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(Ri)visti in TV – Mystic River di Clint Eastwood (2003)

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Il cinema di Clint Eastwood, senza dubbio proteiforme per la molteplicità dei temi (e dei generi filmici) di volta in volta trattati, variegato nello stile pur rimanendo saldamente ancorato alla massima oggettività del miglior cinema classico hollywoodiano, è tormentato dall’idea della “violenza” sulla cui analisi sono fondate la maggior parte delle sue opere. Lo sguardo del regista californiano, però, progressivamente alla consapevolezza dei propri mezzi espressivi e ad una crescente maturità autoriale, dalla (condivisibile) teoria che il tratto distintivo della storia dell’America sia caratterizzato da una ricorrente e feroce brutalità – che parte dall’oppressione colonizzatrice nei confronti dei nativi per arrivare alla legalizzazione della schiavitù, passando attraverso la mitizzata ma sanguinolenta conquista del West (argomento di cui si nutre Honkytonk Man del 1982) – si sposta sulla violenza individuale/privata/interiore scandagliando gli abissi dell’animo umano. Nasce la cosiddetta “trilogia dell’atroce”, racchiusa nello spazio di poco più di dieci anni, che si apre con Gli Spietati del 1992, continua con il ravvicinato “Un mondo perfetto” del 1993 e si chiude un po’ di tempo dopo con Mystic River del 2003. Trait d’union delle opere è la totale coscienza, secondo Eastwood, della propagazione inarrestabile della violenza nella vita umana, con delle sfumature differenti: se nel capolavoro “Gli Spietati” (uno dei film più importanti del cinema made in U.S.A.) i luoghi del west sono gli sfondi per esprimere un giudizio totalmente negativo sulla contemporaneità – riconducendo la nascita della violenza proprio al mito western che ha fondato la società americana – nel crepuscolare ed ambiguo “Un mondo perfetto” (film talvolta ingiustamente sottovalutato) l’accento viene posto, invece, sulla “trasmissibilità dell’atto” per cui il road movie è solo un espediente per dissimulare una sorta di paradossale romanzo di formazione all’incontrario in cui il senso finale dell’uccisione di Butch (il rapitore) da parte del piccolo Phillip (l’apparente vittima), a dispetto della complice amicizia creatasi, è il passaggio di consegne generazionale di un “testimone” intagliato nella violenza. Sarebbe banale affermare che “Mystic River” costituisca la sintesi delle due opere precedenti (perché al pari delle altre due affronta anche temi differenti) ma di sicuro rappresenta la fine di un percorso che sancisce per il suo autore l’ineluttabilità della violenza nel mondo reale e l’indissolubile legame che la salda con la vita degli esseri umani quasi fosse un virus pandemico così potente da non poter essere curato. Boston: tre amici – Jimmy, Sean e Dave – e il fardello di un ricordo orribile di cui custodiscono il segreto (l’abuso sessuale di cui è stato vittima Dave da parte di due finti poliziotti). Quest’evento terrificante sarà foriero, venticinque anni più tardi, di un’esplosione di avvenimenti altrettanto agghiaccianti. Jimmy, infatti, divenuto una specie di boss del quartiere dov’era nato e vissuto, ucciderà Dave credendo, a seguito di una serie di episodi casuali ma concatenati in maniera complessa secondo le implacabili regole del thriller, che sia stato lui a trucidare barbaramente sua figlia Katie anche se, in realtà, la morte di quest’ultima è stata determinata da due ragazzi. Sarà Sean, divenuto poliziotto, a rivelarglielo quando ormai è troppo tardi. L’eterno ritorno della violenza: questo è il significato di “Mystic River”. Se la violenza è all’origine della storia e delle sue dinamiche, l’uomo è, purtroppo, l’origine della violenza. Lo sceriffo Munny ne “Gli spietati” (e prim’ancora l’ispettore Callaghan), Butch e Phillip di “Un mondo perfetto”, i tre amici di questo dramma oscuro: ciascuno di essi dolente metafora di un’umanità ontologicamente determinata alla violenza ed incapace di interrompere la replicazione dello schema dell’occhio per occhio in una infinita spirale distruttiva. Eastwood si pone molte domande sul perché della sua genesi ma inutilmente: alla fine di questo viaggio (cinematografico), per quanto la società possa adoperarsi per combatterla e/o circoscriverla, l’unica certezza rimane proprio la negatività che permea l’esistenza. Il cuore di tenebra degli esseri umani prevale sempre su tutto e tutti. “Mystic River” è, dunque, un “cònte philosophìque” che segue le esigenze filmico-narrative di un thriller ma adotta i tratti distintivi di un noir crudele: l’illuminazione a bassa intensità, le riprese notturne, il montaggio serrato. Tuttavia non avrebbe la stessa veemente efficacia se il regista non avesse adottato scelte tecnico-stilistiche volte ad accrescerne l’impatto emozionale. Eastwood, infatti, decide di collocare lo spettatore nel cuore pulsante del film costringendolo ad assumere – sin dall’inizio – lo stesso punto di vista di Jimmy e Sean che guardano, del tutto impotenti, quasi pietrificati, partire l’auto dei pedofili su cui Dave è stato tradotto. In un film, quindi, in cui “il punto di vista” è dato teoricamente sempre dalla somma degli sguardi dei tre protagonisti, l’autore non fa altro che scambiare le soggettive: prima Dave, allontanandosi progressivamente, li guarda da dietro il vetro, poi Jimmy e Sean guardano lui inghiottito nella strada. Quando le soggettive tornano nel finale (mancano poco meno di quindici minuti alla conclusione), a morte di Dave già avvenuta, viene prima l’immagine dell’auto che parte (il punto di vista dell’amico abusato) e poi il controcampo che, essendo ancora inquadrato dal punto di vista dell’auto in movimento, è al contempo la sorgente dell’immagine precedente – i due amici ora adulti – e l’oggetto dello sguardo del fantasma dell’amico morto. Con un grandissimo espediente ottico, Clint Eastwood trasforma, dunque, una tecnica di ripresa cinematografica (la soggettiva) in un veicolo straordinario di identificazione, in una rappresentazione non solo del “punto di vista” di Jimmy e Sean ma anche della loro condizione psicologica, del senso di colpa che è rimasto intatto dopo tanti anni: la determinazione precisa in cui, lo sguardo di un bambino posandosi sull’orrore perde definitivamente l’innocenza ed entra nel gorgo ferale della violenza. (Nicola Pice)


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