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The Sand Band – All Through The Night (2011)

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All Through The Night è il disco giusto nel momento sbagliato. Il classico album che avremmo dovuto ascoltare o, meglio ancora, che avremmo dovuto scoprire in autunno o in inverno e non in questo soleggiato e terso inizio di primavera. Sappiamo benissimo però che le stagioni della vita difficilmente corrispondono a quelle astronomiche. Ecco quindi che, nel pieno del risveglio della natura, ci si ritrova immersi nelle atmosfere malinconiche e cupe di questo fulminante esordio sulla lunga distanza dei Band Sand, formazione di Liverpool guidata dal produttore e songwriter David McDonnell che mette su una manciata di canzoni di una purezza melodica davvero unica. Brani che sembrano essere usciti tanto dal repertorio dei Calexico quanto da quello di Elliott Smith o di Sparklehorse, ma che in realtà racchiudono quell’intimità tipica di Leonard Cohen e quegli spleen acustici cari a Mark Eitzel e a i suoi American Music Club. Di paragoni e di riferimenti se ne potrebbero fare ancora molti, ma non è certamente nostra intenzione continuare questo gioco perverso dei confronti e dei rimandi. Ciò che più ci preme sottolineare, invece, è la struggente poesia di gemme come Set Free, The Secret Chord, Someday the Sky e Burn This House/Hourglass che svelano appassionatamente, sulla falsariga di Nick Drake, il lato oscuro e catartico dell’amore. Un condensato di musica folk, pop e persino di riverberi vagamente psichedelici da ascoltare preferibilmente in autunno o, quantomeno, col calare della notte, quando tutto intorno smette di far rumore.

ML – UPDATE N. 77 (2011-04-24)

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Robert Scott – Ends Run Together (2010)

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Ci sono dischi di una bellezza disarmante, anche se poi non hanno nulla di nuovo da raccontare. Dischi che si potrebbero ascoltare per intere giornate, perfino quando ci si sveglia con il mal di testa e con quella irrefrenabile voglia di mandare a fare in culo il mondo intero, a partire proprio da quell’ammasso di vinili, di CD (e ora anche di hard disk) sistemati in un angolo di casa. Insomma, ci sono dischi che, quando meno te l’aspetti, riescono a metterci in pace con l’intera umanità ripartendo esattamente da dove avevamo iniziato, ovvero dagli anni ottanta. Ends Run Together del neozelandese Robert Scott (The Clean, The Bats e il Dunedin Sound vi dicono qualcosa?) è uno di quelli. Un album di una classicità pop rock inconfondibile, capace come pochi di riaccendere i ricordi ma anche quel desiderio oramai assopito per la scoperta. Tredici tracce che, nella giusta misura, sanno imbrattarsi di new wave, di folk e di psichedelia e che in alcuni momenti danno quasi l’impressione di ripercorre quelle stesse strade maestre indicate dai Verlaines e dai Dream Syndicate. Brani di una bellezza cristallina che arrivano in seguito ad alcuni EP, qualche raccolta e diverse registrazioni (ufficiali e non), ma specialmente nove anni dopo The Creeping Unknwon, amabilissimo esordio del 2001 che, con i suoi numerosi intermezzi strumentali, vedeva il musicista della Nuova Zelanda molto più vicino a certe sperimentazioni avanguardistiche tipiche di Brian Eno o di Robert Wyatt che a quella forma canzone, in odore di Go-Betweens e di Lloyd Cole And The Commotions, che invece marchia a fuoco quasi ogni solco di quest’ultima prova (eccezion fatta per il finale strumentale di Terminus che sembrerebbe dimostrare il contrario). Ends Run Together si rivela quindi un lavoro più fluido e diretto di quel lontano debutto d’inizio millennio, con canzoni che sanno già di sentito ma che non perdono mai di brillantezza e di tensione e che, miracolosamente, riescono a rinnovare l’entusiasmo per questa nostra “insana” passione. Basta infatti mettere su le travolgenti On the lake o Too early oppure ancora la lisergica Daylight per capire subito qual è lo spazio temporale ridisegnato da Robert Scott, vere e proprie bordate di pura adrenalina. Ciononostante saranno le mitezze folk rock di Messagges e di Greenwood Tree ma soprattutto le atmosfere di The Moon Upstairs (pezzo che in 4 minuti frulla finemente new wave, paisley underground e jangle pop) a farci innamorare una volta per tutte di Ends Run Together. Un piccolo capolavoro del 2010 da tenere sempre a portata di mano, ma anche un piccolo passo indietro per capire chi siamo e dove stiamo andando. Benché qualcuno possa considerarlo, superficialmente, un’operazione nostalgica e insignificante.


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Luca D'Ambrosio musica

Hugo Race – Varsavia, 12.05.2011 (CDQ)

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Il tour polacco di Hugo Race tocca quattro città: Zielona Góra, Poznań, Varsavia e Cracovia. Noi, ovviamente, lo aspettiamo al varco presso il CDQ di Varsavia, locale piccolino e non proprio centrale ma abbastanza confortevole. Nell’attesa, come al solito, sorseggiamo dell’ottima birra polacca, complice, tra l’altro, una temperatura davvero mite. Fortunatamente nessun gruppo spalla in apertura, ma solamente musica di sottofondo e chiacchiere all’aperto intervallate da gelidi sorsi di birra. Serata ideale, insomma, e come per incanto Varsavia sembra scrollarsi di dosso il peso dell’inverno e il ritmo affannoso del giorno. Tuttavia il tempo vola, ci accorgiamo infatti che sono da poco passate le nove. Facciamo quindi un balzo dalle comode seggiole e, in meno di un minuto, siamo già all’interno dell’angusto Centralny Dom Qultury che ospita, per l’occasione, un centinaio di persone (numero oltre il quale si rischierebbe il soffocamento). Una breve attesa ed ecco che salgono sul palco Diego Sapignoli (batteria), Antonio Gramentieri (chitarre) e, naturalmente, il cantante e chitarrista di Melbourne, Hugo Race. Il pubblico li accoglie calorosamente, applaudendo e incitandoli già con l’iniziale In The Pines, brano estratto dal bellissimo Fatalists del 2010. Si intuisce immediatamente che la band, in versione power trio, è in splendida forma. Race, poi, è particolarmente ispirato e, nonostante il suo atteggiamento visionario e apparentemente schivo, presenta gran parte delle canzoni della serata. Pezzi di un lirismo unico che si susseguono in un vortice di sonorità ora elettriche e taglienti, ora acustiche e vellutate. Da Slow Fry a Sorcery, passando per Sun City Casino dei Dirtmusic e Too Many Zeroes, tutto è straordinariamente coinvolgente e in perfetto equilibrio. Un succedersi di ritmiche infuocate ma anche di atmosfere ipnotiche che prendono il nome di The Serpent Egg, Nightvision, Coming Over e Will You Wake Up dove la voce dell’ex Bad Seeds è così profonda e intima da rasentare la perfezione, merito, probabilmente, della complicità di due musicisti bravi, appassionati e puntuali come, appunto, Sapignoli e Gramentieri. In definitiva, due ore circa di concerto all’insegna della musica rock, quella fatta di sangue, di sudore e di visioni e che all’occorrenza sa essere anche oscura, malinconica e commovente come Call Her Name che chiude alla grande questa piacevole e insolita notte varsaviese.

ML – UPDATE N. 78 (2011-06-02)

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Intervista ad Amerigo Verardi (2011)

Alla stregua di personaggi come Federico Fiumani, Miro Sassolini, Cesare Basile, Paolo Benvegnù, Umberto Palazzo, Giancarlo Onorato e Moltheni, giusto per fare qualche nome, Amerigo Verardi è una delle figure storiche e carismatiche della scena musicale indipendente italiana. Un musicista e un produttore che, nonostante tutto, è ancora qui a scrivere, a suonare e a discutere di rock. Oggi come allora. Siamo partiti dai mitici Allison Run per arrivare a parlare della collaborazione con Marco Ancona e dei suoi nuovi progetti, tra cui un nuovo album da solista di prossima uscita. Il risultato è questa lunga, sincera e appassionante intervista. Buona lettura.

AMERIGO VERARDI
Indipendenti si nasce di Luca D’Ambrosio
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Amerigo, innanzitutto grazie per la disponibilità. Devo ammettere che le domande che vorrei farti sono talmente tante che non saprei da dove iniziare. Ad ogni modo cercherò di mettere in ordine i miei pensieri seguendo un percorso più o meno cronologico. Pertanto, partirò dall’inizio della tua carriera. Forse non tutti sanno, soprattutto i giovanissimi, chi erano gli Allison Run, quando e come sono nati. Ti va di dirci qualcosa, anche correndo il rischio di essere ripetitivi?
Gli Allison Run sono stati il primo gruppo che ho messo insieme, basandomi sul forte desiderio di collaborare con Alessandro Saviozzi e Mimo Rash che erano rispettivamente chitarrista e batterista di una band punk/new wave che mi piaceva da morire, i TRASH, brindisini come me, e che come me si erano da poco trasferiti a Bologna. Poi, sempre a Bologna, ho conosciuto un altro ventenne talentuoso, Umberto Palazzo, che con il suo modo di suonare e di essere mi ha aiutato a introdurmi in modo più sofisticato nelle trame della scena indie dei primi anni ‘80. Umberto ha collaborato con gli Allison fino a pochi mesi prima delle registrazioni di “All those cats” nel 1986, e poi rientrò nella band come bassista alla fine del 1988. Siamo stati fortunati fin dall’inizio, perchè cominciammo a ricevere i primi lusinghieri commenti al nostro progetto già dopo l’uscita del primo disco. Da quello che si diceva in giro, gli Allison erano uno dei migliori gruppi italiani, pur appartenendo a un movimento musicale di chiara matrice anglosassone, la cosiddetta Nuova Psichedelia. Io ero sorpreso in particolare dagli apprezzamenti sul mio modo di scrivere canzoni, era una cosa fantastica ricevere simili complimenti, credo di essere cresciuto molto come autore anche grazie all’attenzione che mi è stata riservata fin da principio. È stimolante, oltre che gratificante, e tutti i musicisti di talento meriterebbero di ricevere quello che ho ricevuto anch’io, semplicemente per poter essere messi nelle condizioni di offrire il meglio di sè. E comunque non c’ero solo io negli Allison Run. È proprio vero che eravamo un buon gruppo, almeno per come lo intendo io ancora adesso un gruppo. Creatività, gioco, sperimentazione, amicizia, complicità… Insomma, una buonissima alchimia. Credo che in quegli anni incarnassimo un’idea di creatività e libertà assoluta che si sposavano all’inquietudine post-adolescenziale, e a mio parere attraverso la musica e il nostro modo di essere riuscivamo quasi sempre a comunicare un senso di grande positività. Ci mancava un po’ di organizzazione, avremmo certamente beneficiato della presenza di un manager in gamba, o comunque una figura esterna in grado di direzionare meglio le nostre grandi energie. Pur non essendo degli stupidi, alcune cose proprio ci sfuggivano o per pigrizia non intendevamo affatto occuparcene. I pezzi molto spesso non venivano nemmeno depositati in SIAE, firmavamo contratti senza minimamente preoccuparci di difendere i nostri diritti presenti e futuri, facevamo dischi con chiunque ci proponeva di farlo malgrado fossimo già sotto contratto. Roba impensabile, oggi. Musicalmente, però, eravamo molto più consapevoli, e sapevamo riconoscere il nostro valore artistico anche rispetto a cose che facevano altri colleghi e amici. Erano anni in cui la scena indipendente pubblicava perlopiù dischi mal prodotti, mentre con gli Allison Run lavoravamo proprio sul fronte opposto, trascorrevamo molte ore in sala prove a suonare e soprattutto registrare su multitraccia, e questo in qualche modo ci ha distinto e anche premiati, come quando ricevemmo un riconoscimento come miglior autoproduzione italiana del 1990 con l’album “God was completely deaf”, il nostro lavoro più significativo. E poi, essere considerati persino in Inghilterra non era cosa da tutti.

“All those cats in the kitchen” fu il vostro primo mini LP e uscì, se non vado errato, nel 1987. Un disco molto apprezzato dalla critica italiana ma appunto anche da quella inglese. Che ricordi hai di quel primo lavoro?
Non tantissimi. Dovresti parlare con Mimo per avere più dati. Ricordo un buffo disegno di Umberto Palazzo in cui mi spiegava come suonare una sua intrigante parte di chitarra su “Yellowish”, non potendo esserci lui stesso a suonarla. Ricordo un mio viaggio-blitz in macchina da Bologna a Brindisi per remixare “Train to London”, uno dei brani del disco che non mi faceva dormire la notte a causa di un mixaggio insoddisfacente. Poi mi viene in mente uno degli episodi iniziali più gratificanti, appena dopo l’uscita di “All those cats” uno speaker su Radio Rai 1 che definì “sorprendente” e “internazionale” il nostro suono e le nostre canzoni… E comunque, per chi dovesse essere interessato alla cosa, in una lunga intervista pubblicata sul bel libro di Roberto Calabrò “Eighties colours” racconto, tra le altre cose riguardanti gli Allison, altre impressioni su quel disco e sul modo in cui fu registrato.

Come mai quel titolo?
Mmm… Vatti a ricordare. Di preciso non potrei dirtelo, ma sono abbastanza sicuro che avesse qualcosa a che fare con il vedere cose intorno che in realtà non ci sono.

Un EP per la Vox Pop, esattamente nel 1988, “God was completely deaf” nel 1989 e, poi , nel 1990 la fine artistica degli Allison Run. Accadde tutto così velocemente. Quali furono le cause dello scioglimento del gruppo?
Onestamente devo ammettere che qualche tempo dopo l’uscita di “God was…” mi stavo comportando in modo vagamente autistico, a posteriori è più semplice rendersene conto. Non riuscivo più a capire le esigenze altrui ed empatizzavo poco con chiunque. Umberto dal canto suo faceva delle pressioni per farci svegliare dal trip psichedelico e renderci un gruppo più attuale e che prendesse in considerazione, reinterpretandole, le correnti musicali del momento. Una direzione che in quei giorni non eravamo sicuramente in grado di seguire con coscienza e convinzione. Alessandro probabilmente era arrivato a un punto di saturazione assoluta, e non sopportava più nè me nè le dinamiche che si erano create con il rientro di Umberto nel gruppo, e quindi ci aveva lasciato definitivamente. Per me fu una cosa molto triste, anche se non lo davo a vedere. Era il mio amico del cuore, e si allontanava anche per causa mia. Poi, come ciliegina sulla torta, un possibile contratto con un’etichetta major era svanito nel nulla dopo contatti durati per più di un anno. Tutto questo penso sia abbastanza per far sciogliere qualsiasi band.

La musica degli Allison Run era carica di psichedelia ma anche piena zeppa di motivetti sixties e di riferimenti new wave. Una band dal sound ben riconoscibile che, ancora oggi, vanta un numero considerevole di estimatori. Insomma: quanto pesa, nel bene e nel male, il ricordo degli Allison Run nella vita e nell’attività musicale, di oggi, di Amerigo Verardi?
Io sono cresciuto con quella band, è stato il primo progetto a cui mi sono dedicato con grande impegno e passione. Non si tratta solo di ricordi, ma di un’esperienza irripetibile sotto il profilo sia musicale che umano, un’esperienza che ho dentro, che fa parte di me. In tutto quello che ho fatto e che faccio tuttora con la musica c’è anche un pezzo di Allison Run, senza dubbio. Ci sono frammenti di quegli anni ovunque. Pensa che mi porto ancora dietro un piccolo tic che mi ha passato Alessandro (ndr, tic che non ci è dato di sapere).

C’è qualcosa che ti manca di allora?
Non saprei. Sono una persona che forse è sempre troppo coinvolta dal presente, e sono sempre stato così. È difficile che mi convinca di sentire la mancanza di qualcosa o qualcuno. Certo, ogni tanto sento che non ho più quella spensieratezza dei vent’anni, ma non è nostalgia, non rivoglio niente indietro. È solo la constatazione che non ho più grandi quantità di quel tipo di cosa. La nostalgia… È una bella parola, suona bene. Probabilmente qualcosa dentro di me lavora per evitarla, perché ho quest’idea della nostalgia come di un sentimento che mi rende poco propositivo sia verso me stesso che verso gli altri. Forse da vecchio sentirò di più la mancanza di tante cose vissute, probabilmente sarò più permeabile e indifeso. Se penso a una “mancanza” o a una nostalgia, in ogni caso, il pensiero non va agli Allison malgrado li abbia amati moltissimo, ma vola naturalmente verso mio padre e la mia nonna materna.

Julian Cope, Syd Barrett e Robyn Hitchcock: questi i principali riferimenti che sono stati fatti negli anni parlando della tua personalità artistica e della tua musica. Sinceramente, quanto ti senti vicino a questi personaggi e quanto hanno realmente influenzato la tua musica?
Lennon, Barrett, i Rolling Stones, Bowie, Lucio Battisti, Lou Reed, i primi Cure, i Television… Ho ascoltato e ancora ascolto tutto ciò. È stata la mia scuola naturale, mi sono sentito sempre vicino a quel modo di interpretare il pop. A 14 anni ascoltavo l’Album Bianco e pensavo “Mmm… MARTHA MY DEAR non la posso scrivere, ma HAPPINESS IS A WARM GUN ci potrei provare, sì… “Ah ah ah!” (ndr, sorride) Capisci che stronzetto? Ero così con i miei Maestri! Sai, credo sia essenziale crederci e provarci. Sempre. Senza presunzione, possibilmente. Sapendo di avere sempre da imparare e da scoprire. Da Barrett credo di aver appreso che tutto è possibile se hai la mente aperta e ricettiva, e se lasci naturalmente convivere ciò che vivi con ciò che suoni. Nessun limite alla creatività e all’espressione, dipende solo da te. Ne sono tuttora convinto. Montagne di jazz e musica etnica nordafricana e asiatica da sempre mi permettono di viaggiare ben oltre i confini del rock ed esplorare differenti stati psicofisici. Dei Rolling Stones degli anni ‘60 amavo quella sfacciataggine e quell’oscurità che accompagnava sempre ogni loro mossa, riflettendosi naturalmente nella musica che creavano. Brian Jones è stato il mio primo, vero mito musicale. Due anni fa sono stato nel villaggio di Joujouka, nel Nord del Marocco, dove Brian Jones aveva registrato nel 1968 i suoni catartici dei flauti, dei rhaitas e dei tamburi dei Master Musicians of Joujouka. Una musica di una purezza tale che non mi è facile parlarne. Suoni reiterati, ciclici, che creano una condizione di trance a chi suona e a chi ascolta. Un’atmosfera di pura magia. E con Anita Pallenberg lì presente che in perfetto italiano prova a smorzare quella magia con il suo cinismo proverbiale, e mi sorprende concedendomi l’onore di qualche confidenza non richiesta, tipo “Brian non era inizialmente molto interessato a questa roba, è stato portato quasi di forza in questo villaggio perché era diventato troppo paranoico e io e Keith non lo stavamo più sopportando, volevamo togliercelo di torno facendogli fare qualcosa che potesse aiutarlo, catturando la sua attenzione. Lui stava qui con i suoi registratori, e noi ce la siamo svignata”. Ecco come si prova a smontare un mito, in perfetto stile Anita. Che donna!

A proposito di influenze e di riferimenti musicali, mi dici quali sono i tuoi cinque album da isola deserta che ti vengono in mente in questo preciso momento? Non prenderla eccessivamente sul serio perché, come al solito, è semplicemente un gioco tra appassionati.
“In a silent way” di Miles Davis, “Imidiwan” dei Tinariwen, “Electric Ladyland” di Jimi Hendrix, “The end of the game” di Peter Green, “666” degli Aphrodite’s Child. Ma se la domanda fosse comodamente aggiornata all’era degli mp3, sull’isola stai certo che mi porterei tutta la discografia della Impulse Records! (ndr, sorride)

Ultimamente, invece, quali novità discografiche hai apprezzato particolarmente più di ogni altra?
A parte i Tinariwen, non mi viene in mente nessuna novità eclatante in campo discografico internazionale che mi abbia veramente messo KO. Sono sicuro che ci sono una miriade di cose interessanti e anche innovative in giro, ma non è che sto tutto il giorno a controllare. Sono più interessato a ciò che succede in Italia, per la verità. Ascoltare Edda per me è infinitamente più coinvolgente e ha in generale più senso che ascoltare le tronfie produzioni inglesi alla Muse, per intenderci. Non li reggo. E poi c’è “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori, che mi ha fatto davvero un’ottima impressione. E qualche anno fa ho comprato “Vago svanendo” di John De Leo, che mi è piaciuto tantissimo. John ha fatto uno dei più bei concerti a cui ho assistito in questi ultimi anni. Veramente un fuoriclasse, sono certo che prima o poi il suo talento verrà apprezzato anche e soprattutto in Europa. Glielo auguro di cuore.

Facciamo nuovamente un passo indietro. Ricordo che, quando comprai la compilation “Union”, tra tutti i brani presenti nel disco, quello che mi colpì già dal primo ascolto fu il vostro; rimasi affascinato dalla vostra versione de “La Fata” di Edoardo Bennato. Bellissima! Ancora oggi. Perché sceglieste quel brano? Raccontaci qualcosa di particolare che, forse, non hai mai detto a nessuno.
“Burattino senza fili” l’ho comprato quando avevo meno di 12 anni, ed è stato il primo album italiano di cui mi sono innamorato. Bennato è stato uno dei pochi veri rock’n’roller in Italia, uno dei pochi a poter riprodurre QUEL sound. Gli piacque molto la nostra versione, o almeno così ci disse. Lo incontrammo al Primo Maggio in Piazza S. Giovanni a Roma nel 1990. Quella sera avremmo dovuto suonarla insieme, “La fata”. In principio il festival sarebbe dovuto essere incentrato su nuove band indipendenti e con la speciale partecipazione di pochi big come appunto Bennato. Mi sembra ci fosse anche Franco Battiato, e poi i Litfiba. Gli Allison Run avrebbero dovuto suonare due pezzi dal vivo, così come tanti altri gruppi. Poi, man mano che le case discografiche più grosse si resero conto di stare a perdere un importante treno promozionale, la situazione precipitò in modo radicale e squallido. Le major, dall’alto del loro magnifico potere stile “Il Padrino”, cominciarono a IMPORRE alcuni dei loro nomi più grossi allora in classifica o in promozione. Diventò un baraccone senza capo nè coda, che aveva completamente smarrito il suo spirito iniziale. E l’aspetto peggiore di questa triste manipolazione dell’evento fu che a noi, come anche agli altri gruppi indie coinvolti, fu imposto di partecipare con una sola canzone e per di più eseguita con la base in playback. Noi mimammo “La fata”, appunto. Avremmo dovuto rinunciarci e basta, a quel punto mi sono sentito un vero idiota. Vabbè, andò così, chi se ne importa. Adesso il Primo Maggio a Roma ha acquisito tutto un altro senso e un’altra vita, mi sembra.

Che tipo di rapporto hai avuto e hai con la musica italiana?
Quando ero adolescente non ascoltavo molta musica italiana. Sai, quando sei perso con i vari Stones, Beatles, Hendrix, Who e via discorrendo, non è facile trovare riferimenti adeguati nella musica prodotta qui da noi. Ho sempre amato il blues e il jazz e tutte le relative derivazioni. I Doors mi davano letteralmente delle allucinazioni, e prima di poter provare qualcosa di analogo nei confronti di artisti nostrani, è dovuto passare del tempo. L’equilibrio si è ristabilito quando mi sono perso per Lucio Battisti, quando ho ascoltato appunto “Burattino senza fili” e poi “Arbeit macht frei” degli Area, quando nel 1979 ho comprato il primo album solista di Mauro Pagani che per me è un assoluto capolavoro, e quando Faust’O con i suoi primi tre dischi mi ha fatto capire che la nostra lingua poteva essere serrata, tagliente e modernissima anche alle prese con uno stile musicale più ritmico e influenzato dalla new wave. Mi piace ascoltare i testi che si muovono in simbiosi con la musica e con quello che c’è intorno. Da molti anni, ormai, trovo che la nostra musica sia estremamente valida e competitiva a livello internazionale anche in ambiti di rock oltre che di canzone d’autore in genere. Scopro sempre più spesso molta musica di spessore prodotta nel nostro Paese. E poi abbiamo musicisti di prim’ordine in fatto di gusto, fantasia e tecnica. In Italia Giovanni Ferrario è quasi un signor nessuno. Per me è un grande chitarrista, e in assoluto è lui il miglior produttore di rock italiano indipendente. Ma anche per PJ Harvey evidentemente è un musicista di serie A, visto che gli ha chiesto più di una collaborazione in studio e dal vivo. I Leitmotiv, gruppo della provincia di Taranto con cui ho avuto il privilegio di collaborare, fanno grandi concerti, vincono il Festival del Mediterraneo e vengono apprezzati in Europa dell’Est e anche in Spagna, mentre qui da noi non trovano nemmeno uno straccio di etichetta nè un’agenzia di booking che abbia voglia di lavorare con loro. Come si fa a non deprimersi? Non c’è niente da fare, non riusciamo a valorizzare tutto il nostro potenziale, e forse è anche un po’ il pubblico indie-rock stesso che sembra aver smarrito la voglia di scoprire cose nuove e in generale la capacità di provare curiosità e stupore. E in più siamo anche bloccati da politiche sociali minatorie, regolamentazioni SIAE a dir poco misteriose, e infami tagli sullo Spettacolo. Tutte cose che meriterebbero come risposta una ragionevole rivoluzione armata. Battute a parte, credo sia tempo per una sana, totale autarchia artistica.

Domanda lunga e da cento milioni di euro (ndr, sorridiamo). Hai sempre avuto il pallino per i progetti paralleli o, comunque, la voglia di sperimentare nuove strade e nuovi percorsi musicali utilizzando, spesso e volentieri, nomi e sigle diverse. Se non ricordo male, infatti, già mentre suonavi con gli Allison Run portavi avanti un altro progetto, i Betty’s Blues, che però durò giusto il tempo di un EP. Poi cu fu l’incontro con la Cyclope Records di Francesco Virlinzi che segnò, in qualche modo, l’inizio della tua attività da solista, prima con “Morgan” (1993) e poi con “Cremlino e coca” (1997). Poi vennero due album siglati Lula (“Da Dentro” del 1993 e “Lula” del 1999) , “Nessuno è innocente” (2003) a nome Lotus e “The dregs of a nation” (2004) come The Freex , fino ad arrivare agli attuali progetti firmati Amerigo Verardi e Marco Ancona. Bene, da dove nascono questi continui cambiamenti di “identità” e questa continua ricerca musicale? Cosa cerca Amerigo Verardi nel rock?
Cerco da sempre un tipo di soddisfazione che non riuscirei a definire in maniera esauriente con le parole. Cerco e basta. (ndr, risposta da cento milioni di euro)

Tra tutti i progetti elencati, a quale sei particolarmente e inconsciamente legato?
Sono tutti progetti che ho amato realizzare, a cui ho dedicato una parte della mia vita. Erano ciò che desideravo fare nel momento in cui li portavo avanti. Con ognuna delle persone che hanno condiviso con me quei progetti ho avuto un rapporto di grande vicinanza empatica. Forse i Freex, un duo formato da me e Silvio Trisciuzzi, hanno rappresentato il culmine di questo tipo di sintonia tra me e altri musicisti. È un paradosso, se pensi che di questo progetto è stato pubblicato solo un singolo brano. Per quello che mi riguarda, con Silvio ho prodotto della musica semplicemente fantastica.

Preferisci cantare in italiano o in inglese? Oppure per te non c’è alcuna differenza?
Mi piace scrivere qualche volta anche in inglese. Ma preferisco di gran lunga scrivere e cantare in italiano. Diversamente, mi sarei già da tempo trasferito a Londra o in California.

Non sei soltanto un cantautore ma anche un produttore artistico. Penso, per esempio, a dischi cult italiani come il “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle e “La verità sul tennis” dei Virginiana Miller, e altri ancora. Mi dici cosa ti entusiasma di quest’altra attività rispetto a quella di musicista?
Entrare in una sfera di pensiero totalmente differente dalla mia, ed empatizzare con quella di altri fino a diventarne una parte complementare. Mi sento felice quando queste mie proiezioni aiutano a creare una certa magia intorno, quando aiutano ad ampliare e completare un certo lavorio creativo su un progetto. Nel mio piccolo, mi piace contribuire al diffondersi della bellezza in senso lato. E, malgrado le difficoltà oggettive, sono davvero fortunato a pensare di potermi guadagnare da vivere così.

Assieme a personaggi come Federico Fiumani, Miro Sassolini, Cesare Basile, Paolo Benvegnù e Moltheni, così giusto per fare qualche nome e un salto nel passato, Amerigo Verardi è una della figure storiche e carismatiche della scena musicale indipendente italiana. Come ci si sente in questa veste di incorruttibile divulgatore di rock e come si fa ad andare avanti così tenacemente resistendo alle “intemperie” della vita artistica?
Occupandoti di ciò che ami e che vuoi veramente fare, ed evitando accuratamente di pensare a tutto quello che hai appena citato.

Vivi più o meno interrottamente la musica rock fin dagli anni ’80. Raccontami le cose che hai visto cambiare, in peggio e in meglio, in tutti questi anni, anche dal punto di vista della critica musicale.
Non saprei da dove cominciare, la domanda è troppo complessa e ci vorrebbe un libro e anche uno scrittore che abbia voglia di scriverlo per raccontare qualcosa di apparentemente sensato ed esauriente. Io sarei forse più adatto a raccontare il mio punto di vista su cosa è cambiato dentro di me. Ma questo non ha molto a che vedere con il rock.

Quale consiglio daresti a un giovane che sta muovendo i suoi primi passi nella musica indipendente e rock?
Di suonare quello che suona con il più alto senso del divertimento. E di cercare magari di guardare indietro e capire cosa hanno cercato i Maestri di questo genere musicale e perché.

Dal punto di vista sociale e politico, invece, cos’è cambiato in meglio e in peggio in Italia?
C’è proprio bisogno che lo dica io? Vuoi sentirmi dire, come ho già più volte detto e come tanti hanno già detto, che l’Italia puzza sempre di più di corruzione, di corrotti, di fascismo vecchio e nuovo, di mafia vecchia e nuova, di ignoranza becera, di sterilità intellettuale, di indifferenza e di volgarità? C’è bisogno che lo dica io che il sig. B. (ndr, chi sarà mai?) e i suoi lacchè si presentano agli occhi della gente onesta come un’associazione a delinquere autolegalizzata? E quella che viene chiamata “Opposizione” non l’ha già qualificata a suo tempo alla perfezione Nanni Moretti? Mi dispiace profondamente per tutta la gente in gamba, e ce n’è tanta, che è costretta a subire la meschinità progressiva della parte peggiore di questo Paese e della spregevole classe politica che degnamente la rappresenta. Sono angosciato per tutta le persone intelligenti, sensibili e capaci che non riescono a trovare un lavoro adeguato alle proprie qualità umane e professionali. Sono addolorato per le famiglie dei lavoratori in cassa integrazione o alle soglie del licenziamento. Anche se devo ammettere che a volte mi soffermo a pensare a coloro che hanno avuto il coraggio e la spregiudicatezza di votare e sostenere negli anni questa nuova classe politica. Chi ha permesso al sig. B. e alla sua rozza e spietata idea di capitalismo e di cianfrusaglie di entrare nelle nostre case? Non sono stati solo i ricchi, i potenti e i privilegiati, ma – ed è questo che mi fa un po’ star male – anche la gente cosiddetta “semplice”, le casalinghe, i pensionati, gli studenti, gli operai, i cattolici… sono stati anche loro a votare e lodare questo arrogante psicopatico che da più di 15 anni sevizia l’Italia, la nostra cultura, la nostra intelligenza, la nostra Costituzione. E sono stati anche un bel po’ di ex-comunisti delusi, molti ora neo-imprenditorini convinti, a mischiarsi tra i rampanti di “Forza Italia”, e io ho avuto negli anni la possibilità di incontrarne parecchi. Adesso che il boomerang tornerà violentemente al mittente, perché sta succedendo esattamente questo, pochi si assumeranno la responsabilità morale di questo asservimento, di questa dissennata fiducia-adorazione per il potente dei potenti. Ognuno di noi avrà da riflettere sulle relative conseguenze di una scelta così stupida e illusoria, tanto da risultare una sciagura per tutti, indistintamente. Siamo un popolo stordito e indebolito da montagne di menzogne, robaccia televisiva, insulti di ignoranti leghisti e lezioni morali da cocainomani e delinquenti comuni mascherati da politici, proclami circensi e illusioni da quattro soldi. Napoli rappresenta una metafora nazionale. Come facciamo a non vedere e sentire tutta la spazzatura che ci ricopre?

Chiudiamo questa triste parentesi italiana e torniamo a parlare di musica. Prima accennavo al tuo attuale progetto con Marco Ancona. Com’è nata questa collaborazione, quali sono i progetti finora realizzati e, in linea generale, come sta andando?
Il progetto con Marco nasce dall’idea di fare una data in acustico. Ma dico proprio una, in un locale vicino Lecce. Durante le prove ci siamo impegnati e anche divertiti. È venuto fuori un suono, e poi non volevamo più smettere di suonare e organizzarci concerti. Ne abbiamo fatti quasi un centinaio in tutta Italia. Abbiamo stampato un album registrato dal vivo e lo abbiamo chiamato BOOTLEG. Abbiamo avuto recensioni su tutti i giornali e le webzine nazionali. Abbiamo vinto il Premio PIMI-MEI come migliore autoproduzione dell’anno. Nel fare tutto ciò non abbiamo avuto nessuno alle spalle, né etichette né ufficio stampa, ed è stata una vera boccata d’aria. Credo che la storia di questo progetto possa esprimere abbastanza fieramente e senza ambiguità un concetto ampiamente verificabile di indipendenza. Autarchia, appunto. E questo naturalmente senza scendere nel dettaglio della qualità artistica dei singoli progetti. Per ciò che ci riguarda, a settembre pubblicheremo un album registrato e autoprodotto nello studio di Marco. Con noi hanno collaborato il batterista dei Fonokit Paolo Provenzano e il tastierista de Il Genio Gianluca De Rubertis. Lavoreremo con un’etichetta salentina, la Lobello Records, creata da un musicista che è anche nostro amico, e con un team interamente basato su realtà e talenti locali. Non sono mai stato campanilista, non è nella mia indole, ma sono convinto – come molti pugliesi – che un certo senso di riscatto nazionale possa partire anche e soprattutto dal forte carattere e dal talento della gente del Sud.

Ci sono altri musicisti con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?
L’elenco sarebbe spropositato.

Cos’altro bolle in pentola?
Un mio album da solista. Poi una colonna sonora per un cortometraggio e un nuovo progetto con una band che sto cercando di assemblare.

“Riesumare” gli Allison Run, no, eh?
Faccio il musicista, non il becchino (nrd, ridiamo). Ti dico la verità: al momento non mi sento né abbastanza famoso né abbastanza annoiato per pensare a una reunion. Un giorno, chissà…

Com’è la tua vita di tutti i giorni? Voglio dire, oltre la musica, cos’altro ti piace fare?
Mi piacciono davvero un sacco di cose, e per questo motivo cerco di farne il meno possibile.

Complimenti per la musica che ci hai dato e che ci continuerai a dare e, naturalmente, grazie per averci concesso l’intervista.
Ma grazie a te, accidenti!

ML – UPDATE N. 78 (2011-06-02)

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musica

Cesare Basile – Intervista (2008)

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Con l’uscita di “Storia di Caino”, ci è sembrato doveroso scambiare due chiacchiere con uno dei migliori musicisti della scena rock indipendente italiana.

“Storia di Caino” è un album – a mio avviso – ben più fluido e immediato dei lavori precedenti che, tuttavia, non perde un briciolo di toccante e struggente poesia. È una mia impressione o nella realizzazione di questo disco avvertivi una particolare urgenza di comunicazione che non fosse così intima come per esempio “Hellequin Song”?
Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno e non con me stesso. C’era probabilmente l’urgenza della storia e non della confessione. Penso che Hellequin Song sia un disco che si guardi dentro.

A proposito di “Hellequin Song”, “Fratello Gentile” è una traccia che avrei visto benissimo in quest’ultimo lavoro, proprio per il suo carattere elettrico che si conforma molto alle atmosfere blues e rock di “Storia di Caino”…
Forse perché il Fratello Gentile è una figura ricorrente nelle mie canzoni, una matrice che si ripropone spesso sotto spoglie diverse. Credo che siano i fondamenti del personaggio, più che l’arrangiamento, a essere facilmente accostabili a molte delle mie cose. Canzoni di rabbia.

Ancora una volta John Parish in cabina di regia. Ci racconti come è nato questo incontro e cosa ha rappresentato per te e per la tua musica?
Con John lavoriamo insieme ormai da anni. Mi mise in contatto con lui Marina Petrillo di Radio Popolare, io gli mandai la demo di Gran Calavera Elettrica e da lì venne il resto. È una di quelle collaborazioni che vivono grazie alla profonda stima fra le parti. Abbiamo imparato negli anni a dare e avere, ad accettare le nostre diversità e a trasformarle in risorse.

E con Robert Fisher?
Robert l’ho conosciuto un paio d’anni fa. Abbiamo fatto un tour acustico insieme e ci eravamo riproposti di collaborare alla prima occasione. Questo è il modo che preferisco nel fare musica, cogliere gli incontri, arricchirsi delle esperienze dell’altro e condividere le canzoni.

Nelle note di presentazione di “Storia di Caino” scrivi: “Credere è sempre l’atto più grande della promessa d’amore”. Una frase bellissima. Ti andrebbe di filosofare e scendere in profondità sul legame tra la frase in questione e il tuo ultimo album?
Non sono bravo a fare filosofia. I personaggi di questo album non si aspettano niente in cambio, credono in una promessa al di là di questa promessa. Quasi che il loro onore fosse legato a quel primo atto di fedeltà. Nel credere ci si mette in gioco e si supera spesso l’oggetto della fede, ci si ritrova al centro dell’Amore.

Com’è avvenuto invece l’incontro con la Urtovox e il cambio di etichetta?
Ero alla fine dell’esperienza Mescal e avevo un disco pronto. E Urtovx aveva voglia di farlo questo disco. Questo è tutto.

Potrebbe esserci un seguito?
Perché non dovrebbe esserci? Lavoriamo insieme e stiamo imparando a conoscerci. Quando c’è stima e rispetto non c’è motivo di non continuare.

Ti senti più vicino a Fabrizio De Andrè o a Nick Cave?
Mi sento vicino anche a Piero Ciampi, ai Joy Division, a Neil Young, agli Husker Du, mi sento vicino a tante cose, tutte cose che mi hanno fatto crescere e da cui ho imparato molto. Non penso di essere un epigono o un emulo dell’una o dell’altra. Sicuramente De Andrè e Nick Cave sono più vicini l’uno all’altro di quanto si possa credere.

C’è un disco della tua carriera a cui ti senti particolarmente legato? E perché?
Non particolarmente. Forse “Closet Meraviglia”, perché in quel disco ho cominciato a esplorare e a giocare di più con la musica. C’è tanta libertà in quel disco, e poi è l’ultimo disco che ho registrato con Umberto Ursino al basso che purtroppo è morto poco prima dell’ uscita dell’ album.

C’è invece un album, italiano o straniero, che torni ad ascoltare sovente e che fa parte del tuo background musicale?
“After The Gold Rush” di Neil Young.

Cosa stai ascoltando ultimamente?
I vecchi album della Nuova Compagnia di Canto Popolare e “White Chalk” di P.J. Harvey.

Abbiamo ancora una speranza?
Dobbiamo sperare di avere ancora canzoni da scrivere. Io di canzoni credo di averne ancora tante da scrivere.

Foto: Corrado Vasquez

ML – UPDATE N. 55 (2008-06-21)

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Maurizio Blatto – Intervista (2011)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” (ML 75) Di questo e altro abbiamo provato a parlarne, più o meno seriamente, direttamente con l’autore. Buon divertimento.

Appena ho avuto il tuo libro tra le mani, la prima cosa che ho letto e che naturalmente mi ha colpito è stata la tua breve nota biografica: “Nato nel 1966, ha accantonato sul nascere una carriera da avvocato preferendo Backdoor, storico negozio di dischi cittadino […]”. La prima domanda stupida che mi viene in mente è questa: come si trova la forza e il coraggio di abbandonare, dopo anni di studi, una possibile quanto redditizia professione da avvocato per lavorare in un negozio di dischi?
Beh, ci ho provato. Sono stato forse il primo a laurearmi con una tesi sulle direttive europee di quella che poi sarebbe diventata la legge 626 (sicurezza sul lavoro). Io speravo di trovare una collocazione sul versante della difesa dei lavoratori. Non mi cercò nessuno. In compenso mi chiamavano tutte le grandi aziende, e per i motivi opposti. Una volta mi proposero un’assunzione immediata nell’ufficio del personale di una grande industria. Vendevano aerei da guerra in Siria. Io tornavo a casa e avevo Billy Bragg sul giradischi. Telefonai: “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Non avrei mai potuto farcela. Mi presero in un grande studio, mentre andavo in tribunale avevo Rockerilla e l’NME nella borsa. Mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo i Minutemen nel walkman. Non sentivo le chiamate che arrivavano dalla segreteria.Bussai alla porta del titolare dello studio e dissi “Mi spiace. Avete puntato sulla persona sbagliata”. Di nuovo capii che non avrei mai potuto farcela. Il giorno dopo andai a fare il commesso nel mio negozio di dischi preferito. I miei non dissero nulla, ma capirono lentamente. La mia compagna di allora, oggi mia moglie, mi sostenne. Moralmente ed economicamente. Billy Bragg e i Minutemen non lo seppero mai.

La nota biografica, poi, si chiude con “L’ultimo disco dei Mohicani è il suo primo libro”. Ecco, quindi, che scatta immediatamente la seconda domanda, altrettanto banale: come si arriva a pubblicare il primo libro a 44 anni, in un’epoca in cui ci sono autori che neanche a trent’anni hanno pubblicato dischi e libri a volontà?
Scrivo da più di quindici anni su Rumore e ho spesso collaborato con riviste musicali, occupandomi talvolta anche di letteratura e sport. Non avevo mai preso seriamente in considerazione l’idea di scrivere un libro. Sono lento, tendo a rimandare tutto all’ultimo momento (ma sono puntualissimo). Seppur in modo svagato, elaboro però in continuazione. Credo fermamente nella necessità di fare poche cose, ma bene. E nell’obbligo di seguirle finché si può, promuoverle e assecondarle. In un mondo di tutto e di più, io sostengo il “meno è meglio”. Quindi mi sono svegliato tardi. L’idea di questo libro ce l’avevo però da tempo, questo sì. Fermentava dentro e alla fine si è tramutata in una vera esigenza.

Quanto tempo ci hai lavorato sopra?
Molto poco e a tratti. Soprattutto notti e qualche pomeriggio strappato agli impegni di famiglia (una bambina che esce da scuola, hai comprato il latte?, l’altra bambina che esce dall’asilo, cazzo c’è una perdita in cucina!), al lavoro in negozio e alle scadenze delle riviste. Ho sempre vagheggiato di andarmene via un paio di settimane a “scrivere il mio libro”, ma è stato impossibile. Ho subaffittato una stanza nello studio dove lavora mia moglie e stretto i tempi. In totale, e con pause lunghissime in mezzo, direi sei mesi circa.

Perché proprio Castelvecchi editore?
Mi aveva cercato Arcana per un progetto diverso, più strettamente musicale. Bisognava seguire un gruppo, fare interviste e muoversi. Impossibile per me in quel periodo. A Gianluca Testani, direttore artistico di Arcana, parlai però del progetto di quello che sarebbe poi diventato L’ultimo disco dei Mohicani e gli fece leggere quel poco che avevo già scritto. Lui ne fu entusiasta sin dall’inizio. Il passaggio a Castelvecchi, casa editrice gemella, lo concordammo insieme, perché il libro potesse nascere in un ambito più strettamente narrativo e meno musicale. Non ho mai contattato nessun altro editore. Per me è determinante lavorare con le persone che mi piacciono e sono gentili con me. Gianluca è stato uno di questi. Firmare un contratto e avere una data di consegna è stato fondamentale. Io mi conosco bene e so che soltanto gli obblighi mi spronano a produrre.

Penso che L’ultimo disco dei Mohicani vada letto non solo per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, ma anche per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. In fondo un negozio di dischi è quasi sempre frequentato da gente fissata, o no? Quando hai capito che la tua laurea in giurisprudenza si sarebbe ben presto trasformata in una laurea in psicologia?
Alla fine sono diventato come un taxista newyorchese, che non si stupisce più di nulla. La musica e il collezionismo sono due (splendide) dipendenze che selezionano già alla porta un certo tipo di umanità, ma davvero io credo di avere una sorta di calamita che attira i caratteri sghembi. La gente ha bisogno di essere ascoltata, si “apre”, e dopo poco l’ordinario va in soffitta. Di sicuro quando mi hanno chiesto “Che Guevara ha fatto più niente?” ho capito che non si tornava più indietro.

Conciliare lavoro e passione non sempre può risultare piacevole. C’è stato il classico momento in cui avresti voluto abbandonare il tuo lavoro e goderti le tue passioni, in perfetta solitudine, da semplice consumatore finale?
Onestamente accade spesso. Culli questa idea di essere a casa ad ascoltare Nick Drake mentre fuori nevica. Talvolta fai il pieno di “parole” e scoppi. Probabilmente accade a chiunque abbia fare con il pubblico. Ma altrettanto sinceramente la condivisione di questa insana passione è ancora un punto forte. Le classifiche, le analisi dei brani, le lista di ricerca, il pacco appena arrivato dall’Inghilterra: è ancora un bello spasso.

Oggi rispetto a ieri, cos’è cambiato nell’attitudine culturale dell’appassionato di musica? E cosa invece è rimasto pressoché immutato?
L’appassionato che ha iniziato con il supporto fisico, vinile o cd che sia, è rimasto in buona parte lo stesso. Anzi, in molti i casi ha estremizzato la sua passione/ ossessione. Chi comprava tre cd all’anno e adesso scarica tonnellate di files senza nome dall’ufficio, non ha mai fatto testo. Sulle nuove generazioni la smaterializzazione della musica e la sua apparente mancanza di valore (e non solo monetario) ha tracciato una linea netta. Ma ultimamente ho notato un piacevole ritorno dei giovanissimi. Ipod e vinile stanno diventando un connubio diffuso.

Qual è la tua opinione circa le webzine che fanno critica musicale?
Vanno benissimo, purché siano ponderate e non buttate di getto. Non amo il bloggerismo d’assalto, i giudizi di pancia e livorosi. La possibilità di pubblicare immediatamente on line spesso si porta dietro una mancanza totale di filtro, una sorta di autocensura che, a ogni livello (carta stampata compresa), andrebbe più praticata.

È inutile dire che ho trovato il tuo libro davvero bello e divertente oltre che pieno zeppo di riferimenti. Mi chiedevo, però, se tutti quei personaggi e quelle situazioni sono davvero reali o se in parte sono frutto della fantasia dello scrittore Maurizio Blatto?
Drammaticamente reali. Io ho apportato giusto qualche arrotondamento narrativo. E, in un’ottica di protezione dei collaboratori di giustizia, ho cambiato qualche nome per salvaguardare la libertà di alcuni compratori selvaggi. Da scrittore, se avessi inventato le storie, temo che mi sarei auto cassato. Tipo “No, a questa non ci crederebbe nessuno”.

Che fine ha fatto, allora, l’uomo che ha inventato i Massive Attack? L’hai più visto o sentito? (ndr, sorrido)
Sparito. Per fortuna mi verrebbe da aggiungere. In realtà sono io che gli dovrei qualcosa. Beissline è il pezzo che funziona di più durante le presentazioni e il fatto che gli Offlaga Disco Pax lo abbiano sempre letto (e musicato) durante i bis del loro ultimo tour è stato per me un grandissimo veicolo promozionale. Oltre che un evidente motivo d’orgoglio. Dove sarà? Magari sta inventando il genere musicale che sconvolgerà il prossimo decennio. Chissà.

C’è stato qualche cliente che leggendo il libro si è riconosciuto in uno dei personaggi da te descritti ed è venuto in negozio o ti ha chiamato al telefono per lamentarsi o per complimentarsi?
Io avevo avvertito tutti. Guardate che sto scrivendo un libro su Backdoor, magari ci finite dentro… Praticamente tutti mi hanno dato carta libera, felici in ogni caso di venir rappresentati e inseriti nel nostro amato microcosmo. Ma succede spesso che qualcuno che è stato descritto, anche ferocemente, mi dica: “Comunque mi sono riconosciuto!”. Allora mi tremano i polsi e chiedo “Ah sì, dove?”. E loro, immancabilmente “Eh, in quel capitolo dove si parla delle mogli che rompono i coglioni! Che vita dobbiamo fare!”

Dentro questo libro c’è un po’ tutto quello che il rocker e l’appassionato di musica rock cerca: sesso, sentimento, divertimento ma soprattutto il fervore per quel background culturale che ci spinge a leggere certi libri, a vedere certi film e ad ascoltare certi dischi. C’è qualcosa che non hai scritto e che avresti voluto aggiungere?
Sesso soprattutto degli altri direi (vedi il paragrafo di Marcello), ma capisco cosa intendi. Oltre a
ciò che dici mi preme il senso di appartenenza. Tribù, sottocultura, manipolo di snob, conventicola di “tuonati”. Qualsiasi cosa sia è un sentire fondamentale. Nel libro ho messo tutto quello che ritenevo importante e funzionale al ritmo della narrazione. Incredibilmente mi sono scordato di “Quando ho stretto la mano al Presidente del Kazakistan”, destinato a diventare una sorta di bonus track del futuro.

Per caso stai già pensando di scrivere un altro libro?
Come accennavo prima, sono nella fase dell’elaborazione. Ci penso con una certa continuità. Tenterei un romanzo, mantenendo alcune caratteristiche mohicane. Territorialità e linguaggio soprattutto.

Credo che i negozi di dischi in qualche modo si somiglino un po’ ovunque, per clientela, per atmosfere, per situazioni talvolta anche assurde e imbarazzanti, soprattutto per chi entra per sbaglio o per la prima volta in simili ambienti. Pensi che andrebbe ratificata una legge o una circolare interna tra i negozianti del settore che obblighi a esporre all’esterno un cartello a caratteri cubitali del tipo: “Attenzione: questo è un negozio di dischi”?
L’insegna potrebbe aiutare, soprattutto quando entrano e ti chiedono un dvd di George Clooney o una grammatica in spagnolo…

Consiglieresti mai questo lavoro alle tue figlie?
Non direi, penso che vendere dischi diventerà come fare il liutaio o aprire una bottega di caccia e pesca. Qualcosa di simile a quelle occupazioni che vedi nelle saghe di paese, stile “gli antichi mestieri”. Detto questo per me rimane tra i lavori migliori del mondo. Di sicuro auguro alle mie due figlie di poter fare una professione che le gratifichi e le rappresenti almeno in parte. Banale e disperato come auspicio, mi rendo conto. Ma credo valga la pena di rischiare. E accontentarsi, certo.

Sempre dalla tua nota biografica, leggo: “Dovendo scegliere, sceglie il vinile”. Quali in particolare?
Drammaticamente tutti. I vinili intendo, da quelli pregiati e irraggiungibili, fino alle schifezze da mercato dei disgraziati. Gli originali della Motown e il 45 con i discorsi di Papa Giovanni. Tutto mi seduce in qualche modo. Pochi oggetti come il vinile hanno la capacità di catapultarti in un’epoca distante o in una dimensione parallela. I 10” della Sarah records con le copertine fiorite e le raccolte disco anni settanta con scritto a biro “Stefania sei bona” sul retro. Tutto mi comunica qualcosa. Quelli che mi hanno segnato irrimediabilmente? Per motivi diversi, i tre fondamentali sono l’esordio degli Smiths, la banana dei Velvet Underground e Lungo i bordi dei Massimo Volume.

Il solito gioco: qual è stato il tuo disco del 2010?
Cattive Abitudini dei Massimo Volume. Un ritorno da me desideratissimo, ma con risultati artistici superiori ad ogni aspettativa. Ispirato dall’inizio alla fine, intensissimo.

Un libro e un film che invece ami appassionatamente e che, spesso e volentieri, ti è capitato di tornare a leggere o a guardare.
Al solito, difficile scegliere. Ma direi Si spengono le luci di Jay McInerney. Affresco di perdita e caduta di un’eleganza infinita (io muoio ogni volta dietro alle storie delle coppie che si sgretolano. Insieme al tema della sopravvivenza è la mia cosa). Il film? Butch Cassidy, probabilmente per gli stessi motivi elencati sopra.

Buttiamola anche sul polemico (ndr, sorrido). Pensi davvero che Tunnel Of Love sia uno dei dischi peggiori di una discografia brillante quale quella di Bruce Springsteen? Sono convinto che quel disco, pur non essendo un capolavoro, col passare degli anni abbia riacquistato la sua giusta dignità, non credi?
Tanto per chiarirci ho paura degli springsteeniani, come di tutti i fedeli intransigenti di qualsiasi chiesa. Non ritengo un cattivo disco Tunnel of Love. Temo addirittura di averlo. È malinconico e per nulla machista dopo gli steroidi, magari involontari, di Born in The U.S.A. Ma è un innegabile classico degli usati. Il rocker stereotipato (padano o dell’Arkansas che sia) lo vive come un tradimento. È il tiramisù portato alla grigliata delle salsicce di cervo. Non va. Quindi tutti se lo sono venduto. È pieno di chiaroscuri con suoni sbagliati. Non ha la bellezza disperata e scarna di Nebraska, ma è un po’ tramonto anni ottanta. Il che me lo rende simpatico. Dopo quel disco tutto quello che ho sentito di Springsteen, francamente, mi è parsa poca cosa.

Senti, ma “a livello di Italia”, musicalmente, come siamo messi?
Ah! meglio che a livello di Spagna, tanto per citare la richiesta bizzarra del libro. Io sono un grande appassionato di musica italiana, non soltanto per motivi di lingua, ma per la sua vera qualità. Detesto lo snobismo “ah no, sai che seguo soltanto gli americani” e simili. Ritengo che siano moltissimi i gruppi interessanti in giro. I miei preferiti? Massimo Volume, Perturbazione, Offlaga Disco Pax e Altro. E tra le ultime cose Distanti, Piet Mondrian e Duemanosinistra.

Una volta, diciamo una ventina di anni fa, ero fuori un negozio di dischi mentre aspettavo che aprisse. Ricordo bene ancora oggi che c’era una persona dietro di me con i capelli lunghi e un giubbetto di jeans tappezzato di teschi e di toppe raffiguranti gruppi come Iron Maiden, AC/DC, Slayer e affini. Per tutta l’attesa non fece altro che emettere suoni di batteria con la bocca (si fa per dire) portando il ritmo con la mano destra sulla gamba destra, quasi fosse a un concerto. Devo ammettere che quel tipo di atteggiamento fu abbastanza noioso e tracotante. A distanza di tanti anni ti chiedo, visto che tu ne hai viste di tutti i colori, che tipo di cliente è l’ascoltatore di Metal? Poi: perché a un certo punto avete deciso di non trattare più, o meglio di accantonare, questo genere di musica a Backdoor?
Io non sono mai stato un metallaro, ma ho sempre avuto simpatia per il loro atteggiamento. Sono dei fan assoluti e non temono il ridicolo, nemmeno quando si riempiono di mostri, croci grosse come quelle del Cimabue e inserti leopardati sul giubbotto. Mantengono una sorta di devozione per il genere anche in tarda età, e persino chi non è più metallaro in genere parla con un sorriso del suo periodo Saxon. Quando Backdoor, all’epoca Metalbridge, aprì nel 1982 scelse il metal per ragioni direi commerciali. Io arrivai nel 1994, quando tutto il metallo era già stato accantonato con rara lungimiranza. Una mezza follia, il metal vende sempre. Attualmente ha un suo repartino in vinile sopra il mobile del jazz, prezzo unico e baraonda senza ordine alfabetico. Ma sopravvive.

Devo ammettere che, dopo aver letto il tuo libro, mi sono sentito una “persona normale”. Grazie!
Ottimo, vuol dire che ti sei riconosciuto in questa via di mezzo tra il villaggio di Asterix e il Circolo Pickwick. È una compagnia “disturbata” ma accogliente. Un po’ questo effetto consolatorio di non sentirsi solo ha fatto anche la fortuna del libro. Ci si annusa e riconosce al tempo stesso. L’importante è non identificarsi con i casi davvero clinici che abbondano nella prima parte del libro. Io lo dico sempre, “non vi sembrava che parlassi di voi? Grande, siete sani”. Ma nel caso qualcuno cominciasse ad avere dei dubbi, dagli il mio indirizzo. Sono sicuro di avere il disco giusto per guarire anche lui.

Foto: Luca Saini

ML – UPDATE N. 76 (2011-03-07)



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A Weather – Intervista (2008)

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“Cove” è l’esordio degli A Weather, formazione di Portland (Oregon) artefice di un album di canzoni malinconiche ma estremamente intriganti, a metà strada tra folk e dream pop. Un debutto sicuramente di non facile presa per via delle sue atmosfere intense e dei suoi ritmi blandi, tuttavia, “Cove” è un disco madido di vibrante poesia e parabole sonore che potrebbero ricordare qualcosa dei Dakota Suite e L’Altra ma anche dei Kings Of Conveniece. Un gruppo che attraversa con attitudine indie certi ambienti musicali cari agli appassionati del cosiddetto New Acoustic Movement. In occasione dell’uscita discografica abbiamo preso subito la palla al balzo per fare due chiacchiare con Aaron Gerber, voce e chitarra della formazione americana.

Oh, mio Dio, anche voi di Portland! Negli ultimi anni da questa città stanno venendo fuori un numero considerevole di artisti e di band che fanno buona musica. Mi dici cosa sta succedendo da quelle parti?
Ho trovato Portland come il posto ideale per una band che vuole iniziare a suonare e farsi conoscere. La comunità musicale è una comunità nel vero senso della parola. Le persone si aiutano a vicenda e i musicisti sono disponibili e vivono con i piedi per terra. A parte questo c’è un sacco di buona musica che sta nascendo: Laura Gibson, Weinland, Loch Lomond, Horse Feathers etc. È una sorta di casualità che ci siamo trovati qui però sembra che il nostro stile musicale abbastanza tranquillo si adatti perfettamente alla visione musicale che gli Stati Uniti e il mondo hanno nei confronti di Portland.

Pensi che da quelle parti stia nascendo un nuovo movimento culturale e musicale? Qual è il segreto di questa città?
Non credo ci sia un segreto. Io penso che Portland attragga i musicisti che vengono da altri paesi come una specie di mecca creativa, ma non penso ci sia qualche codice nascosto e indecifrabile nel modo in cui le cose avvengono. Le gente qui ha un genuino interesse nel creare arte, ma sono sicuro che è cosi da qualsiasi altra parte del mondo. Personalmente non mi sento parte di un movimento. Come ti dicevo, noi suoniamo la nostra musica che potrebbe essere simile a quella di altre band di Portland, ma nonostante tutto è particolare, insolita e personale. Noi avremmo suonato questo tipo di musica indipendentemente dal posto in cui avremmo vissuto.

Ok, parliamo ora del gruppo. Come e quando sono nati gli “A Weather”?
Gli “A Weather” si sono formati nel Gennaio 2007, poco più di un anno fa. Tutto è iniziato come progetto solista sul quale stavo lavorando quando mi sono trasferito a Portland nel 2005. Volevo inanzitutto saltar fuori dalla mia camera da letto e fare qualche concerto ma ero terrorizzato di affrontare questa esperienza da solo, quindi ho cercato dei musicisti con cui condividere il palco e il peso di questa pressione. Abbiamo inziato a suonare in piccoli locali con una formazione sparsa, infine siamo arrivati a suonare con 3 chitarristi, 1 basso, una batteria e 2 cantanti…e questa formazione era la combinazione perfetta.

Perchè “A Weather”?
Amo la natura nebulosa di questo nome. La mancanza di uno specifico o concreto immaginario lascia il nome aperto a qualsiasi sfumatura che la nostra musica può evocare. Il nome non crea necessariamente un preconcetto nell’ascoltatore. È un nome neutrale. Per un momento sono stato interessato al tempo, alle stagioni, alle ore del giorno e agli altri significati che diamo allo scorrere della nostra vita. Ecco, questo è il motivo per cui il nostro gruppo si chiama così.

“Cove” è un album delizioso, un mix perfetto di musica folk e pop dove è possibile ravvisarci influenze recenti e passate, penso per esempio a Simon & Garfunkel, ai Dakota Suite, a L’Altra e a tutto il New Acoustic Movement. A cosa o a chi vi siete ispirati nel realizzare l’album?
Le ispirazioni o influenze, per me sono molto più frequenti durante la scrittura e l’arrangiamento delle canzoni. Mentre siamo in studio è importante solo registrare e mettere i pezzi al posto giusto. Il resto non conta quando una canzone è stata mixata o arrangiata in studio. Quando scrivo è diverso perchè sto ancora modellando la musica con i frammenti della vita di ogni giorno, lo stress e l’idiosincrasia di vivere che inevitabilmente giocano una parte rilevante nel processo di scrittura. Penso costantemente anche a come una canzone si adatti all’album, se i brani sono troppo simili e se hanno un filo logico… Non mi stupisce il tuo riferimento a Paul Simon. Pitchfork ha comparato la mia voce con la sua in una canzone. È stato un grande complimento per me.

Questo alternarsi di voci tra te e Sarah è stato qualcosa di intenzionale o un’idea che si è sviluppata durante la realizzazione del disco come naturale conseguenza nel cantare e suonare assieme?
Non volevo essere il solista della band e nemmeno il leader. Pensavo fosse più interessante avere a disposizione due voci autonome che potessero lavorare insieme pur mantenendo una certa indipendenza. Mi annoia l’idea stereotipata del cantante associato alla corista. Io e Sarah abbiamo cantato insieme per quasi due anni. Passiamo ancora un sacco di tempo rielaborando le nostre parti. A volte lei apporta a una canzone, che io ritenevo già completa, qualcosa di completamente inaspettato e questo è ciò che più mi appaga nell’avere due cantanti nella band.

Avete lavorato molto su questo album d’esordio?
Abbiamo iniziato le registrazioni a metà del mese di Luglio nel 2007 e finito di mixare nella metà del mese di Agosto. Avevamo lavorato sulle canzoni per un anno intero, poi abbiamo speso il primo mese per la registrazione e l’altro per gli aggiustamenti finali; così il tempo nello studio di registrazione, anche se breve, è stato molto produttivo dando l’esito desiderato.

Come nascono le vostre canzoni?
Come già detto, molti dei miei testi si riferiscono a fatti di vita quotidiana, ricordi o stati d’animo particolari. Io non cerco di ordinare queste idee fin dall’inizio, lascio che si liberino nella mia mente e successivamente le organizzo. Poi inizio a lavorare sul ritmo, le rime, e ogni altro aspetto formale legato al testo. Cerco sempre di mantenere una distanza tra me stesso e il mio lavoro, in particolare quando sento che mi sto inoltrando in un’area che mi suscita troppe emozioni; cerco di alleggerire alcuni dei temi piu pesanti con qualcosa di più leggero o ironico. Con questo non penso di fare torto alle mie emozioni; penso che quello che molti di noi musicisti fanno (nel bene e nel male) è cercare di essere utili alla gente. Normalmente l’impeto di una canzone è una melodia che sta al di sopra degli accordi di base. La parte più difficile è trovare un testo che si sposi bene con la melodia senza che questa sia insopportabile o banale.

La copertina del disco è meravigliosa: un piccolo elefante che cammina da solo sulla spiaggia. L’immagine rappresentata rende perfettamente l’atmosfera che si respira ascoltando il disco. Chi è l’autore del disegno?
Sarah ha disegnato la copertina insieme alle immagini contenute all’interno del cd. Sono molto soddisfatto del risultato finale. Lei passa molto tempo a dipingere e i suoi disegni sono in perfetta sintonia con il tipo di musica che suoniamo.

La critica e il pubblico in generale come hanno accolto il vostro esordio?
Le risposte sono state incredibilmente positive. Ci sentiamo veramente fortunati in quanto sia i nostri fan che i critici musicali hanno capito cosa volevamo realmente realizzare con questo disco e hanno preso del tempo per scrivere qualcosa di positivo e ci hanno fatto sapere quanto gli era realmente piaciuto. Non è un disco immediato ma mi fa piacere che la gente gli abbia concesso del tempo per capirlo e non si è fermata a un ascolto superficiale.

Per caso avete già in mente il secondo album?
È ancora presto per parlarne. Abbiamo scritto delle nuove canzoni che eseguiamo durante i nostri live, ma non sappiamo ancora quale sarà la loro fine. Lavoriamo sempre su del materiale nuovo, ma credo che per un pò la nostra attenzione sarà focalizzata su questo disco.

Spero di vedervi presto in Europa, soprattutto in Italia e in Polonia.
Ci piacerebbe visitare l’Europa. Non sono mai stato in Italia e neanche in Polonia ma ci piacerebbe tanto venirci. Ho trascorso qualche mese in Grecia e ne sento già la mancanza.

ML – UPDATE N. 54 (2008-05-10)

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Cesare Basile – Storia di Caino (2008)

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A distanza di quattordici anni dall’esordio (Pelle, 1994) e dopo due meraviglie che non smetteremo mai di ascoltare come Gran Calavera Elettrica del 2003 e Hellequin Song del 2006, Cesare Basile questa volta torna a solleticare le coscienze umane con un album ben più dinamico e sterzante dei lavori precedenti. Forse l’opera più diretta e immediata dell’artista siciliano che, pur non perdendo di un solo grammo di amara e struggente poesia, mette in mostra dodici tracce dai tratti prevalentemente blues consacrandolo, definitivamente, come fuoriclasse indiscusso del cantautorato nostrano. Con una timbrica vocale che a tratti potrebbe ricordare quella di Fabrizio De Andrè e una scrittura quasi alla Nick Cave, il viandante catanese srotola canzoni intimiste che intrecciano passione, sofferenza e una fatale elettricità in grado di toccare le corde del cuore. Gli agnelli, All’uncino di un sogno e Sul mondo e sulle luci sono gioielli d’infinito lirismo custoditi all’interno di un disco capace, come pochi in giro, di fondere tradizione e spirito rock. Una fatica che vede la complicità di Giorgia Poli, Daniel Ardito, Manuela Malfitano, Micol Martinez, Tazio Iacobacci, Massimo Ferrarotto, Fabio Rondanini e nientemeno che Robert Fisher (Willard Grant Conspiracy) che canta in What else have I to spur me in to love. Prodotto ancora una volta dall’inseparabile John Parish, Storia di Caino è un album che, in poco più di mezz’ora, stordisce, appassiona e non smette mai di infondere speranza perché – come dice lo stesso autore – “credere è sempre l’atto più grande della promessa d’amore”. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 53 del 07.04.2008



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musica

Intervista a Luciano Ligabue (1992)

Mentre rovistavo tra le mie vecchie audiocassette, è saltata fuori questa intervista a Luciano Ligabue registrata poco prima del concerto al Centro Fiere di Alatri (Frosinone, 6 marzo 1992), all’indomani del suo secondo album “Lambrusco, Coltelli, Rose & Popcorn”.

Ricordi di rock’n’roll © di Luca D’Ambrosio

Intervista a Ligabue del 6 marzo 1992
Intervista a Ligabue del 6 marzo 1992

Prima che realizzassi il tuo primo disco, due delle tue canzoni, Sogni di Rock’n’roll e Figlio di un Cane, furono incise da Pierangelo Bertoli. Come lo hai incontrato e cosa ha significato per te questo incontro?
Pierangelo Bertoli (1942-2002, ndr) abita a 30 Km da casa mia per cui era quello più a portata di mano, nel senso di vicinanza per cui io, che da anni scrivevo canzoni, ho provato a vedere che tipo di reazioni poteva avere una persona che stimavo e che comunque faceva questo mestiere da tanti anni. Lui è stato molto disponibile, è una persona disponibile in generale. Ha ascoltato alcune cose e ha trovato che c’erano due canzoni che gli interessavano al punto di volerle cantare e così è stato. L’incontro è partito da lì, c’è un’amicizia che rimane, tuttora, che è resa più difficoltosa, rispetto al passato, per il motivo che entrambi oramai siamo impegnati. Ora è molto difficile che riusciamo a incontrarci, però questo non toglie nulla alla nostra amicizia.

Dal rapporto con Pierangelo Bertoli è nata la collaborazione con il suo produttore, Angelo Carrara, che decise di lavorare al progetto del tuo primo disco. Che situazione si venne a creare visto che Carrara veniva da esperienze molto diverse da quelle che tu proponevi?
Carrara è una persona che ha del fiuto e dell’istinto per cui è vero, le cose che facevo io erano talmente diverse che il suo fiuto gli ha fatto capire che la cosa migliore che poteva fare era quella di una produzione esterna cioè di fare in modo che alla fine l’album lo producessi io perché lui sapeva che mettendoci le mani sopra, forse, il disco ne avrebbe risentito e così è stato. Devo dire che fortunatamente il primo disco è andato bene, per cui il metodo non si è discusso ed è stato così anche per il secondo disco.

Se non vado errato nel 1988 mettevi su una formazione che si chiamava Orazero. Cosa ha rappresentato quella band per Luciano Ligabue?
Per essere precisi la band l’abbiamo formata nel 1987. È stata anche la mia prima apparizione in pubblico. Cosa ha rappresentato la band? Ha rappresentato un momento decisivo per me cioè il fatto di vedere che queste canzoni venivano apprezzate dalla gente. Capitava già da sconosciuti, presi un po’ per sfigatelli, perché quando uno non ha successo è sempre preso un po’ così, che la gente aveva interesse per queste canzoni. C’erano già registrazioni pirata dei nostri concerti, che poi la gente si scambiava roba di questo tipo. È un’esperienza che ricordo con affetto, perché comunque sono stati tempi non facili ma carichi di entusiasmo.

Senti, Luciano, la mia non vuole essere una provocazione, ma perché un rocker come Ligabue canta in italiano e non in inglese?
Perché vivo in Italia, scusami, la risposta è molto semplice. Dimmi tu che senso ha che uno canti in inglese volendosi esprimere nei confronti di gente che vive nel suo paese, questa domanda, secondo me, andrebbe fatta nei confronti di chi canta in inglese in Italia. Perché uno deve cantare in inglese nel mercato italiano?

Come sono i rapporti con i Rocking Chairs, visto che al tuo secondo disco ha collaborato il fisarmonicista Franco Borghi?
Io non li conosco tanto, conosco il loro lavoro. Ho conosciuto in un paio di occasioni il loro leader, Graziano Romani, come sempre motivato, con cui ho fatto due chiacchiere. Loro hanno avuto belle esperienze anche a livello di collaborazioni in America, si sono tolti diversi sfizi tra cui quella di fare una bella Stand By Me assieme a Willy De Ville quest’estate, ti lascio immaginare cosa vuol dire. L’incontro con Franco Borghi è stato del tutto occasionale. Non volevo affidarmi a musicisti professionisti perché mi piaceva l’idea di dare l’ennesima opportunità a gente che non è nel giro di Milano (professionalmente parlando) ma che cerca di farcela, e così lui ci ha dato la sua disponibilità.

Obiettivamente, che differenza intercorre tra il Ligabue del primo LP e quello del secondo?
Credo che ci sia una differenza a due livelli. Il primo a livello produttivo. Nel senso che nel primo disco ho usato pochi suoni, era abbastanza povero come produzione, anche se suonava. Invece, questa volta, con il fatto che avevo più esperienza, ho potuto gestire meglio la produzione. Ho potuto inserire degli umori musicali diversi, tipo violini, fisarmoniche, un coro alpino, armoniche a bocca che nel primo album non c’erano. Ho potuto lavorare sui suoni di chitarra in maniera diversa; ho potuto impostare anche la batteria in maniera diversa, quindi dal punto di vista della realizzazione mi sembra più ricco. Dal punto di vista dei contenuti, che è il secondo livello di cui parlavamo prima, quest’ultimo disco è più complesso. Nel senso che è un album meno accessibile, bisogna ascoltarlo più del primo.

Hai ancora qualche canzone nel cassetto?
Beh, sì.

I tuoi impegni futuri?
Fino al 31 marzo (1992, ndr) andiamo avanti con la tournée. In aprile mi occuperò della produzione di un gruppo italiano di rock che non ha ancora avuto la fortuna che si merita, sono i Rats. Con la produzione gli darò anche un pezzo mio.

L’ultimo disco che ti è piaciuto?
Beh, sto ascoltando Little Village che non mi dispiace, quello con Ry Cooder, John Hiatt e Nick Lowe, non è eccezionale ma lo sto ascoltando volentieri.

(Articolo coperto da copyright. Per informazioni, contattare l’editore di questo blog.)

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musica

Samamidon – All Is Well (2008)

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Sam Amidon è senza dubbio uno dei personaggi più interessanti e geniali che la scena indie folk abbia potuto partorire in questi ultimi anni. Originario del Vermont, Sam è figlio d’arte e si sente. All is Well, terza o meglio seconda fatica a nome Samamidon, è infatti un gioiellino di assoluta maestria attraverso il quale l’artista americano stringe al cuore – dopo svariate collaborazioni (Doveman e Stars Like Fleas su tutte) e due dischi come Solo Fiddle del 2000 e But This Chicken Proved False Hearted del 2007 – tutto il suo immenso amore per le tradizioni. Quello stesso sentimento che il padre e la madre di Sam non hanno mai smesso di perpetuare con il progetto The Amidons e che qui prende la forma di dieci splendide composizioni elettroacustiche tratte, appunto, dal folclore americano. Ne esce fuori una raccolta di memorie musicali piacevolmente orchestrata che, grazie a degli arrangiamenti impeccabili e a dei brevi rimandi sperimentali (Little Johnny Brown e Fall on my knees), non perde mai quel piglio di scrupolosa modernità. Quelli del nostro giovane folk singer sono dei brani suonati e cantanti meravigliosamente, con passione ed estrema dolcezza; tracce che non fanno mai rumore e che trovano nella emozionante Saro il passaggio più alto e vibrante di un lavoro folk, magico e decisamente attuale. Alla maniera di un Bonnie Prince Billy meno algido e alienato o di un Jason Molina più etereo e pop, Sam Amidon realizza un album di canzoni tradizionali americane che sono capaci di racchiudere, in un solo istante, il tepore di M. Ward e quel tocco intimista alla Nick Drake. Passaggi che fanno di All is Well uno degli album più allettanti di questo avvio di stagione.[1] Soprattutto per chi nella musica cerca certe intensità. (Luca D’Ambrosio)

ps.
Mixato in Islanda dall’amico Valgeir Sigurðsson, il disco vede la partecipazione di Nico Muhly, Eyvind Kang, Ben Frost e del fratello Stefan Amidon.

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 52 del 29.02.2008



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