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Recensione: The Pretty Things – The Sweet Pretty Things (2015)

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Il titolo gioca con Bob Dylan e anche con la vetusta età della band (Phil May e Dick Taylor hanno già superato la soglia dei settanta anni). La musica con cui l’hanno riempito gioca invece con quello che i Pretty Things ben conoscono, essendo in giro da cinquant’anni “suonati”. Non sono gli unici reduci a girovagare per il mondo facendo dischi e concerti. E non sono neppure tra i migliori, a volerla dire tutta. L’inventiva e l’audacia sono evaporate da tempo, lasciando il posto al mestiere, per quanto onesto che sia. Sono canzoni che non lasciano il segno ma che si adagiano su un ossequioso passato. Proprio o altrui. E che viene trattato, da pubblico e critica, con pari reverenza. Scorrendo qualche recensione, in attesa che questo disco arrivasse al porto sicuro della mia abitazione, ho letto giudizi rispettosi e lusinghieri. Ai quali mi accodo con moderato entusiasmo. The Sweet Pretty Things (Are In Bed Now, Of Course…) è un disco da compagnia, laddove i primi dischi della band inglese erano invece fratelli di rabbia o di introspezione un po’ anarchica e ribelle. Il suono dei Pretty Things di oggi è insomma abbastanza composto e ammaestrato, nonostante l’uso dell’ amplificazione vintage scelta con cura da Mark St. John al fine di fotografare la band nella sua forma più diretta e sanguigna. E così, nonostante certi toni sinistri che mellotron e organo conferiscono a macchia di leopardo, qualche lampo hendrixiano, qualche pacato country rock in odore di Eagles, qualche mini jam dal sapore mediorientale, il disco sfuma senza grossi brividi. Passa, e non hai neppure voglia di girarti a guardagli il sedere. Che è l’offesa più alta che puoi fare a chi si crede una bella donna nonostante l’età. (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 7 Luglio 2015

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