Sarah ha disegnato la copertina insieme alle immagini contenute all’interno del cd. Sono molto soddisfatto del risultato finale. Lei passa molto tempo a dipingere e i suoi disegni sono in perfetta sintonia con il tipo di musica che suoniamo.

La critica e il pubblico in generale come hanno accolto il vostro esordio?
Le risposte sono state incredibilmente positive. Ci sentiamo veramente fortunati in quanto sia i nostri fan che i critici musicali hanno capito cosa volevamo realmente realizzare con questo disco e hanno preso del tempo per scrivere qualcosa di positivo e ci hanno fatto sapere quanto gli era realmente piaciuto. Non è un disco immediato ma mi fa piacere che la gente gli abbia concesso del tempo per capirlo e non si è fermata a un ascolto superficiale.

Per caso avete già in mente il secondo album?
È ancora presto per parlarne. Abbiamo scritto delle nuove canzoni che eseguiamo durante i nostri live, ma non sappiamo ancora quale sarà la loro fine. Lavoriamo sempre su del materiale nuovo, ma credo che per un pò la nostra attenzione sarà focalizzata su questo disco.

Spero di vedervi presto in Europa, soprattutto in Italia e in Polonia.
Ci piacerebbe visitare l’Europa. Non sono mai stato in Italia e neanche in Polonia ma ci piacerebbe tanto venirci. Ho trascorso qualche mese in Grecia e ne sento già la mancanza.

ML – UPDATE N. 54 (2008-05-10)

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Cesare Basile – Storia di Caino (2008)

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A distanza di quattordici anni dall’esordio (Pelle, 1994) e dopo due meraviglie che non smetteremo mai di ascoltare come Gran Calavera Elettrica del 2003 e Hellequin Song del 2006, Cesare Basile questa volta torna a solleticare le coscienze umane con un album ben più dinamico e sterzante dei lavori precedenti. Forse l’opera più diretta e immediata dell’artista siciliano che, pur non perdendo di un solo grammo di amara e struggente poesia, mette in mostra dodici tracce dai tratti prevalentemente blues consacrandolo, definitivamente, come fuoriclasse indiscusso del cantautorato nostrano. Con una timbrica vocale che a tratti potrebbe ricordare quella di Fabrizio De Andrè e una scrittura quasi alla Nick Cave, il viandante catanese srotola canzoni intimiste che intrecciano passione, sofferenza e una fatale elettricità in grado di toccare le corde del cuore. Gli agnelli, All’uncino di un sogno e Sul mondo e sulle luci sono gioielli d’infinito lirismo custoditi all’interno di un disco capace, come pochi in giro, di fondere tradizione e spirito rock. Una fatica che vede la complicità di Giorgia Poli, Daniel Ardito, Manuela Malfitano, Micol Martinez, Tazio Iacobacci, Massimo Ferrarotto, Fabio Rondanini e nientemeno che Robert Fisher (Willard Grant Conspiracy) che canta in What else have I to spur me in to love. Prodotto ancora una volta dall’inseparabile John Parish, Storia di Caino è un album che, in poco più di mezz’ora, stordisce, appassiona e non smette mai di infondere speranza perché – come dice lo stesso autore – “credere è sempre l’atto più grande della promessa d’amore”. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 53 del 07.04.2008



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Joanna Newsom – Roma, Circolo degli Artisti (23.09.2007)

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È una tiepida serata d’inizio autunno ed è anche la prima volta di Joanna Newsom a Roma. Ammetto di essere particolarmente eccitato come lo è del resto gran parte del pubblico che affolla il Circolo degli Artisti. Nonostante al mio ingresso i Moore Brothers abbiano smesso di suonare già da alcuni minuti, l’attesa è di quelle impazienti e tra gli spettatori serpeggia anche una evidente insofferenza per la temperatura, piuttosto elevata, all’interno del locale. Intanto c’è chi discute, chi ridacchia, chi sbuffa, chi fotografa, chi si asciuga il sudore sulla fronte e chi, invece, in religioso silenzio ha lo sguardo costantemente rivolto verso il palcoscenico. Insomma, una platea decisamente eterogenea: dal critico professionista al semplice appassionato passando, ovviamente, per i soliti alternativi di turno. Nel frattempo mi godo la vista di un palco illuminato di un tenue color arancione in cui troneggia nel bel mezzo, alla stregua di un grosso monolito, l’arpa della giovane Newsom; strumento a dir poco inconsueto per chi è abituato a frequentare raduni in cui svettano solitamente imperiose pile di amplificatori e improbabili chitarre elettriche. Sono da poco passate le 22:30 e quella tollerabile insofferenza improvvisamente viene spezzata dall’entrata in scena della giovane artista californiana. È lei! Graziosa più che mai, vestita di un intenso color rosso e un sorriso capace di far sciogliere l’intera calotta polare. Il pubblico applaude e lei si inchina porgendo un timido “Hello” mentre il resto della band, composta da una violinista, un chitarrista/mandolinista e un percussionista, prende posizione in ossequiosa tranquillità. Classe 1982, con all’attivo svariate collaborazioni con personaggi riconducibili alla cosiddetta scena pre-war folk quali Devendra Banhart e Vashti Bunyan, la ragazza prodigio dà immediatamente dimostrazione del suo smisurato talento artistico eseguendo una perfetta Bridges and balloons, brano tratto da The Milk-Eyed Mender del 2004, al termine del quale la platea, ancora attonita e stordita dall’esecuzione davvero impeccabile, esplode in una sincera ovazione. Joanna ringrazia, sorride e non esita a presentare i propri compagni di viaggio porgendo anche un saluto particolare ai “Fratelli Moore”, duo pop americano che ha aperto il concerto e di cui però non posso raccontarvi le gesta a causa del mio giustificato ritardo. Dopo aver sorseggiato dell’acqua, riparte con Emily e altre composizioni provenienti da Ys, capolavoro indiscusso datato appena 2006. L’entusiasmo, seppur contenuto, è a mille! Miss Newsom è ineccepibile sia nel canto che nel suonare l’arpa. Incantevole è infatti la sua espressività vocale come inappuntabile risulta essere la sua destrezza tecnica. Passione più attitudine insomma, e il risultato che ne consegue è un folk ancestrale, bucolico, da camera, suonato alla perfezione ma al contempo fresco e attuale soprattutto quando il canto dell’angelo californiano sembra accostarsi a quello straziante e vellutato di Billie Holiday e Bjork. Sawdust and diamonds e Monkey & Bear sono pezzi che prendono l’anima e le sue mani sembrano compiere continui giochi di prestigio. Poi tutto finisce. Il pubblico l’acclama. Allora lei torna per il bis, questa volta da sola, regalandoci qualche inedito e l’ultimo sorriso della serata. Eh sì, è proprio il caso di dirlo: un concerto da favola!

ML – UPDATE N. 49 (2007-10-25)

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Intervista su Qui Magazine (2009)

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QUI MAGAZINE Frosinone | Maggio 2009

Musicletter, la musica è in linea di Ilaria Ferri

ALLA FANZINE NATA NEL 2005 PER INIZIATIVA DI LUCA D’AMBROSIO COLLABORANO TANTI APPASSIONATI

L’amore per la musica, la voglia di diffondere una cultura alternativa, il piacere di scrivere, di curiosare e portare alla luce le gemme spesso nascoste del panorama nazionale e internazionale: sono questi gli elementi che hanno portato alla nascita di Musicletter, fanzine creata da Luca D’Ambrosio, oggi una delle riviste on line più consultate e autorevoli, grazie all’apporto di collaboratori appassionati, provenienti anche dal mondo del giornalismo musicale “tradizionale”. Di questa bella realtà abbiamo parlato con Luca (ideatore anche del festival sorano “Riverland”).

Luca, come nasce l’avventura di Musicletter?

Nasce dalla mia passione per la musica e dal tentativo di voler condividere le proprie emozioni cercando di metterle “nero su bianco”. L’avventura è iniziata nel febbraio del 2005 con una semplice newsletter contenente alcune mie recensioni destinata ad appena 300 indirizzi di posta elettronica. All’epoca non avevo alcun collaboratore e il sito ancora non esisteva, anche perché non pensavo minimamente che quell’idea potesse riscontrare così tanto successo. Poi, con il tempo, il numero dei destinatari è andato ad aumentare così come quello dei collaboratori. Il nostro scopo è di fare da filtro alla gran quantità di dischi che oggigiorno si producono e ci vengono propinati dalla rete, dalle radio e dalle stesse riviste specializzate. In un certo senso ci stiamo riuscendo, almeno nel principio generale che è, appunto, quello di scegliere la “buona musica”.

Musicletter è anche cartacea o ha solo un’edizione on line?

ML è scaricabile gratuitamente in formato pdf sul sito www.musicletter.it. Ognuno può farne ciò che vuole: leggerla on-line o stamparne una o più copie per sé o per gli amici. Noi, per esempio, ne facciamo giusto un paio di copie cartacee, anche perché bisogna salvaguardare l’ambiente. Altrimenti tutta questa tecnologia a disposizione a cosa serve?

Quanti contatti al mese avete?

Abbiamo una mailing list di oltre 9.000 indirizzi di posta elettronica a cui spediamo sistematicamente i nostri aggiornamenti. Posso dirti che nell’ultimo mese abbiamo avuto circa 1.300 visite. Il contavisite del sito in questo preciso istante segna 41.358.

Tra i collaboratori ci sono anche nomi noti del giornalismo “tradizionale” nazionale.

Sì, ci sono “semplici” appassionati di musica e critici che collaborano con altre riviste nazionali: tra questi ci sono anche dei giornalisti iscritti all’albo e persino un ex conduttore di Rai Stereonotte. La cosa più importante è che si tratta di gente davvero esperta e in gamba: dal nord al sud dell’Italia. Senza di loro Ml non sarebbe quello che è.

Il Riverland festival ha siglato l’anno scorso la seconda “puntata”.

Dopo tanti anni di “buio culturale” ho tentato di portare una ventata d’aria nuova nella mia città, Sora, realizzando un festival di “musica alternativa” che, nell’ultima edizione del 2008, ha visto esibirsi gruppi come The Niro e Gentlemen’s Agreement. Che atmosfera si è respirata? Semplicemente emozionante e con un pubblico numeroso che è accorso specialmente da fuori.

La prima, nel 2007, invece come è andata?

Molto bene anche se la tensione era davvero altissima. Un’agitazione che è stata sciolta dai Desert Motel capaci di regalarci una serata indimenticabile.

L’edizione numero 3 invece è in forse. Ci puoi spiegare perché?

È una tristezza, ma sono stanco di chiedere l’elemosina per organizzare certi eventi culturali che, oltretutto, vengono snobbati dalla popolazione autoctona e dalle istituzioni locali. Nonostante la buona volontà di alcuni amici e di qualche amministratore, siamo ancora legati a un concetto “tradizionale” e “classico” di cultura. Un esempio? Con tutto il rispetto per i grandi della musica rock, che tra l’altro adoro, conosco gente che ascolta ancora solo ed esclusivamente i soliti nomi come Bruce Springsteen, Bob Dylan, Ry Cooder, i Doors, i Pink Floyd credendo che di musica buona non se ne faccia più. Una sciocca affermazione. La musica buona c’è ancora, basta non smettere di cercarla ma soprattutto di ascoltarla. La vecchiaia spesso fa brutti scherzi. Tornando al festival, posso dirti che, nonostante il successo delle due precedenti edizioni, allo stato attuale ho deciso di mettere tre puntini sospensivi. Il mio auspicio, ovviamente, è quello di trovare un buon samaritano (pubblico o privato) che con un migliaio di euro voglia sostenere questa terza edizione di Riverland. Al momento non vedo vie d’uscita.

Esiste un autore o una band italiana secondo te sottovalutati?

Ti faccio qualche nome che in questo momento mi ronza nella mente: i Flor De Mal (poi Flor), Amerigo Verardi e Moltheni.

Conosci bene la scena musicale provinciale? Che ne pensi?

In linea generale posso dirti che, rispetto al passato, c’è stato un netto miglioramento specialmente nell’area di Frosinone. Qui a Sora, invece, da qualche anno qualcosa si sta muovendo ma siamo ancora lontani anni luce. Il problema è sempre lo stesso: mancanza di cultura “alternativa”. Nonostante i buoni propositi, il substrato culturale è ancora arido.

Perché, secondo te, nonostante tutti gli sforzi e alcuni nomi validi, questa scena non ha mai veramente “sfondato” a livello nazionale?

È il solito mistero italiano. A dire il vero però c’è un personaggio “indie” che conosco e che ha sfondato, si chiama Silvio ma fa un genere troppo “fake” per piacermi (sorride, ndr).

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