Scheming è l’album di debutto del quintetto di Bristol The Jazz Defenders | Recensione

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The Jazz Defenders
Haggis Records, l’etichetta creata dal gruppo funk The Haggis Horns, si amplia e accoglie un giovane quintetto di Bristol dal nome The Jazz Defenders. Fondati nel 2015 dal pianista e compositore George Cooper, che decide di chiamare all’appello Nick Dover (sassofono tenore), Nick Malcolm (tromba), Ian Matthews (batteria) e Will Harris (basso), i Jazz Defenders prendono spunto dal classico suono bebop e soul-jazz dell’era d’oro di Prestige/Blue Note. Dopo essersi fatti le ossa suonando dal vivo in tutte le tappe obbligate per il jazz a Londra: come Ronnie Scott’s, The Jazz Cafe e The 606 Club, decidono di registrare l’album di debutto Scheming, composto da 10 brani originali e uscito lo scorso 6 dicembre 2019.

Ci sono chiare influenze e ispirazioni di grandi del jazz come Donald Byrd, Lou Donaldson, Lee Morgan o Horace Silver, ma le 10 strumentali di Scheming si caratterizzano anche per il tono scherzoso e la personalità che i Jazz Defenders imprimono in ogni traccia. C’è molto gioco ritmico che permette a tromba, sax e pianoforte (o anche piano Wurlitzer o organo Hammond) di esplorare direzioni interessanti, lasciando ampio spazio alle voci individuali ma mantenendo sempre una coesione di fondo.

Sin dall’apertura dell’album con Top Down Tourism si assiste al giocoso scambio tra fiati e piano, una cifra stilistica che strizza l’occhio all’ascoltatore, sorretta da un’esecuzione impeccabile e una evidente sintonia tra i membri della band. Che sia in momenti più swing come in Everybody’s Got Something o nelle diramazioni latin jazz di She’ll Come Round e Costa Del Lol (già dal nome un indizio fondamentale che il gruppo non si prende troppo sul serio), è palpabile quanto questi musicisti si siano divertiti a registrare questo disco. Spiccano anche la titletrack Scheming, un boogaloo soul anni ‘60 con organo assoluto protagonista, la più intima e delicata Rosie Karima, e il groove jazz-funk di Late, ma questo è uno di quei album su cui si può premere play e lasciar andare da inizio a fine. Una re-interpretazione riuscita dello spirito del soul-jazz anni ‘60. (Adaja Inira)

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