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(Ri)visti in TV: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri (1971)

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L’Italia cinematografica degli anni ‘60 aveva vissuto una stagione di grande rinnovamento: alla generazione dei Visconti, Antonioni e Fellini che aveva portato il cinema d’arte italiano ad essere il più originale del mondo, s’erano aggiunti nuovi e importanti contributi. I film italiani – pur in carenza d’un movimento assimilabile alla “nouvelle vague” e, d’altra parte, con il “neorealismo” la nostra cinematografia, prima di quelle di altri paesi, aveva già sperimentato una propria e autoctona strada alla modernità – s’erano arricchiti dell’apporto di autori che segneranno indelebilmente la storia del nostro cinema. Al contrario gli anni ‘70 segnano, sotto molteplici aspetti, l’inizio del declino del nostro cinema (che toccherà il suo punto più basso nella decade successiva) inteso come apparato economico in grado di intercettare i gusti del pubblico ed orientarli a sua volta in un sistema corente che fosse in grado di coniugare, al contempo, innovazione stilistica e tradizione popolare. Nel corso di questi anni non mancheranno – è il caso di precisare – (numerose) opere d’elevato livello qualitativo e prove d’autore di profondo spessore artisitico ma nel suo complesso la cinematografia italiana vivrà una fase di “impasse” speculare probabilmente a quella della nazione che a partire dalla seconda metà del decennio acquisterà le caratteristiche definitive d’una conclamata crisi economica e politica. Le rivendicazioni sociali sempre più turbolenti – che sfoceranno nell’inquietante e violento periodo della “lotta armata” terrorista e stragista, una ferita ancora oggi aperta per il paese – la secolarizzazione dei costumi e la conseguente evoluzione del cosiddetto senso del pudore, l’influsso esercitato dalla televisione sulla popolazione grazie al progresso nella qualità dei servizi offerti non potranno non condizionare la produzione cinematografica. Anche il cosiddetto “cinema politico” – con tutte le sue implicazioni sociali – che aveva conosciuto il suo culmine nella decade precedente con le opere, tra gli altri, di Francesco Rosi, Elio Petri, Gillo Pontecorvo, Damiano Damiani, Vittorio De Seta e Francesco Maselli, subisce profonde modificazioni. Se in precedenza, infatti, i toni erano calibrati sulla medietà stilistica ed era prevalente il carattere assertivo della narrazione con evidenti funzioni pedagogiche, le violente turbolenze sociali distruggeranno il sistema di valori perno del progetto politico progressista “en vogue” alla fine degli anni ‘60 cambiando totalmente le modalità stesse di questo tipo di cinema che, come vedremo, metterà in scena i dubbi sulla possibilità da parte del potere di capire e risolvere la complessità di questo delicatissimo momento storico. “La classe operaia va in paradiso”, costituisce esempio significativo esempio del mutato clima sociale. Dopo “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970), Elio Petri prosegue sulla strada del cinema civile concentrando l’analisi su quello che – è il teorema di fondo dell’opera – ritiene possa la causa principale del disagio umano: la ricerca ossessiva, e dunque insensata, del profitto. Utlizza, allo scopo, la figura più debole del fragile sistema capitalistico, l’operaio, che paradossalmente – in quegli anni di grandi rivendicazioni contrattuali (in quest’opera si allude alla vertenza dei metalmeccanici del sessantanove) – era da chiunque, classe politica compresa, considerato il responsabile di ogni male sociale a causa del suo elevato tasso di conflittualità. La rappresentazione di Lulù Massa (nomen omen ad evidenziare una condizione applicabile universalmente alle classi più umili), addetto alla catena di montaggio in una fabbrica, risulta di grande efficacia, complice la straordinaria interpretazione di un attore ispirato come Gian Maria Volontè, l’esemplificazione d’una alienazione assoluta che traspare con evidenza in ogni momento del film. La macchina da presa scandisce implacabile la ripetitività dei gesti quotidiani del protagonista (le levatacce mattutine, le incomprensioni familiari, l’approccio maniacale al lavoro) preludio di una vera e propria discesa agli inferi: la separazione dalla moglie con cui non ha più alcun tipo di rapporto, il taglio del dito, la partecipazione (dopo i precedenti rifiuti) allo sciopero per la vertenza sul cottimo, la carica della polizia, la solitudine (alleviata solo parzialmente dal vecchio compagno comunista Militina), il licenziamento e la successiva riassunzione che ha il sapore di amara resa. Petri adotta i codici estetici della commedia per rendere fruibile da un punto di vita narrativo ciò che risulta “visivamente” inaccettabile: il progressivo abbrutimento di Lulù Massa, insostenibile allo sguardo dello spettatore ed insopportabile anche a quelle forze politiche di sinistra che criticarono il film e non digerirono una rappresentazione così angosciante di quella classe operaia di cui rivendicavano, al contrario, una sempre crescente consapevolezza ed emancipazione. La messa in scena delle debolezze di Lulù Massa e dei suoi compagni, le divisioni insanabili, il contesto culturale e sociale in cui si muovono (la sterile protesta sessantottina degli studenti, la retorica degli intellettuali, la violenza repressiva della polizia e delle istituzioni, la furia ideologica del sindacato) non traggano, però, in inganno. Esse sono ricondotte da Petri nell’alveo delle contraddizioni umane ma per il regista colpevole è la spietata organizzazione di un sistema economico il cui unico obiettivo è il perseguimento del profitto prescindendo dal rispetto degli individui, piccoli ingranaggi di un apparato produttivo che non si può fermare. L’immagine finale di Massa/Volontè al lavoro nella catena di montaggio fra rumori assordanti che racconta inascoltato un sogno del vecchio Militina è l’eloquente dimostrazione per Petri che la Fabbrica/Sistema vince sempre schiacciando coloro che si ribellano ad Essa o riassorbendoli tra le sue fila più docili che mai. (Nicola Pice)


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