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Recensione: R.E.M. – Lifes Rich Pageant (1986)

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Lifes Rich Pageant è un disco che mi ha fatto cambiare il punto di vista sulla vita, sul mondo e sulla musica. È stato il vinile della mia personale svolta, diventando con il passare degli anni uno dei capisaldi inamovibili della mia educazione musicale e culturale. Un punto fermo del mio essere “alternativo”, così come sono alternative, e forse lo erano ancor di più quando uscirono, tutte le canzoni di questa meraviglia firmata da Berry, Buck, Mills e Stipe. Un lavoro che mette insieme il pop rock di Fall on Me, le inclinazioni punk and roll di Just a Touch, le strutture folk di Swan Swan H, l’attacco country di I Believe e persino gli smalti sixties di Superman (una reinterpretazione di un brano dei Clique che vede come lead vocal il bassista Mike Mills). Quelle della formazione americana sono canzoni che ti entrano subito nelle vene e che ti sconvolgono fin dal primo ascolto (These Days, Cuyahoga e Hyena su tutte), raggiungendo l’apice del piacere con la magnifica The Flowers of Guatemala. Prodotto da Don Gehman, Lifes Rich Pageant è il disco che, oltre a decretare l’impegno politico ed ecologista di Stipe e soci, inizierà a estendere i confini del sound dei R.E.M. che, nel giro di qualche anno, esattamente nel 1988 con Green, saranno scritturati dalla Warner Bros. Records; un passaggio, quello dalla I.R.S. alla multinazionale discografica, che non scalfirà di un solo millimetro la qualità, l’originalità e il carattere indipendente della band di Athens, Georgia. Un gruppo seminale del rock alternativo degli anni ’80 e ’90 che ha cambiato la mia visione del mondo proprio con questa quarta fatica in studio. Un album indispensabile, fondamentale, necessario, vitale, soprattutto ora che i R.E.M. si sono sciolti. (Luca D’Ambrosio)



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Recensione: Wilco – Yankee Hotel Foxtrot (2002)

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Yankee Hotel Foxtrot è il disco della svolta dei Wilco, ma anche il punto di rottura con i dirigenti della Warner/Reprise che, per una questione di budget limitato, decisero di licenziare la formazione di Chicago lasciandola senza contratto. L’album, che era già stato completato nel 2001, venne quindi messo in streaming sul sito della band americana, ma la condivisione gratuita durò ben poco perché, visto il passaparola del web, il disco ottenne le attenzioni della Nonesuch Records che decise di pubblicarlo il 23 aprile 2002 (etichetta che, manco a dirlo, qualche anno dopo entrò a far parte del gruppo Warner).

Il risultato fu decisamente sorprendente considerato che, a oggi, resta uno dei lavori più venduti del gruppo guidato dal chitarrista e cantante Jeff Tweedy. E riascoltandolo, per l’ennesima volta, non posso che biasimare quelle “teste pensanti” che, allora, ritennero questo disco un lavoro approssimativo e soprattutto poco vendibile. La prova lampante e tangibile che nella musica, così come in qualsiasi altra attività, c’è bisogno non solo di competenza ma anche di tantissima passione. Quella passione e quella sensibilità che non possono farti passare sopra a un capolavoro di simile intensità e bellezza, con canzoni come Ashes Of American Flags e Jesus, Etc. che toglierebbero il respiro anche al più algido e distratto degli ascoltatori.

Insomma, per dirla tutta, Yankee Hotel Foxtrot è l’album che ha decretato la popolarità dei Wilco, riuscendo a mettere d’accordo tutti i cultori del rock alternativo e indipendente. Giovani, meno giovani e vecchi. Uno dei dischi fondamentali degli anni zero. Anzi, della popular music. ([Luca D’Ambrosio)



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Bob Dylan – Blood On The Tracks (1975)

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Ero adolescente e Stefano, se non ricordo male, fece un piccolo sondaggio tra i compagni di scuola per sapere quale fosse la più bella canzone d’amore mai scritta. Prima di me toccò al buon Mauro che disse: «“In Ginocchio da te” di Gianni Morandi.» Poi venne il mio turno e, senza pensarci due volte, risposi: «”You’re a big girl now” di Bob Dylan.» È con questo flashback che mi sono svegliato questa mattina e, sinceramente, non saprei spiegarmi il motivo di questo pensiero mattutino; o forse c’è, in ogni caso non è mia intenzione stare a rovistare nel passato. Resta il fatto però che Blood on The Tracks è uno dei miei dischi preferiti del menestrello di Duluth e non solo per quella abbagliante poesia che prende il titolo di You’re a Big Girl Now, ma per ogni singolo brano di questo lavoro da cui stillano gocce di sangue e di passione. Un disco, il quindicesimo per l’esattezza, che vide la luce in uno dei maggiori momenti di difficoltà, sofferenza e riflessione di Dylan in rotta di collisione con la moglie Sara Lownds, che già in passato aveva ispirato l’artista americano, e da cui nascono brani del calibro di Tangled Up In Blue e Idiot Wind che mescolano dolore, ardore e dolcezza. Un album folk rock ben arrangiato e dai suoni levigati che pur perdendo, almeno in parte, l’istintività di capolavori come The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on Blonde (1966) – solo per citarne alcuni dei trentacinque dischi realizzati finora in cinquant’anni di carriera – non perde un grammo di profondità e trasporto. E nonostante siano passati molti anni da quel sondaggio fatto a scuola, quella canzone resta sempre una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte. Con la speranza, ovviamente, che il mio amico Mauro nel frattempo abbia cambiato idea. Io, intanto, ascolterò nuovamente Blood on The Tracks cercando di capire il motivo di questa singolare reminiscenza. E allora via con la prima traccia: “Early one mornin’ the sun was shinin’ / I was layin’ in bed…” (Luca D’Ambrosio)



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Cat Power – Sun (2012)

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Di Chan Marshall, alias Cat Power, oramai sappiamo tutto. Sia delle sue debolezze psicologiche che delle sue indiscutibili capacità artistiche che, anno dopo anno, a partire da Dear Sir del 1995 ha saputo esprimere splendidamente attraverso una miscela di canzoni oscure e rumorose ma dalle profondità folk e blues. Talento che la cantautrice originaria dello stato americano della Georgia ha poi confermato con il successivo Myra Lee e What Would the Community Think del 1996, fino ad arrivare alla sua opera d’inizio carriera più rappresentativa intitolata Moon Pix del 1998 che rivelava dei toni più riflessivi e caldi rispetto a quell’urgenza dolorosamente ribelle dei dischi precedenti. Ma sono You Are Free del 2003 e The Greatest del 2006 a consacrare l’artista americana sull’olimpo della musica indie rock internazionale. Due lavori che, in maniera diversa e senza mai perdere di tensione emotiva, segnano ancora una volta un punto di rottura con il recente passato. Un cambiamento insito nell’anima della bella e affascinante Charlyn Marie Marshall (così all’anagrafe) che a distanza di sei anni si ripete con Sun: un disco sicuramente dall’ascolto più facile, per via degli arrangiamenti edulcorati e ricoperti di battiti elettronici, ma non per questo inferiore agli altri. Anzi, quest’ultima fatica – prendendo spunto dal titolo e dalla copertina dell’album – mostra tutti i colori dell’arcobaleno con canzoni dalla scrittura impeccabile in grado di unire il passato tempestoso con l’ottimismo per il futuro. Basta ascoltare le prime tre tracce di Sun (Cherokee, Sun e Ruin) per capire immediatamente la natura e la bellezza di questo nuovo episodio firmato da Cat Power, una delle più grandi cantautrici contemporanee sempre in bilico tra forza e fragilità, come, del resto, le sue composizioni. (Luca D’Ambrosio)


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The Underground Youth – Delirium (2011)

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Ho un archivio musicale spaventoso e, sinceramente, pur pensando di vivere un centinaio di anni in più non sarei mai in grado di ascoltarlo tutto. Ecco, quindi, che mi tocca spulciarlo qua e là, in modalità più o meno random, per tentare di recuperare qualcosa di buono che a partire già dal primo click valga la pena di ascoltare attentamente, ma soprattutto che valga la pena di recuperare su CD o, meglio ancora, su vinile. Pertanto, armato di passione ma anche di buona pazienza, questa mattina, mentre cercavo di iniziare a stilare la consueta classifica di fine anno, sono incappato in un disco sconosciuto al sottoscritto ma decisamente coinvolgente, specialmente per chi ama perdersi in quelle sonorità tanto psichedeliche e folk quanto garage e new wave. Sì, perché questi sono i riferimenti degli Underground Youth, formazione con base in Inghilterra e con all’attivo già alcuni lavori, l’ultimo dei quali questo ipnotizzante Delirium del 2011 che ci consegna nove canzoni melodiche seppure dalle sonorità oscure e indolenti. Un disco che, manco a dirlo, parte dai Velvet Underground e s’inoltra in quelle atmosfere tipiche dei Joy Division, dei Jesus and The Mary Chain ma anche dei Mazzy Star, degli Echo & the Bunnymen, degli Slowdive e via discorrendo. Strangle Up My Mind, Silhouette e What She Does To Me sono soltanto alcuni dei brani di quel sound inconfondibile al quale alludo e che sono qui a magnificare con quest’ultima scoperta firmata Underground Youth. Interessante formazione indie rock del Regno Unito che con Dystopia (arrangiata solo con voce, chitarra acustica e armonica a bocca) riesce addirittura a strizzare l’occhio al grande Bob Dylan. Insomma, per ora un bel “mi piace” a Delirium ma, se l’eccitazione dovesse continuare a ripetersi nei prossimi ascolti, sicuramente lo vedrete anche nella mia top ten del 2011. (Luca D’Ambrosio)

Discografia
Low Slow Needle EP – 2011
Delirium LP – 2011
Sadovaya LP – 2010
Mademoiselle LP – 2010
Voltage LP – 2009
Morally Barren LP – 2009

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The War On Drugs – Slave Ambient (2011)

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L’ultima fatica dei War on Drugs è qualcosa di estremamente emozionante, soprattutto per chi, nonostante sia cresciuto a suon di Springsteen, Dylan e Petty, non ha mai perso il piacere della scoperta. Ecco quindi che Slave Ambient si rivela il disco giusto nel momento giusto. Il classico album che ti fa fare un salto indietro nella memoria ma anche un salto avanti nel futuro. Adam Granduciel e soci questa volta ci riescono alla grande, mettendo su un lavoro che unisce abilmente il rock mainstream, quello fatto di belle melodie e sentimenti, con quello underground e alternativo di cui ormai non possiamo più fare a meno. Dodici belle canzoni che travolgono, commuovono e riempiono il cuore di suggestioni e di turbamenti e che ci lasciano con il fiato sospeso. Da Best Nights alla conclusiva Blackwater quelli realizzati dai War on Drugs sono brani di una bellezza cristallina che uniscono folk, pop, rock e porzioni ben spalmate di beat e psichedelia. Perle assolute di cantautorato moderno e visioni nostalgiche (Brothers, I Was There e It’s Your Destiny), ma anche passaggi sperimentali come, per esempio, The Animator, Come For It, Original Slave e City Reprise che, più di ogni altra, sembrano drogarsi di atmosfere shoegaze e disturbi noise. Splendide anche Come to the City e Baby Missiles che confermano la qualità di questo nuovo lavoro della formazione americana (Philadelphia, Pennsylvania) che, ascolto dopo ascolto, dà sempre più l’impressione di unire certe cose di Bruce Springsteen, Bob Dylan e Tom Petty con quelle di band quali Ride, Slowdive e My Bloody Valentine. Il risultato è strepitoso e, parafrasando Jon Landau, possiamo tranquillamente affermare che “abbiamo visto il futuro dell’indie rock e il suo nome è The War On Drugs”. Uno dei miei 10 dischi del 2011. (Luca D’Ambrosio)

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I miei dischi preferiti del 2011 (10+10+5)

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Ecco i miei dischi preferiti del 2011.

I primi dieci

Bon IverS.T.
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The War On DrugsSlave Ambient
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WilcoThe Whole Love
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Gruff RhysHotel Shampoo
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J MascisSeveral Shades of Why
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PJ HarveyLet England Shake
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William FitzsimmonsGold In The Shadow
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The Sand BandAll Through The Night
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The Underground YouthDelirium
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Sound Of RumBalance
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I secondi dieci

Josh T. PearsonLast of the Country Gentlemen
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David LoweryThe Palace Guards
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The WalkaboutsTravels In The Dustland
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The DonkeysBorn With Stripes
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The VaccinesWhat Did You Expect From The Vaccines?
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The Felice BrothersCelebration, Florida
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Marianne FaithfullHorses And High Heels
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Chad VanGaalenDiaper Island
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FinkPerfect Darkness
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Comet GainHowl Of The Lonely Crowd
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5 for extra time

Washed OutWithin And Without
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Work DrugsAurora Lies
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Sea PinksDead Seas

Middle BrotherS.T.
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2562Fever
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La mia intervista a Paul Heaton degli Housemartins

Per restare in termini calcistici, quella realizzata dagli Housemartins fu una doppietta bruciante che mandò in visibilio il pubblico e la critica degli anni ’80.

Erano gli anni di Margaret Hilda Thatcher e di “The Power Of Love”, e Paul Heaton decise di dare uno scossone al Sistema mettendo su una delle formazioni più piacevolmente rivoltose della scena pop/rock inglese di quel periodo.

Prima con London 0 Hull 4 (1986) e poi con The People Who Grinned Themselves to Death (1987), gli Housemartins riuscirono, nel giro di appena tre anni, a realizzare una miscela tanto intima quanto esplosiva di musica e ideali. Parlarono infatti di Dio, di politica e di società in maniera ironica e allo stesso tempo profonda e commovente, senza però mai cadere nella banalità. Insomma: un “uno-due” che lasciò senza fiato moltissimi di noi.

Venne poi il 1988, l’anno del premeditato scioglimento, e la formazione di Kingston upon Hull (Inghliterra) chiuse definitivamente con quell’esperienza, lasciando un piccolo vuoto nei nostri cuori.

Un vuoto che, a distanza di tanti anni, abbiamo cercato di colmare attraverso questa intervista a Paul David Heaton che, con la solita acutezza, ci ha raccontato qualcosa di quell’epoca, degli Housemartins e anche di oggi.

Intervista a Paul David Heaton degli Housemartins di Luca D’Ambrosio

Intervista a Paul Heaton degli Housemartins
Erano gli anni di “The Power Of Love” e della Thatcher, la “Lady di Ferro”. Proprio in quel periodo a Hull, in Inghilterra, nacque la vostra band: chi erano gli Housemartins e perché quel nome?
Eravamo un gruppo di agitatori comunisti. Il nome è stato preso da Peter Tinniswood (autore preferito di Paul Heaton, ndr) che tendeva a usare la migrazione di questo uccello (il balestruccio, ndr) per segnare i passaggi delle stagioni.

Prima degli Housemartins cosa facevi e da che tipo di famiglia venivi?
Ho lasciato la scuola senza qualifiche e sono andato dritto a lavorare come impiegato in un ufficio. La storia della mia famiglia ruotava intorno al mio papà, Horace. Lui ha fatto bene per se stesso ma ha rifiutato di tutelare i propri interessi. Questo significa che, anche se abbiamo avuto i soldi, li abbiamo spesi tutti per la casa, le vacanze e il calcio e nulla è stato fatto per l’istruzione, la salute e il guadagno finanziario.

Com’era la vita in Inghilterra negli anni ’80, soprattutto in periferia?
Felice e piena di musica, ma ho vissuto in città a partire dal 1983.

Qual era la vostra visione del mondo? La stessa di oggi?
L’Internazionale Socialista avrà sempre più senso e funzionerà meglio del capitalismo. Ora si sta scoprendo tutto questo in Italia!

Che genere di musica ascoltavi in quel periodo?
Gospel, New Wave, Hip Hop, Detroit House, English Pop, Reggae, Blues, Country, Soul. Tutto tranne Heavy Metal!

Ora, invece, cosa ascolti?
Più di quanto abbia detto prima. Aggiungici la Musica Classica, un po’ di World Music e il Rockabilly.

Chi scoprì gli Housemartins e chi offrì loro un contratto? Ci puoi dire brevemente come accadde?
Un uomo di nome Bruce Craigie venne a vederci in un posto chiamato Hope and Anchor a Londra. A quei tempi lui lavorava alla Chrysalis Records, ma chiamò Andy MacDonald della “Go! Discs” pensando che la sua etichetta sarebbe stata più adatta.

Quali furono le tue emozioni?
Mi fece piacere, ma non come quando ottenemmo il nostro primo passaggio nel programma radiofonico di John Peel!

Ti sentivi parte del sistema o una voce fuori dal coro?
Una voce solitaria nel sistema. Ecco come mi sentivo.

Cosa significò per voi “Flag Day”?
La possibilità di mettere un po’ di odio nella schifosa borsa reale.

Mentre ora?
La stessa cosa. Ogni sillaba di quella canzone ci ha dato ragione. La carità è per quella parte della comunità che si sente in colpa per le tasse.

“London 0 Hull 4”, il vostro debutto, cosa significava per gli Housemartins?
Significava fottiti, da nord a sud.

Quindi, cos’era per te quel disco?
La possibilità di dire la mia.

Ti piace ancora giocare a calcio? La passione è la stessa che si percepisce guardando quel simpatico videoclip trovato in rete con sottofondo “We’re Not Deep”?
Ho giocato a calcio per tutta la mia vita dai 4 anni ai 40 anni. Ora sono “allenatore” (parola detta in italiano, ndr).

Com’è cambiato il calcio e com’è cambiata l’Inghilterra?
L’Inghilterra è cambiata nello stesso modo in cui è cambiato il calcio. Se la gente inglese potesse sentire le stesse negatività che sente per Carlos Tevez (attuale attaccante del Manchester City, ndr) e trasferirle ai politici e ai banchieri noi potremmo assistere a una grande rivoluzione in questo paese.

Cosa ti manca e cosa non ti manca del passato?
Non mi manca nulla, a parte le patatine e John Peel.

Invece, cosa ti piace e cosa non ti piace di questo periodo?
Guarderemo a questo periodo come “L’età dell’idiota”. Ci si può sentire rispettati solo perché hai una grande macchina, una “bocca grande” e un paio di pantaloni costosi?

Poi venne “The People Who Grinned Themselves To Death”, un album vivace ma con dei testi più profondi, ironici e romantici del precedente. Mi dici qualcosa su questo secondo e ultimo lavoro in studio?
I testi sono un po’ più complessi così come il tema delle canzoni. Questo secondo album ha più senso dell’umorismo rispetto al primo. Il titolo si basa sulla canzone, che è antimonarchica. Ho sentito che il mondo stava per cambiare.

“Build” è la mia preferita di quel disco. Bello anche il videoclip. Una canzone di “romantica protesta”. La domanda è sempre la stessa: può la musica cambiare, in meglio, il mondo?
La musica può cambiare gli individui, ma non un governo. Il mondo non è altro che una serie di individui malavitosi che affidano ad altri il pacifismo individuale.

Qual è la tua canzone preferita degli Housemartins?
“The Light is Always Green” (vedi il videoclip a fine intervista, ndr). È più vera oggi di allora.

Cosa successe dopo “The People Who grinned Themselves To Death”?
Ci siamo separati.

Ti va di dirmi qualcosa di piacevole o non piacevole circa il vostro scioglimento?
Non c’è niente di bello o di brutto circa lo scioglimento degli Housemartins. Io e Stan Cullimore decidemmo che non appena avremmo raggiunto il 1987 ci saremmo fermati. E così facemmo.

Senza gli Housemartins come ti sei sentito?
Mi sono sentito benissimo. È stato pre-organizzato. Nel 1985 e nel 1986 sapevamo che il 1987 sarebbe stato l’anno dello scioglimento. Fu sorprendente il fatto che avemmo il coraggio di farlo.

Cosa pensi adesso di quell’esperienza?
Penso che sia stata un’esperienza divertente e che abbia portato il sorriso sul volto di molti.

Avete mai pensato di tornare insieme e di riformare gli Housemartins?
Tu hai pensato a questo? No (a voler essere sinceri, un po’ sì, ndr). Io non torno mai indietro. Tu sei solito chiamare la tua ex ragazza per chiederle di uscire di nuovo con te? (Beh, sicuramente ha ragione, ndr) Io sono felice nella mia attuale relazione musicale.

Cosa succede ora in Inghilterra?
Spero che noi siamo arrivati al punto di rottura del governo e dell’illegalità, così presto arriverà la fine dell’Età dell’Idiota.

Adesso, invece, cosa fai nella tua vita privata?
Spendo la mia vita privata con le mie tre figlie. Mi piace fare musica da solo e viaggiare.

Dio salvi la regina?
Al diavolo la regina, la sua cazzo di famiglia e soprattutto tutti quei babbei che le danno sostegno.

Grazie per la disponibilità.
Di niente!

(Foto: thehousemartins.com)

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Hugo Race – Varsavia, 12.05.2011 (CDQ)

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Il tour polacco di Hugo Race tocca quattro città: Zielona Góra, Poznań, Varsavia e Cracovia. Noi, ovviamente, lo aspettiamo al varco presso il CDQ di Varsavia, locale piccolino e non proprio centrale ma abbastanza confortevole. Nell’attesa, come al solito, sorseggiamo dell’ottima birra polacca, complice, tra l’altro, una temperatura davvero mite. Fortunatamente nessun gruppo spalla in apertura, ma solamente musica di sottofondo e chiacchiere all’aperto intervallate da gelidi sorsi di birra. Serata ideale, insomma, e come per incanto Varsavia sembra scrollarsi di dosso il peso dell’inverno e il ritmo affannoso del giorno. Tuttavia il tempo vola, ci accorgiamo infatti che sono da poco passate le nove. Facciamo quindi un balzo dalle comode seggiole e, in meno di un minuto, siamo già all’interno dell’angusto Centralny Dom Qultury che ospita, per l’occasione, un centinaio di persone (numero oltre il quale si rischierebbe il soffocamento). Una breve attesa ed ecco che salgono sul palco Diego Sapignoli (batteria), Antonio Gramentieri (chitarre) e, naturalmente, il cantante e chitarrista di Melbourne, Hugo Race. Il pubblico li accoglie calorosamente, applaudendo e incitandoli già con l’iniziale In The Pines, brano estratto dal bellissimo Fatalists del 2010. Si intuisce immediatamente che la band, in versione power trio, è in splendida forma. Race, poi, è particolarmente ispirato e, nonostante il suo atteggiamento visionario e apparentemente schivo, presenta gran parte delle canzoni della serata. Pezzi di un lirismo unico che si susseguono in un vortice di sonorità ora elettriche e taglienti, ora acustiche e vellutate. Da Slow Fry a Sorcery, passando per Sun City Casino dei Dirtmusic e Too Many Zeroes, tutto è straordinariamente coinvolgente e in perfetto equilibrio. Un succedersi di ritmiche infuocate ma anche di atmosfere ipnotiche che prendono il nome di The Serpent Egg, Nightvision, Coming Over e Will You Wake Up dove la voce dell’ex Bad Seeds è così profonda e intima da rasentare la perfezione, merito, probabilmente, della complicità di due musicisti bravi, appassionati e puntuali come, appunto, Sapignoli e Gramentieri. In definitiva, due ore circa di concerto all’insegna della musica rock, quella fatta di sangue, di sudore e di visioni e che all’occorrenza sa essere anche oscura, malinconica e commovente come Call Her Name che chiude alla grande questa piacevole e insolita notte varsaviese.

ML – UPDATE N. 78 (2011-06-02)

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Maurizio Blatto – L’ultimo disco dei Mohicani (2010)

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L’ultimo disco dei Mohicani è uno di quei libri che va letto non tanto per scoprire un microcosmo stravagante e sconosciuto a molti, quale quello degli appassionati di musica rock, quanto invece per capire a quale categoria di maniaci musicali si appartiene. Una sorta di autopsicoanalisi comparativa che, in parole povere, significa: a chi assomiglio? Al piastrellista in fissa per il funky e le donne di colore o al diabolico e perverso Paragonio che ha “il vizio di accostare qualsiasi artista (che ti piace) a uno (che detesti) lontano anni luce per sensibilità e caratteristiche”? All’audiofilo hardcore o a Mimmo Regghe? A Tony Locomotiva o a Renatino Punk? Ad Autolavaggio o ai gemelli Diufaus? O vi sentite proprio come Maurizio Blatto che passa intere giornate dietro il bancone ad ascoltare i racconti più disparati e bizzarri dei clienti? Insomma, di storie e di personaggi con cui confrontarsi non ne mancano. Perché Backdoor, storico negozio di dischi di Torino, è un piccolo universo fatto di veri e propri cultori musicali, più o meno folli, ma anche di improvvisati frequentatori che, varcando la porta d’ingresso, sono capaci di porre le domande più assurde di questo mondo, del tipo: “Ma Che Guevara ha fatto più niente?” oppure “Morricone era uno dei Camaleonti?” Quesiti a cui è difficile rispondere ma che ogni tanto trovano una risposta immediata e consona all’esigenza da parte di uno zelante venditore (Maurizio Blatto) che, oltre a essere armato di una santa pazienza, si rivela un attento studioso del genere umano; caratteristiche pressoché sconosciute dall’altra metà della ditta, ovvero l’austero Sig. Franco, abile contabile nonché fondatore dello storico negozio cittadino. In fondo per capire quale sarebbe stato il destino del giovane Blatto basta iniziare a leggere il primo capitolo: “Ero partito più o meno con lo stesso obiettivo: garantire assistenza. Legale, immaginavo, vista la mia laurea in Giurisprudenza. Poi le cose sono andate diversamente e, quando, con la velocità del fulmine, mi sono calato dalla finestra di uno studio specializzato in diritto del lavoro sedotto dai feedback dei Velvet Underground e impaurito dai misteri dell’usucapione, davvero non immaginavo che sarebbe diventata di carattere sanitario. Igiene mentale. Sempre l’assistenza, si intende.” Ecco quindi vedersi trasformare una laurea in legge in una laurea in psicologia e “Il bancone in un lettino psichiatrico” rendendo “Il negozio di dischi come l’Azienda Sanitaria Locale”. Narrazioni e scene estremamente esilaranti ma che, in aggiunta, sanno essere anche commoventi, almeno per chi ancora adesso si ritrova con gli occhi lucidi dopo aver ascoltato un disco o una canzone. Suggestioni, queste ultime, tipiche di uno stato mentale da paziente inguaribile in cui lo stesso Maurizio Blatto a volte sembra ritrovarcisi, se non altro per quella scelta fatta tanti anni fa che lo ha portato a condividere gioie, dolori e inquietudini dei suoi clienti. “Sono un equalizzatore più sociale che Pioneer, una sorta di terapeuta omeopatico. Curo con l’intera discografia dei Pavement (o dei Fall, se serve una punta di elettroshock)”, potrebbe riassumersi così il leitmotiv di tutti quelli che hanno deciso di lavorare in un negozio di dischi. Un lavoro dalle forti connotazioni sociali e culturali descritto magistralmente e con sferzante ironia da L’ultimo disco dei Mohicani. Un’opera prima davvero encomiabile attraverso la quale il quarantaquattrenne scrittore piemontese ha saputo riprodurre fedelmente i suoni, gli umori e gli odori quotidiani di un’amabile comunità di “psicopatici”. Poiché, come recita il sottotitolo, questo libro rivela “Tutto quello che esiste ma che non potete credere che esista nel mondo della musica rock e dei suoi seguaci (più o meno) appassionati”, e noi che l’abbiamo mandato giù quasi tutto di un fiato non possiamo che auspicarne l’acquisto. Soprattutto se siete di quelli che quando entrano in un negozio di cd e di vinili avvertite un improvviso senso di pace e di relax.

ML – UPDATE N. 75 (2011-02-07)