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(Ri)visti in TV: Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock (1954)

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Tony Wendice, ex campione inglese di tennis, è un piccolo commerciante di articoli sportivi, che vive alle spalle della ricca moglie Margot a sua volta amante del giallista americano Mark Hallyday. La paura d’un possibile divorzio che sancirebbe la fine del suo status di mantenuto di lusso lo induce alla preparazione di un efferato progetto: ucciderla per poter ereditare in tempo il suo denaro. Al fine di distogliere dalla sua persona qualsiasi sospetto, utilizzando ricatti e promesse, affida l’incarico ad un suo vecchio compagno di classe, Swann Lesgate, un balordo che vive d’espedienti (si fa mantenere da anziane signore) e che si è già reso colpevole di altri reati (furti, in particolare). Tony ha elaborato il piano in maniera diabolicamente minuziosa: dovrà sembrare un omicidio eseguito durante il tentativo di un furto. Ha nascosto la chiave dell’appartamento in cui vive con la moglie sotto lo stuoino affinchè Swann possa entrare indisturbato e nascondersi: quando telefonerà (è questo il segnale concordato), il complice uscirà dalla tenda e la strangolerà. Il meccanismo di quello che appare un delitto perfetto, però, s’inceppa. Quando il telefono squilla e Swann Lesgate fuoriesce dalla tende per aggredire alle spalle la donna, nasce una furibonda collutazione in cui Margot riesce non solo a sottrarsi dalla presa dell’uomo ma riesce a sua volta a colpirlo e ucciderlo pugnalandolo con un paio di forbici. Tony, rimasto al telefono e compreso quanto accaduto, non s’arrende all’idea che il suo progetto possa naufragare sotto il peso di questo imprevisto e, raggiunta velocemente la propria abitazione, cerca di sfruttare a proprio vantaggio la morte del complice: infila nella tasca dell’uomo una lettera d’amore che Margot aveva indirizzato a Mark in modo che questa possa essere considerata come prova di un possibile ricatto perpetrato nei confronti della moglie. In tribunale risulterà, infatti, che la donna abbia ucciso Lesgate per affrancarsi dalle sue richieste estorsive (saranno rinvenute nel frattempo delle lettere, scritte dallo stesso Tony, in cui Margot veniva minacciata e riceveva richieste di denaro). La donna sarà condannata a morte ma uno scrittore di gialli non può non capire l’ordito di Tony: con uno stratagemma e con il fondamentale supporto dell’ispettore Hubbard l’inganno, infatti, sarà svelato e la colpevolezza del marito sarà dimostrata. Ispirato al testo teatrale di Frederick Knott, “Il delitto perfetto” (Dial M for murder) viene girato da Alfred Hitchcock nel 1954 in appena 36 giorni per rispettare un contratto con la Warner Bros che distribuirà il film. Diciannovesima opera del periodo hollywoodiano (il debutto in terra americana risale al 1940 con “Rebecca, la prima moglie”), sebbene poco amata dal suo autore (probabilmente perchè il testo, ben collaudato presso il pubblico, non richiedeva che pochi interventi sulla trama), risulta essere, invece, un congegno filmico perfettamente costruito in cui il regista britannico riesce ad articolare la tensione mediante la sapiente successione degli eventi incardinati in maniera ferrea nello sviluppo della storia. Anche “Dial M for murder”, quindi, può essere inserito a buon titolo in quel particolare genere filmico inventato del tutto da Hitchcock: la “suspence story”. Il meccanismo dell’opera, infatti, si differenzia da quello del giallo canonico (il whodunit, cioè, il “chi è stato?”) dal momento che non v’è da svelare (allo spettatore) nulla che non (gli) sia già chiaro perchè mostrato(gli) in tutta la sua evidenza. Ad assumere rilievo, invece, è la tensione – vera protagonista del film – che viene generata da ogni singola inquadratura e che deve avvincere e turbare un pubblico obbediente, come affermava il regista in palese ossimoro, soltanto alla logica delle emozioni (le uniche) che permettono quel processo identificativo alla base del successo di un’opera. Tutti gli espedienti tecnici, pertanto, contribuiscono alla creazione di questa situazione di angosciante ansietà, di strisciante inquietudine: padrone assoluto delle risorse cinematografiche, Hitchcock, meticoloso seguace (e fautore) dell’espressionismo tedesco, addensa l’azione (prevalentemente) in un solo ambiente – la casa della coppia – e accentua le caratteristiche del procedimento stereoscopico 3-D, girando ora con la camera bassa (quando Margot con la gola stretta in una calza di seta si protende in avanti per cercare un’arma) e in altri casi “attaccandosi”, invece, con la MDP ai protagonisti. La cinepresa (i cui movimenti da questo film in poi, e ancor di più con i capolavori successivi, avranno il compito di guidare invisibili lo svolgimento stesso del racconto) e la stereoscopia, soprattutto, svolgono, però, una funzione anti-spettacolare in favore di un coinvolgimento nella scena che è amplificato dall’impianto teatrale di una sorta di “kammerspiel” criminale in cui i protagonisti si agitano claustrofobicamente compressi (la scena è disseminata, infatti, di elementi – lampade e bottiglie – che cercano di dare respiro e profondità di campo alle inquadrature). Per questo motivo in “Dial M for murder” Hitchcock mette da parte il montaggio corto e frenetico, da sempre suo marchio di fabbrica, raggelando l’azione con un montaggio narrativo non molto invasivo, e sposa l’unità di luoogo, non rinuciando, comunque, a tutti quegli elementi ricorrenti nelle sue opere: l’uso simbolico dei colori (i vestiti di Margot/Grace Kelly perdono brillantezza cromatica diventando progressivamente sempre più cupi); la scena-madre in cui acquistano rilevanza gli oggetti d’uso comune (il telefono dove un dito compone il numero per chiamare Margot); i cameo personali ossia la tradizione di comparire per un attimo sullo schermo che, lungi dall’essere solo un piccolo rituale scaramantico, ha la valenza di annullare la dicotomia finzione-realtà introducendo nella realtà del quotidiano le paure rappresentante nella finzione dello schermo; terminare il film nello stesso luogo in cui era iniziato. In maniera del tutto evidente a Hitchcock importa molto poco del tentativo con cui Tony, per interposta persona, ha cercato di uccidere Margot ma al contrario gli interessano molto di più le peripezie e i simboli morali concernenti ciò che questa storia rappresenta: la lotta interiore tra il bene e il male e i suoi motivi tipici ossia l’innocenza perseguitata e l’uomo comune catapultato a sua insaputa in un indecifrabile intrigo. Margot che le circostanze fanno apparire colpevole di un delitto che non ha commesso è una marionetta manovrata e danneggiata dalla cattiveria e dall’avidità di qualcuno che invece dovrebbe amarla e proteggerla. Tony, subdolo calcolatore e cinico manipolatore, nonostante l’intrigo ordito sarà scoperto e identificato come vero responsabile. L’universo di Hitchcock è dominato, dunque, dal relativismo e dalla doppiezza: ogni atto può determinare eventi incontrollabili e in ogni essere umano si può nascondere la ferocia criminale. E se nei meccanismi narrativi dei suoi film (come nella vita) emerge lo stridente contrapposizione fra l’assurdo (l’insensata successione delle vicende) e la volontà di determinare, comunque in maniera impossibile, la propria esistenza, l’infelicità non potrà che essere l’unica vera costante degli esseri umani. A dispetto, quindi, di coloro che hanno considerato Hitchcock un astuto entertainer, un falsificatore delle emozioni più ancestrali, un regista di film semplicemente “commerciali” (come se questa definizione potesse mai inficiare lo status di un autore), le sue opere sono una complessa riflessione sulla vita stessa che, vittima del caso (caos?!) statistico, sia a livello sociale che individuale appare incomprensibile e insensata: un “locus commissi delicti”. (Nicola Pice)



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