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Bill Fay – Life is People ( 2012)

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Dopo due meraviglie come l’omonimo esordio del 1970 e “Time Of The Last Persecution” del 1971, il songwriter inglese Bill Fay torna a deliziare, ma anche a turbare, la nostra anima con un’altra opera davvero eccellente a distanza di oltre quarantuno anni dalla sua ultima pubblicazione, nonostante nel 2005 abbia dato alle stampe, a firma Bill Fay Group, “Tomorrow, Tomorrow and Tomorrow”, il suo terzo album di vecchie registrazioni “perdute”. Life is People è, invece, un lavoro nuovo di zecca che il pianista britannico ha scritto in casa in questi oltre 40 anni di assenza, mentre svolgeva i lavori più disparati e lontano dal “music business” che in passato – ahinoi – lo aveva allontanato e scaricato in malo modo. Quelle scritte da Bill Fay sono canzoni attuali e profonde che raccontano la vita attraverso le proprie esperienze quotidiane; un album intimo e dalla profonda visione umanistica, con brani dal sapore agrodolce che non perdono mai di intensità e contrasto. Un incredibile disco di musica folk rock che vede la collaborazione della London Community Gospel Choir e di musicisti come Mikey Rowe, Tim Weller, Ray Russell, Matt Deighton, Alan Rushton e persino di Jeff Tweedy che canta con Fay in “This World”. Da pelle d’oca infine è la cover, solo voce e pianoforte, di “Jesus, Etc“ dei Wilco. Prodotto da Joshua Henryche lo ha convinto a tornare in studio di registrazione dopo aver scoperto le sue composizioni grazie alla collezione di vinili del padre – “Life is People” è la dimostrazione terrena che, in fondo, non è mai troppo tardi per tornare a fare della grande e bella musica. Bentornato, Maestro! (Luca D’Ambrosio)


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Una vita intensa: intervista (e video-intervista) a Teho Teardo

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UNA VITA INTESA: INTERVISTA A TEHO TEARDO di Luca D’Ambrosio
Teho Teardo è sicuramente uno dei compositori più originali e prolifici del panorama musicale italiano e non solo. Conosciuto per le sue celebri colonne sonore come “Il Divo”, “Gorbaciof”, “Una vita tranquilla”, “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” e “La nave dolce”, il musicista di Pordenone è sempre in piena attività creativa. Lo abbiamo fermato un istante per sapere qualcosa in più dei suoi ultimi progetti e per scoprire cosa sta bollendo in pentola… Buona lettura.
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C’eravamo lasciati con una video-intervista al Circolo degli Artisti di Roma in occasione della presentazione del film di Daniele Vicari, Diaz, per il quale hai realizzato le musiche (n.d.r.; guarda e ascolta la video-intervista a fine articolo). Bene, ora che sono passati diversi mesi dall’uscita, che tipo di riscontro ha avuto il film e la colonna sonora dal pubblico e dalla critica specializzata?
Diaz è un film che resta, non uno di quelli che sparisce, credo stia lasciando un segno. Ho avuto molti riscontri positivi per le musiche del film, sono davvero soddisfatto.

Ti piace scrivere per il cinema impegnato?
Mi piace collaborare a progetti dove c’é qualcosa di sensato da dire, da fare. Non é necessario ci sia un tema sociale o politico, ma ci devo trovare un senso.

Nel frattempo sono successe diverse cose. La realizzazione dell’opera teatrale “Music for Wilder Mann” ispirata al lavoro del fotografo francese Charles Fréger e la registrazione di un album con Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten. Allora, iniziamo con il primo progetto…
Sono rimasto folgorato dalle foto di Fréger, ho dovuto subito reagire e scrivere della musica. Le sue foto contengono cosí tanti segnali che mi hanno spinto a registrare un disco intitolato “Music for Wilder Mann” che uscirà all’inizio del 2013. Con Blixa il lavoro procede bene, ci rivedremo a breve a Berlino per finire di registrare le parti vocali e poi a dicembre inizierò a mixare l’album che verrà pubblicato nella primavera del 2013.

Com’è lavorare con Blixa?
È una persona molto complessa, la cui stratificazione di esperienze e conoscenza richiede un altissimo livello di preparazione. Blixa è abituato a lavorare solo con dei fuoriclasse, per collaborare con lui bisogna essere molto bravi. Abbiamo già lavorato diverse volte assieme, prima a teatro con Ingiuria, il progetto che realizzai con la compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio e poi al cinema nella colonna sonora di Una vita tranquilla per cui abbiamo scritto la canzone “A Quiet Life”. Due esperienze artisticamente molto stimolanti che sono confluite nella realizzazione di questo album.
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A inizio anno hai messo in scena, con Elio Germano e con la collaborazione di Martina Bertoni, una lettura-concerto di “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline di cui già abbiamo parlato ad aprile scorso (n.d.r.; guarda e ascolta la video-intervista a fine articolo). In quest’ultima rappresentazione invece, “Music for Wilder Mann”, qual è la scintilla o semplicemente il motivo che ti ha spinto a realizzare questo nuovo progetto teatrale?
Le foto di Charles sono state come una sceneggiatura, come un testo da cui trarre ispirazione per scrivere musica. Se in Viaggio al termine della notte le avventure di Bardamou arrivavano ai confini delle disgrazie umane, in Wilder Mann siamo in un mondo lontanissimo, pagano e selvaggio, imprevedibile e pericoloso. Nell’apparente tranquillità del mondo digitale mi serve una scossa che arrivi da un passato, qualcosa che rimetta in discussione la sicurezza in cui pretendiamo di vivere.

Quando e dove ci sarà la prima di “Music for Wilder Mann”, chi collaborerà con te e per quanto tempo lo porterai in giro?
Il 17 ottobre 2012 all’Auditorium di Roma e il 9 novembre 2012 a Riccione, poi lo riprenderemo il prossimo anno.

Vista la tua iperattività creativa, per caso stai lavorando su qualche altro progetto o film?
Sto lavorando a un docu film in America per HBO sulla vita di un senatore americano, un progetto molto interessante.

Domanda di rito: cosa stai ascoltando ultimamente?
Pochi minuti fa riascoltavo Glimmer, il bellissimo album di Jacaszek, pubblicato dalla Ghostly, l’etichetta del bravissimo Matthew Dear.

Grazie e speriamo di vederci presto.
Grazie a te, ciao!

Intervista: Roma, Circolo degli Artisti, aprile 2012

A Quiet Life

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musica

Intervista a Giulio Casale

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Dalla parte di Giulio Casale (intervista di Luca D’Ambrosio)
Dalla musica al teatro passando per la letteratura, Giulio Casale di strada sicuramente ne ha fatta. Una strada lunga e tortuosa che ha saputo percorrere con sacrificio, curiosità e onestà intellettuale dimostrando di possedere un talento artistico fuori dal comune. Ed è per questo che, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro discografico, “Dalla Parte del Torto”, abbiamo cercato di parlare con lui, sia pur velocemente, di questi 20 anni e più di vita creativa e di palcoscenici.
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Dagli Estra al Giulio Casale scrittore e attore oltre che cantante e musicista. Ci racconti il percorso di questa evoluzione?
Credo nella costante metamorfosi delle cose e di ognuno di noi. Si tratta forse di ascoltarsi molto (e di ascoltare l’altro anche, ciò che ti circonda), mettersi in risonanza con entrambi i lati del tuo sentire, agire di conseguenza. Ogni forma d’arte è innanzitutto artigianato, mani che si fanno via via più esperte, più consce dei propri gesti e degli strumenti che hanno a disposizione. Cerco di dare il massimo di rigore (e di lievità, per carità) a ogni forma espressiva: scrivere una poesia o un racconto ha per esempio pochissimi punti di contatto con il mestiere del paroliere di canzoni, e non parliamo poi della drammaturgia… Se dovessi riassumermi, un po’ violentandomi, direi che sono sempre stato un “uomo di parole” (e le parole se le ascolti bene suonano, sono già melodie potenziali) che però non può fare a meno della propria voce e del proprio corpo per esprimere appieno il senso della sua scrittura. Aggiungo: senza prendersi mai del tutto per “Qualcuno”. I’m not a VIP, che si fottano quelli…

A quale di questi ruoli ti senti più vicino?
Ho già detto tante volte che nello spettacolo teatral-musicale c’è, anche solo come residuo, un po’ tutto ciò che mi compone: scrittura pura, scrittura delle canzoni (parole e musica! Il Suono!), recitazione, messa in scena (l’aspetto più delicato, decisivo, visuale: cosa vedranno di me in prima battuta?) e poi canto, tanto canto, tutte le sere, ogni santa sera in un santo teatro diverso, e non poter sbagliare mai e sempre con l’imprevedibile variabile di un pubblico sempre nuovo e mai del tutto preparato a ciò che ho messo insieme di volta in volta. Detto questo – ho di nuovo dopo alcuni anni una disperata esigenza di palchi rock, di club e di birra cattiva, di festival estivi a tutto volume. Come vedi nessuna coerenza, sempre dalla parte sbagliata, anche rispetto a me stesso… Solo istinto insomma, o nuove/antiche necessità.

Qual era il sogno, o l’incubo, ricorrente di Giulio Casale da ragazzo?
Incubi, abbandoni, lutti, senso d’isolamento, tutto insieme, ogni notte. Poi a un certo punto l’insonnia, che ha i suoi bei vantaggi… (ride, Ndr)

Oggi, invece?
Dormo tuttora poco (ride di nuovo, Ndr) ma quando ci riesco e sogno vado in Psichedelia pura, colori sgargianti e sempre cangianti, prismatici. Credo che la mia coscienza stia esplorando il cosmo, da un po’ di tempo in qua, ma non mi sa dare molte informazioni utili al riguardo. Va bene così del resto, so confidare nel mistero.

C’è un episodio saliente della tua vita artistica che ha condizionato il tuo modo di essere?
Sono troppi e ho molta memoria (sono autistico). Diciamo, a titolo d’esempio, che mi dà sempre uguale fastidio la esibita “cialtroneria” di parte del mondo della musica indipendente la quale, però, non è nemmeno lontanamente comparabile alla squallida e cinica professionalità, mercificante e mercatistica, dei direttori delle grandi case discografiche e dei loro collegati (sono colleghi, in effetti) network commerciali italiani (quasi nessuno di lor signori dimostra tra l’altro di sapere più cosa sia la musica, la forma-canzone, etc). Ma ho conosciuto un poco anche l’editoria e i teatri parassitanti il ministero della cultura, e i grandi quotidiani (i loro editori, mio dio), ho messo il naso in tv, sono stato chiamato a provini per il cinema e le fiction tv (Dio ce ne liberi!) e le ho rifiutate. Ecco: dopo 20 anni di palcoscenico, nel mio piccolo – perché sono niente, cioè sono solo una persona – comincio ad avere un buon quadro d’insieme del “problema Italia”. Bisogna oggi più che mai saper dire di no a tutto questo, e non è facile come sembra. Il rischio di essere fatti fuori dal sistema è evidente, e non esagero affatto, sono prudente, credimi. Prudente è l’opposto di arrendevole per me, o peggio di compromesso.

Da cosa nasce “Dalla parte del torto”? Ci racconti qualcosa a tal proposito?
Dal disastro, dal grado zero dell’individuo in carriera (e beato chi ce l’ha un lavoro), da questo vuoto ideale, dalla cattiveria montante in ognuno. Tutto ciò è duro, e nuovo se si considera lo sprofondo a cui siamo, da tutto sommato poco tempo, giunti. Per restituire tutto questo (e la necessità di un suo superamento) serviva un disco così: eccesivo, ambizioso per densità, umile fino alla nudità di “Apritemi”, concettuale e narrativo insieme. Un disco impossibile, anche a livello di produzione, di arrangiamenti: solo il talento e l’esperienza di Giovanni Ferrario poteva ardire a tanto. E Non l’avevo mai fatto un disco così, ma è vero anche che non dico altro da vent’anni a questa parte. Non pretendo certo di avere ragione (sempre torto ho avuto, sin qui), né di farmi ascoltare. Ho solo bisogno di tirarmi fuori il cuore oggi, gettarlo al vento, cantare. Cantare è una buona medicina tra l’altro, ed è pure gratis.

“Sullo zero”, “In fondo al blu”, “La canzone di Nanda” e adesso “Dalla parte del torto”, cosa rappresentano e cosa significano ciascuno di questi dischi per Giulio Casale e a quale ti senti più legato?
Tolta “Nanda” che è la registrazione integrale dal vivo di quel mio spettacolo, gli altri tre titoli dicono molto della mia vita: nato col terrore del nulla a un certo punto mi sono immerso e perso negli abissi, nel buio e nel silenzio (che è già puro teatro). Una volta riemerso mi sono reso conto che la riva buona era quella opposta alla mia. Ne prendo atto: non è mica un dramma, soltanto vita vissuta, e cantata. Fernanda Pivano, però, mi ha lasciato germi attivi e fecondi tuttora in circolazione, dentro.

Sarai in tournée?
Sì, quanto potrò. Spero persino doppia tournèe, teatri e concerti rock, con tutte le difficoltà del caso. O meglio- dei due casi, molto diversi tra loro.

Vista la tua fertilità creativa, c’è qualcos’altro che bolle in pentola?
Sì, uno spettacolo per l’appunto, ma tratto sempre da questo nuovo disco: da Nina, ad esempio, che fugge da un padre violento (il pezzo è “Senza direzione”) o da una canzone come “La febbre” che ha già un recitativo al suo interno, come del resto “Virus A”: emarginazione, intolleranze, xenofobia. I temi oggigiorno non ci mancano, purtroppo.

Qualche disco, qualche film e qualche libro che ti va di consigliare ai nostri lettori.
Un disco: La Carne, dei Valentina Dorme. Un Film: Il Castello Errante di Howl, di Miyazaki. Tre libri: Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marìas, Le Particelle elementari di Michel Houellebecq e L’ubicazione del bene di Giorgio Falco. Marco Lodoli resta però uno scrittore grandissimo per me (quasi incompreso, nell’essenza) e Milo De Angelis è il miglior poeta italiano vivente, a mio parere. Nel senso che gli altri paiono più morenti in effetti (ride, Ndr), ma io sbaglio sempre …

Cosa stai ascoltando ultimamente?
Tutto. Sono curioso come non mai. E compro ancora dischi. (Sorride e saluta gentilmente, Ndr)



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Intervista a Nino Bruno

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Abbiamo avuto il piacere di intervistare Nino Bruno (e le 8 Tracce), autore di uno dei brani contenuti nella colonna sonora dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “This Must Be The Place”. Un pezzo intitolato “Every Single Moment in My Life Is a Weary Wait” che potrete ascoltare anche nel suo ultimo album intitolato “Sei Corvi Contro il Sole”. Quella che segue è una breve e interessante intervista che, oltre a svelarci alcuni retroscena del film del regista napoletano, ci consegna un musicista davvero appassionato e fuori dal comune. Buona lettura.

NINO BRUNO E LE 8 TRACCE di Luca D’Ambrosio
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Chi è Nino Bruno, da dove viene e qual è stato il suo percorso musicale?
Dopo varie vicissitudini, ho trovato nelle sonorità del beat, specie in quello più azzardato, l’ambiente sonoro ideale in cui muovermi, con il gusto di avventurarmi per vie smarrite.

La presenza di un vostro pezzo nella colonna sonora dell’ultimo di film di Paolo Sorrentino ha dato, senza dubbio, una certa visibilità alla tua band. Domanda scontata: com’è nata la collaborazione con Sorrentino?
Avevo già collaborato a “L’uomo in più”, scrivendo insieme a Paolo i testi delle canzoni di Tony Pisapia, “La notte” e “Lunghe notti da bar” e, precedentemente, Paolo aveva usato alcuni miei brani nel suo primo corto ufficiale, “L’amore non ha confini”. Insomma c’erano dei precedenti, una grande stima reciproca, e aldilà di tutto, un forte legame anche personale. Stavolta mi ha chiesto di scrivere una canzone con dei requisiti particolari, una hit del 1982, che fosse però emozionante ancora oggi. La canzone che aveva reso Cheyenne famoso da un giorno all’altro. Insomma una richiesta assurda, che chiaramente Byrne si è guardato bene dall’accettare! Ma era un lavoro adatto a me. Ho capito subito che ci voleva una canzone vera, viva, figlia di un paradosso temporale e non di un revival. Si trattava solo di spostare leggermente la data, dai secondi ‘60 al 1982 appunto, e immaginare che “Cheyenne and the Fellows”, cosa ben credibile, registrassero il loro primo inaspettato successo in uno studio non proprio all’avanguardia, pieno di reverberi a molla ed echi a nastro e del tutto privo di effetti digitali (che nell’82 solo i grossi studi dovevano già avere). È esattamente quello che ho fatto.

Che tipo di approccio avete avuto con il regista nel scegliere il brano?
C’era una scena in cui Penn doveva intonare questa canzone a voce libera per calmare un cane lupo inferocito sul punto di aggredirlo. La melodia, il testo, dovevano avere qualcosa di ammaliante, quindi. Ho scritto più canzoni, alcune sono anche nel nuovo disco, ma la canzone giusta non arrivava. I giorni passavano e non gliene andava bene una, o forse ero io che mi allontanavo troppo, andadomene per strade mie. Finché in un pomeriggio e una notte si è materializzata questa canzone fantasma… Ho scelto il titolo mentre gliela spedivo via mail.

E com’è andata con Sean Penn? Voglio dire: cosa ha detto e pensato del vostro brano e della vostra musica?
Ricordo che il brano non è nella versione finale del film, ma si trova solo nel DVD, nel CD della colonna sonora, nei teaser, negli outtakes, e costituisce dunque un prequel, una premessa, di “This Must be The Place”. Ciò detto so che Penn ha molto amato questa canzone, e così anche il suo autista, con il quale pare abbia un rapporto assai democratico. Pare che per un periodo non facessero altro che ascoltarlo insieme. Che io sappia l’ha anche provato e registrato in uno studio a Londra. Sicuramente l’ha ascoltato molte volte anche per entrare nel personaggio e nella sua storia, è un modo di lavorare tipico degli attori americani, e forse proprio per questo Paolo ha voluto “Every single moment in my life is a weary wait” prima di iniziare il lavoro con Penn. Ricordo infine che la versione che si sente in giro, anche quella presente nel nostro nuovo disco, non è cantata nè da me nè da Sean Penn, ma da David Copley.

Il vostro ultimo disco, “Sei Corvi Contro il Sole”, è nato sulla scia del film di “This Must Be The Place”, oppure già ci stavate lavorando da tempo?
Entrambe le cose. Però a un certo punto abbiamo dovuto davvero correre. Penso sia stato un bene. “Sei corvi Contro il Sole” è un disco meno pensato dei precedenti, in qualche modo più sincero e spontaneo.

Quali sono i punti saldi della musica e del cinema di Nino Bruno e le 8 tracce?
Il suono beat, il metodo di registrazione, l’inattualità, l’avventura, il sogno, l’anelito a un Nuovo Beat Psichedelico, l’orgoglioso isolamento.

Perché il nome aggiuntivo “le 8 tracce”?
Il nome sottolinea il metodo di lavoro scelto, il “Dogma 8”, appunto, che vuol dire registrare solo su 8 tracce, tutto su bobina, sia in ripresa che in missaggio (in ogni passaggio), utilizzando solo effettistica analogica ed elettromeccanica (echi a nastro, riverberi a molla).

Concerti in vista?
Il concerto più vicino sarà a Napoli, al Lanificio 25, il 4 Novembre. Presenteremo “Sei corvi contro il sole” dal vivo.

In bocca al lupo e grazie per l’intervista!
Grazie a te, Luca. E a presto.

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The Underground Youth – Delirium (2011)

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Ho un archivio musicale spaventoso e, sinceramente, pur pensando di vivere un centinaio di anni in più non sarei mai in grado di ascoltarlo tutto. Ecco, quindi, che mi tocca spulciarlo qua e là, in modalità più o meno random, per tentare di recuperare qualcosa di buono che a partire già dal primo click valga la pena di ascoltare attentamente, ma soprattutto che valga la pena di recuperare su CD o, meglio ancora, su vinile. Pertanto, armato di passione ma anche di buona pazienza, questa mattina, mentre cercavo di iniziare a stilare la consueta classifica di fine anno, sono incappato in un disco sconosciuto al sottoscritto ma decisamente coinvolgente, specialmente per chi ama perdersi in quelle sonorità tanto psichedeliche e folk quanto garage e new wave. Sì, perché questi sono i riferimenti degli Underground Youth, formazione con base in Inghilterra e con all’attivo già alcuni lavori, l’ultimo dei quali questo ipnotizzante Delirium del 2011 che ci consegna nove canzoni melodiche seppure dalle sonorità oscure e indolenti. Un disco che, manco a dirlo, parte dai Velvet Underground e s’inoltra in quelle atmosfere tipiche dei Joy Division, dei Jesus and The Mary Chain ma anche dei Mazzy Star, degli Echo & the Bunnymen, degli Slowdive e via discorrendo. Strangle Up My Mind, Silhouette e What She Does To Me sono soltanto alcuni dei brani di quel sound inconfondibile al quale alludo e che sono qui a magnificare con quest’ultima scoperta firmata Underground Youth. Interessante formazione indie rock del Regno Unito che con Dystopia (arrangiata solo con voce, chitarra acustica e armonica a bocca) riesce addirittura a strizzare l’occhio al grande Bob Dylan. Insomma, per ora un bel “mi piace” a Delirium ma, se l’eccitazione dovesse continuare a ripetersi nei prossimi ascolti, sicuramente lo vedrete anche nella mia top ten del 2011. (Luca D’Ambrosio)

Discografia
Low Slow Needle EP – 2011
Delirium LP – 2011
Sadovaya LP – 2010
Mademoiselle LP – 2010
Voltage LP – 2009
Morally Barren LP – 2009

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The War On Drugs – Slave Ambient (2011)

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L’ultima fatica dei War on Drugs è qualcosa di estremamente emozionante, soprattutto per chi, nonostante sia cresciuto a suon di Springsteen, Dylan e Petty, non ha mai perso il piacere della scoperta. Ecco quindi che Slave Ambient si rivela il disco giusto nel momento giusto. Il classico album che ti fa fare un salto indietro nella memoria ma anche un salto avanti nel futuro. Adam Granduciel e soci questa volta ci riescono alla grande, mettendo su un lavoro che unisce abilmente il rock mainstream, quello fatto di belle melodie e sentimenti, con quello underground e alternativo di cui ormai non possiamo più fare a meno. Dodici belle canzoni che travolgono, commuovono e riempiono il cuore di suggestioni e di turbamenti e che ci lasciano con il fiato sospeso. Da Best Nights alla conclusiva Blackwater quelli realizzati dai War on Drugs sono brani di una bellezza cristallina che uniscono folk, pop, rock e porzioni ben spalmate di beat e psichedelia. Perle assolute di cantautorato moderno e visioni nostalgiche (Brothers, I Was There e It’s Your Destiny), ma anche passaggi sperimentali come, per esempio, The Animator, Come For It, Original Slave e City Reprise che, più di ogni altra, sembrano drogarsi di atmosfere shoegaze e disturbi noise. Splendide anche Come to the City e Baby Missiles che confermano la qualità di questo nuovo lavoro della formazione americana (Philadelphia, Pennsylvania) che, ascolto dopo ascolto, dà sempre più l’impressione di unire certe cose di Bruce Springsteen, Bob Dylan e Tom Petty con quelle di band quali Ride, Slowdive e My Bloody Valentine. Il risultato è strepitoso e, parafrasando Jon Landau, possiamo tranquillamente affermare che “abbiamo visto il futuro dell’indie rock e il suo nome è The War On Drugs”. Uno dei miei 10 dischi del 2011. (Luca D’Ambrosio)

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I miei dischi preferiti del 2011 (10+10+5)

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Ecco i miei dischi preferiti del 2011.

I primi dieci

Bon IverS.T.
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The War On DrugsSlave Ambient
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WilcoThe Whole Love
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Gruff RhysHotel Shampoo
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J MascisSeveral Shades of Why
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PJ HarveyLet England Shake
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William FitzsimmonsGold In The Shadow
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The Sand BandAll Through The Night
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The Underground YouthDelirium
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Sound Of RumBalance
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I secondi dieci

Josh T. PearsonLast of the Country Gentlemen
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David LoweryThe Palace Guards
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The WalkaboutsTravels In The Dustland
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The DonkeysBorn With Stripes
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The VaccinesWhat Did You Expect From The Vaccines?
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The Felice BrothersCelebration, Florida
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Marianne FaithfullHorses And High Heels
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Chad VanGaalenDiaper Island
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FinkPerfect Darkness
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Comet GainHowl Of The Lonely Crowd
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5 for extra time

Washed OutWithin And Without
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Work DrugsAurora Lies
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Sea PinksDead Seas

Middle BrotherS.T.
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2562Fever
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The Vaccines – What Did You Expect From The Vaccines? (2011)

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Di riferimenti new wave e in particolar modo post-punk dentro il debutto dei Vaccines ce ne sono così tanti da farci girare la testa. Fortunatamente però Justin Young e soci hanno le idee ben chiare e nel giro di poco più di trentacinque minuti riescono a metterle in ordine, realizzando un’opera prima estremamente folgorante che va al di là del semplice esercizio di stile o del solito revival di fine anni ’70 e inizi anni ’80. What Did You Expect From The Vaccines? è difatti uno dei più bei “dischetti” del 2011 che ci sia capitato di ascoltare, e non siamo di certo i primi a dirlo visto che è riuscito a conquistare in pochissimo tempo classifiche e critiche positive un po’ ovunque. Trattasi infatti di roba orecchiabile e “già sentita”, tuttavia degna degli esordi di gruppi come Strokes, Franz Ferdinand, Fanfarlo, Pains Of Being Of Pure At Heart e Motorama ma anche dei migliori lavori a firma Interpol e National, così, giusto per farci un’idea. Quello dei britannici Vaccines è un background culturale che affonda le proprie radici in quel fertilissimo substrato musicale composto dai Joy Division, gli Smiths, i Jesus and Mary Chain e persino i Clash e i Ramones, e il risultato è a dir poco sorprendente. Eccezion fatta per la traccia fantasma Who are you (unica ballata acustica dell’intero lavoro), quelle messe in lista dalla formazione londinese sono undici irresistibili hit da ascoltare in ogni luogo (in macchina, in casa, in cantina, in discoteca, al pub, al bar, in metropolitana…) ma soprattutto quando avvertite il desiderio di non pensare a una benemerita mazza. Un album che ha la capacità di liberare la mente e il corpo attraverso canzoni di “primo pelo” che non hanno alcuna presunzione se non quella di sputare fuori rabbia, amore e sentimento ma più di ogni altra cosa quella “stramaledetta” voglia di suonare e di divertirsi, a partire dall’iniziale Wreckin’ Bar (Ra Ra Ra) fatta di coretti sixties, chitarre elettriche e un incalzante quanto fulminante incedere di batteria. Un brano che schiude la strada a frammenti deflagranti come If You Wanna e Nørgaard che difficilmente non riuscirete a canticchiare o a ballare, neanche se vi dovessero imbavagliare o legare le mani e i piedi. Insomma, per farla breve, What Did You Expect From The Vaccines? è un disco da tenere sempre a portata di mano e da ascoltare specialmente nei momenti di “scazzo totale”, anche quando i vostri amici più indie vi faranno notare che lo stanno passando mattina e sera su Virgin Radio, perché basterà dire loro: “Beh, ragazzi, cosa vi aspettavate dai Vaccines?” (Luca D’Ambrosio)



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La mia intervista a Paul Heaton degli Housemartins

Per restare in termini calcistici, quella realizzata dagli Housemartins fu una doppietta bruciante che mandò in visibilio il pubblico e la critica degli anni ’80.

Erano gli anni di Margaret Hilda Thatcher e di “The Power Of Love”, e Paul Heaton decise di dare uno scossone al Sistema mettendo su una delle formazioni più piacevolmente rivoltose della scena pop/rock inglese di quel periodo.

Prima con London 0 Hull 4 (1986) e poi con The People Who Grinned Themselves to Death (1987), gli Housemartins riuscirono, nel giro di appena tre anni, a realizzare una miscela tanto intima quanto esplosiva di musica e ideali. Parlarono infatti di Dio, di politica e di società in maniera ironica e allo stesso tempo profonda e commovente, senza però mai cadere nella banalità. Insomma: un “uno-due” che lasciò senza fiato moltissimi di noi.

Venne poi il 1988, l’anno del premeditato scioglimento, e la formazione di Kingston upon Hull (Inghliterra) chiuse definitivamente con quell’esperienza, lasciando un piccolo vuoto nei nostri cuori.

Un vuoto che, a distanza di tanti anni, abbiamo cercato di colmare attraverso questa intervista a Paul David Heaton che, con la solita acutezza, ci ha raccontato qualcosa di quell’epoca, degli Housemartins e anche di oggi.

Intervista a Paul David Heaton degli Housemartins di Luca D’Ambrosio

Intervista a Paul Heaton degli Housemartins
Erano gli anni di “The Power Of Love” e della Thatcher, la “Lady di Ferro”. Proprio in quel periodo a Hull, in Inghilterra, nacque la vostra band: chi erano gli Housemartins e perché quel nome?
Eravamo un gruppo di agitatori comunisti. Il nome è stato preso da Peter Tinniswood (autore preferito di Paul Heaton, ndr) che tendeva a usare la migrazione di questo uccello (il balestruccio, ndr) per segnare i passaggi delle stagioni.

Prima degli Housemartins cosa facevi e da che tipo di famiglia venivi?
Ho lasciato la scuola senza qualifiche e sono andato dritto a lavorare come impiegato in un ufficio. La storia della mia famiglia ruotava intorno al mio papà, Horace. Lui ha fatto bene per se stesso ma ha rifiutato di tutelare i propri interessi. Questo significa che, anche se abbiamo avuto i soldi, li abbiamo spesi tutti per la casa, le vacanze e il calcio e nulla è stato fatto per l’istruzione, la salute e il guadagno finanziario.

Com’era la vita in Inghilterra negli anni ’80, soprattutto in periferia?
Felice e piena di musica, ma ho vissuto in città a partire dal 1983.

Qual era la vostra visione del mondo? La stessa di oggi?
L’Internazionale Socialista avrà sempre più senso e funzionerà meglio del capitalismo. Ora si sta scoprendo tutto questo in Italia!

Che genere di musica ascoltavi in quel periodo?
Gospel, New Wave, Hip Hop, Detroit House, English Pop, Reggae, Blues, Country, Soul. Tutto tranne Heavy Metal!

Ora, invece, cosa ascolti?
Più di quanto abbia detto prima. Aggiungici la Musica Classica, un po’ di World Music e il Rockabilly.

Chi scoprì gli Housemartins e chi offrì loro un contratto? Ci puoi dire brevemente come accadde?
Un uomo di nome Bruce Craigie venne a vederci in un posto chiamato Hope and Anchor a Londra. A quei tempi lui lavorava alla Chrysalis Records, ma chiamò Andy MacDonald della “Go! Discs” pensando che la sua etichetta sarebbe stata più adatta.

Quali furono le tue emozioni?
Mi fece piacere, ma non come quando ottenemmo il nostro primo passaggio nel programma radiofonico di John Peel!

Ti sentivi parte del sistema o una voce fuori dal coro?
Una voce solitaria nel sistema. Ecco come mi sentivo.

Cosa significò per voi “Flag Day”?
La possibilità di mettere un po’ di odio nella schifosa borsa reale.

Mentre ora?
La stessa cosa. Ogni sillaba di quella canzone ci ha dato ragione. La carità è per quella parte della comunità che si sente in colpa per le tasse.

“London 0 Hull 4”, il vostro debutto, cosa significava per gli Housemartins?
Significava fottiti, da nord a sud.

Quindi, cos’era per te quel disco?
La possibilità di dire la mia.

Ti piace ancora giocare a calcio? La passione è la stessa che si percepisce guardando quel simpatico videoclip trovato in rete con sottofondo “We’re Not Deep”?
Ho giocato a calcio per tutta la mia vita dai 4 anni ai 40 anni. Ora sono “allenatore” (parola detta in italiano, ndr).

Com’è cambiato il calcio e com’è cambiata l’Inghilterra?
L’Inghilterra è cambiata nello stesso modo in cui è cambiato il calcio. Se la gente inglese potesse sentire le stesse negatività che sente per Carlos Tevez (attuale attaccante del Manchester City, ndr) e trasferirle ai politici e ai banchieri noi potremmo assistere a una grande rivoluzione in questo paese.

Cosa ti manca e cosa non ti manca del passato?
Non mi manca nulla, a parte le patatine e John Peel.

Invece, cosa ti piace e cosa non ti piace di questo periodo?
Guarderemo a questo periodo come “L’età dell’idiota”. Ci si può sentire rispettati solo perché hai una grande macchina, una “bocca grande” e un paio di pantaloni costosi?

Poi venne “The People Who Grinned Themselves To Death”, un album vivace ma con dei testi più profondi, ironici e romantici del precedente. Mi dici qualcosa su questo secondo e ultimo lavoro in studio?
I testi sono un po’ più complessi così come il tema delle canzoni. Questo secondo album ha più senso dell’umorismo rispetto al primo. Il titolo si basa sulla canzone, che è antimonarchica. Ho sentito che il mondo stava per cambiare.

“Build” è la mia preferita di quel disco. Bello anche il videoclip. Una canzone di “romantica protesta”. La domanda è sempre la stessa: può la musica cambiare, in meglio, il mondo?
La musica può cambiare gli individui, ma non un governo. Il mondo non è altro che una serie di individui malavitosi che affidano ad altri il pacifismo individuale.

Qual è la tua canzone preferita degli Housemartins?
“The Light is Always Green” (vedi il videoclip a fine intervista, ndr). È più vera oggi di allora.

Cosa successe dopo “The People Who grinned Themselves To Death”?
Ci siamo separati.

Ti va di dirmi qualcosa di piacevole o non piacevole circa il vostro scioglimento?
Non c’è niente di bello o di brutto circa lo scioglimento degli Housemartins. Io e Stan Cullimore decidemmo che non appena avremmo raggiunto il 1987 ci saremmo fermati. E così facemmo.

Senza gli Housemartins come ti sei sentito?
Mi sono sentito benissimo. È stato pre-organizzato. Nel 1985 e nel 1986 sapevamo che il 1987 sarebbe stato l’anno dello scioglimento. Fu sorprendente il fatto che avemmo il coraggio di farlo.

Cosa pensi adesso di quell’esperienza?
Penso che sia stata un’esperienza divertente e che abbia portato il sorriso sul volto di molti.

Avete mai pensato di tornare insieme e di riformare gli Housemartins?
Tu hai pensato a questo? No (a voler essere sinceri, un po’ sì, ndr). Io non torno mai indietro. Tu sei solito chiamare la tua ex ragazza per chiederle di uscire di nuovo con te? (Beh, sicuramente ha ragione, ndr) Io sono felice nella mia attuale relazione musicale.

Cosa succede ora in Inghilterra?
Spero che noi siamo arrivati al punto di rottura del governo e dell’illegalità, così presto arriverà la fine dell’Età dell’Idiota.

Adesso, invece, cosa fai nella tua vita privata?
Spendo la mia vita privata con le mie tre figlie. Mi piace fare musica da solo e viaggiare.

Dio salvi la regina?
Al diavolo la regina, la sua cazzo di famiglia e soprattutto tutti quei babbei che le danno sostegno.

Grazie per la disponibilità.
Di niente!

(Foto: thehousemartins.com)

Categorie
musica

Un grazie di cuore a Berry, Buck, Mills e Stipe.

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Dopo 31 anni si sciolgono i R.E.M., una delle più grandi band della storia del rock. Una formazione che non ha mai sbagliato un colpo, anche quando Berry, Buck, Mills e Stipe decisero di fare il grande salto passando dalla indipendente I.R.S Records alla major Warner Bros. Per alcuni, all’epoca, fu una specie di tradimento, per altri invece soltanto una possibilità di diffondere la buona musica alternativa a un pubblico sempre più vasto. E così fu, perché il gruppo di Athens (Georgia), nonostante il successo di dischi come “Out Of Time” del 1991, non ha mai perso di stile, qualità e originalità. Ci lasciano in eredità solo capolavori, o quasi, album di una bellezza disarmante che hanno contrassegnato un’epoca e una generazione. Dischi che, in qualche modo, hanno cambiato la nostra visione del mondo e che mai ci stancheremo di ascoltare. Grazie!

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