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Recensione: John Cale & Terry Riley – Church of Anthrax (1971)

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Sottoposto ad adeguato intervento di ristrutturazione digitale, viene finalmente ricommercializzato dalla Cherry Red Church of Anthrax, il disco che segna di fatto l’avvio della carriera compositiva post-Velvetiana per Mr. Cale, ingaggiato da John McClure per quella Masterworks che aveva già pubblicato due capolavori minimalisti di Terry Riley come A Rainbow in Curved Air. La volontà del manager di attirare l’attenzione verso la sua etichetta da parte del pubblico rock si concretizza con la proposta di contratto con John Cale per due album di cui questo avrebbe dovuto rappresentare il primo atto ma che, a causa dei capricci di Riley (che rigetterà il progetto fino al punto di richiederne il disconoscimento ufficiale già prima della pubblicazione in quanto insoddisfatto del missaggio finale che a sua opinione avrebbe fatto volutamente pendere l’ ago della bilancia esecutiva sull’ex muso lungo dei Velvet) finirà per venire pubblicato con enorme ritardo addirittura dopo la pubblicazione del secondo disco di Cale, Vintage Violence. Disco polimorfo, Church of Anthrax si risolve in fittissime improvvisazioni fusion (Ides of March, in cui sembra volteggiare sottoforma di piano honky-tonk, il fantasma dei Velvet), sinfonie spaziali per organi sovrapponibili (la lunghissima title track), tetre ballate folk (The soul of Patrick Lee, unico pezzo cantato del disco, con traccia vocale affidata a un giovane Adam Miller che sarebbe poi diventato autore per l’hit-maker David Cassidy), morbidissime e vaporose musiche da camera (The hall of mirrors in the palace of Versailles dentro la quale affiorano con anni di anticipo molti dei Tuxedomoon che verranno un decennio dopo), appannate diapositive di bolgie metropolitane (The Protégé) combinando elementi ed atmosfere dissimili e mettendo a frutto un disco dalle anime molteplici che non ha confronti con la pur poliedrica discografia di Cale. Un album che ancora oggi, a quarantacinque anni dalla sua ideazione, suona incredibilmente moderno, carico di un groove che pone le basi, forse a sua insaputa, per le derive acid jazz, per l’avanguardia new wave e per le nuove tribù della world-music pronte a cannibalizzare il mondo. (Franco Dimauro)



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