Recensione: Tuxedomoon – The Vinyl Box (2015)

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Pesa in tutto un chilo e novecento grammi: è il box pubblicato nel 13 novembre 2015 più buio della recente storia europea dalla Crammed per commemorare i 38 anni di carriera del loro gruppo-chiave. Dentro, impilati uno sull’altro, ci sono i nove dischi più rappresentativi della discografia dei Tuxedomoon (unici assenti Divine e il più recente Pink Narcissus oltre al materiale pregiatissimo disseminato nei vari EP e singoli) più un intero disco di inediti assemblato partendo dalla lontanissima e irriconoscibile cover di Marvin Gaye del 1977 antecedente al loro piccolo disco autoprodotto che venne fuori l’anno successivo rivelando a pochissimi eletti l’arte solenne e decadente di una delle formazioni più originali, temerarie ed audaci di tutta la musica contemporanea.

Immaginate la sala da ballo de Il Gattopardo popolata degli scheletri della Danse Macabre. In un angolo del salone un’orchestra che suona note intagliate nel ghiaccio, sputando aria gelida sui brandelli di macramè, sui divani broccati, sulle radiche di noce, sugli specchi e sui lampadari di ambra e cristallo. Sembrano venire da un altro pianeta. O forse da un po’ più vicino, dalla Luna. Fanno musica da camera pensando a quelle del Castello di Elisabetta Bàthory, su a Cachtice. Nei salotti perbene dell’Old Europa, all’epoca, non li conosce ancora nessuno anche se il gruppo (che in realtà viene da San Francisco, e non dai crateri lunari) ha più di un riferimento con certa musica elettronica europea di stampo krauto. E difatti lì finiranno, dopo pochissimi mesi. Prima a Rotterdam, quindi a Bruxelles. A musicare balletti, pièce teatrali, set d’avanguardia, mostre d’arte e altri dischi. Tutti assieme, divisi, in duo, in trio. Molti belli, qualcuno brutto. Altri inutili. Ma sono i primi anni, come accade quasi sempre, quelli per cui vale la pena spendere tutto, anche gli euro, tanti, richiesti per questa occasione. Piccoli capolavori sospesi tra decadentismo, avanguardia, jazz ed elettronica. Half-Mute è la prima compiuta sintesi espressionista tra gli studi di musica elettronica che Blaine L. Reininger e Steven Brown stanno seguendo con profitto al City Collage di San Francisco e le avanguardie free jazz e la pre-wave di Brian Eno, Roxy Music, John Cale, Kraftwerk e David Bowie con cui ammazzano i loro pomeriggi mentre i loro coetanei scendono in strada a sventrare carcasse di auto e pisciare dalla ringhiera del Golden Gate Bridge. Un disco che oggi soffre il peso degli anni ma che all’epoca, all’alba degli anni Ottanta e dopo le brucianti escoriazioni del punk, suonava come un delirante, illogico assalto alla musica contemporanea. Half-Mute rappresentava allora un nuovo modo di essere ostili, utilizzando a proprio favore gli elementi della musica colta e cameristica ma ricontestualizzandola dentro le cornici inox delle nuove avanguardie giovanili. Con distacco, freddezza e imperturbabile cinismo. Una rappresentazione moderna, una Biennale di arredamento musicale. Half-Mute è, oggi come allora, un disco che non scalda. Half-Mute è una tormenta di neve sintetica, come quella delle riprese del Dottor Zivago.

Agghiaccianti canzoni come 59 to 1, Loneliness o 7 Years sembrano suonate da un reparto della Schutzstaffeln. Senza l’ombra di un sorriso, senza nessuna concessione al gioco. Il preludio alle ambientazioni meno raccapriccianti del secondo disco sono raffigurate dalla tromba che si stende sopra il basso sferico di Fifth Column, il pop meccanico di What Use?, il violino che batte le ali come una falena dentro Volo Vivace, e il convulsivo cigolio meccanico di KM/Seeding the Clouds. La band porta il disco sui palchi del Vecchio Continente mostrandosi permeabili alle drammatizzazioni del ballo contemporaneo e del teatro di avanguardia con cui vengono in contatto e a cui rubano nuovi elementi che elaboreranno nel secondo, fenomenale album.

La musica che abita Desire dell’anno successivo è una musica da ballo che annienta il movimento, che ti strangola. Ma lo fa con l’eleganza di un elastico da papillon. Ha queste curve discendenti come quelle di East e Again che debbono suonare un po’ come il rumore dell’acqua dentro le orecchie di chi sta decidendo di affogare dentro il Danubio blu. C’è quest’aria di frac sporcati di tamarindo e succo di pera che si muovono dentro il vortice del valzer annoiato di Jinx. Ci sono i loro cadaveri che gemono su Victims of the Dance. C’è il retrobottega da emporio cinese di Music #1. C’è la musica algida da Spazio 1999 di Incubus e In the Name of the Talent. C’è il siparietto da film muto di Holiday for Plywood. E c’è l’elettronica nera della title track, fitta come la pioggia dell’ultimo fotogramma di Blade Runner. Piove, dentro la musica dei Tuxedomoon, come sugli zigomi di Roy Batty. E i nostri cuori ne raccolgono. Come grondaie sotto cieli di piombo. E di silicio.

Holy Wars, l’album che esce dopo due EP straordinari come Time to Lose e Suite En Sous-Sol, lascia tiepida gran parte della critica. In effetti, viste le premesse inaugurali, Holy Wars delude per la sua compostezza e la sua disciplina. L’anarchia sonora che era stata prerogativa degli esordi della band di San Francisco viene immolata sull’altare di una musica elegante sempre più sofisticata e accademica. C’è pochissima follia sonora dentro Holy Wars eppure, ciò malgrado, non riesco a bocciarlo. So di nuotare contro corrente ma confesso di averlo amato più di un disco agonizzante come Divine. Perché è un disco di canzoni. Un disco di canzoni tristi. Ha il fascino di certe vecchie eleganti signore ormai in decadenza, chiuse dentro ermellini leggermente ingialliti dal tabacco e solcate da rughe profonde che tuttavia non riescono a deturpare la bellezza che è passata su quella stessa pelle in una giovinezza sempre più lontana e inafferrabile. The Waltz allenta delicatamente le imposte lasciando passare piccoli fasci di luce nella camera piena di fiori appassiti e piante avvizzite dal peso della polvere. A dispetto del suo titolo, nessun tempo ternario la deturpa. Procede sdrucciolosa e liquida, come le lacrime. Fortemente ritmica è invece la successiva St-John, sciancata mini-sinfonia dove tutto l’armamentario sonoro dei Tuxedomoon ha modo di trovare i suoi dieci secondi di gloria. Bonjour Tristesse è invece un melanconico volo d’uccello tra i balconi liberty dei viali parigini. Hugging the Earth è una carambola ritmica che ricorda il Peter Gabriel scimmia-mutante dei primi album e sulla quale diluviano grumi sintetici di tastiere, clarini e organi ecclesiastici, voci esanimi. In a Manner of Speaking è un refuso da Theoretically Chinese di Winston Tong, una afflitta composizione dove la voce del cantante giapponese viene doppiata dalla chitarra sbilenca di Luc Van Lieshout e ulteriormente raggelata dalle stalattiti che sgorgano dal flauto polare di Bruce Gedulging. La seconda facciata si apre invece con le sfericità orientali di Some Guys prossime al gusto esotico e dandy dei Japan, tuffandosi quindi nelle atmosfere da strade bagnate della title track e nel flagello meccanico per sovrapposizione sonora di Watching the Blood Flow per andare a morire poi sulla spiaggia egiziana della mortifera e appannata Egypt. Holy Wars col suo carico di malinconia mitteleuropea è il ritratto di una band che ha trasformato le sue maschere di cuoio e metallo in bigiotteria pregiata adatta ai portagioie dell’Europa borghese e conservatrice, Fronte Ovest del muro di Berlino. Dipingendo il ritratto esclusivo del suo fascino decadente e del suo elegante, inevitabile declino.
L’opinione più comune è quella che vuole il successivo Ship of Fools uno dei peggiori episodi della saga Tuxedomoon. Le ho lette anche io quelle recensioni che lo descrivono come un disco poco coraggioso, addirittura accademico. Un album talmente poco considerato, che se provi a comprarlo su Amazon finisci per acquistarlo tutto sbagliato (The Train al posto di Atlantis, An Afternoon With N al posto di Reeding, Righting, Rhythmatic, A piano solo al posto di Break the Rules, e così via fino alla fine) generando confusione su confusione malgrado a nessuno nell’ era del digitale interessi cosa stia ascoltando, tant’è che quella scaletta sbagliata è ancora lì, su quella pagina dove la musica va a morire, dodici anni dopo. A me piace da morire invece, nonostante la sua ricercatezza un po’ snob possa sembrare in incompatibile antinomia con le fastidiose trame avanguardistiche dei primi dischi della band americana. È un disco volutamente ambivalente, diviso tra una prima facciata piena di funky mutante e una seconda side che invece è una placida distesa di pianoforti a coda, fiati sordinati e chitarre mute, nell’abbagliante chiarore di una stanza candida come la camera da letto di Lennon o Ono. Una ripresa al rallentatore sul pube finalmente rasato di Yoko e sul corpo glabro di John. Fino a che l’ensemble non torna, ubriaco, ad intonare la melodia alticcia del jazz di The Train. In contrapposizione con i movimenti cameristici della seconda facciata, le tre canzoni del lato A del vinile indulgono invece in quella frenetica e cervellotica babele di suoni, voci e ritmi che sono uno dei tratti distintivi della musica dei Tuxedomoon. Epilettica (Break the Rules), robotica (Reeding, Righting, Rhythmatic) e decadente (Atlantis), avamposto di una world music creata dalle macchine per educare gli uomini alla contemplazione del bello, attraverso l’elaborazione psicologica del goffamente mostruoso. Qualcuno rimarrà per sempre fermo al porto di ormeggio, salutando con la mano questa nave di folli, credendo di essersi salvato. Poco prima di affondare.

You, il disco chiamato a celebrare il decennale della formazione di San Francisco, indugia in una lambiccata fusion (Roman P., The Train, l’orientaleggiante Never Ending Story, la languida e fiacca dance di You) e mostra una discutibile propensione per climi da thriller che sconfinano in un horror di bassa lega (i tre movimenti di Boxman, i sospiri evanescenti di 2000 e la spettrale Stockholm che sembra una ridicola partitura sulla ghost house di Mario Bros). È un goticismo da videogame che non rende giustizia alla storia di una delle band più innovative della new wave americana, una grottesca e innocua caricatura del gelido jazz elettronico degli esordi che sembra ormai scivolare sempre più verso un intrattenimento sofisticato ma completamente disinnescato dal punto di vista emotivo. Musica per ascensori. Musica per aeroporti. Musica per obitori. Per la sua sesta edizione, quella del 1982, il Festival del teatro contemporaneo di Polverigi ospita sul suo palco i Tuxedomoon per uno spettacolo a luci basse. Il titolo è An Opera Without Words, pubblicata su disco quasi dieci anni dopo a band temporaneamente collassata e su DVD nel 2007, a fenice tornata a battere le ali. The Ghost Sonata, assurto ad album ufficiale, viene reinserita adesso in questo box come sesto disco del cofanetto. Morte e vizio sono le protagoniste che si rincorrono sul palco, rese su video con immagini sgranate, gotiche e nebbiose alternate a fotogrammi di altri dolori e musicate con piccole partiture per orchestra, pianoforte e gingilli elettronici con accenni alla musica concreta e qualche sparuto dialogo che ha il compito di dare un senso narrativo all’opera, qui purtroppo amputata delle immagini. Dopo le eleganze esibite lungo la trilogia Holy Wars/Ship of Fools/You, The Ghost Sonata è dunque un (ovvio) deja-vu dei torbidi e decadenti musical per vampiri degli esordi. Musica per camere sgombre di affetti e fantasmi di amici avvolti dentro un sudario, incapaci di riempirle.
Nonostante estemporanee e parziali reunion, il rientro ufficiale nel mercato discografico dei Tuxedomoon avviene soltanto sedici anni dopo la pubblicazione di You. Per l’occasione la band di San Francisco, sebbene geograficamente separata (Reininger vive da tempo in Grecia, Principle a New York, Steven Brown ha trovato una seconda o terza patria in Messico mentre Geduldig e Van Lieshout hanno messo radici a Bruxelles) si riunisce presso il Teatro Comunale di Cagli ristabilendo il suo assetto originale nonostante le porte vengano aperte a numerose collaborazioni esterne (dai Tarwater a Dj Hell passando per Ian Simmonds, John McEntire e Marc Collin a testimoniare di quanto la musica del gruppo sia stata un’influenza determinante e trasversale per la musica degli anni Novanta, sia essa quella della dance, del post-rock, del downbeat o della lounge). Il favoloso trittico inaugurale A Home Away/Baron Brown/Annuncialto sembra riportare i Tuxedomoon ai fasti dei primi anni Ottanta salvo poi rivelare una qualità via via più scostante e dispersiva man mano che ci si inoltra nel lunghissimo imbuto del disco che comincia a perdere la sua magia con l’esercizio in lingua italiana su Diario di un egoista che si avvicina a quanto tentato, e con risultati migliori, dai nostri La Crus con la Dragon di Paolo Conte strappandoci però qualche sorriso (forse più di quanto riesca il siparietto “stradale” de La più bella) per l’accento maccheronico di Mr. Brown. L’impressione è che il gruppo voglia scrollarsi l’aria sofisticata che le è propria per cucirsi addosso un abito più mondano sfiorando in alcuni casi la superficialità delle musiche da anti-camera più che quelle da camera che ha frequentato sovente (The Island, Cagli Five-0, Misty Blue) o provando l’ebrezza dello stupro nei cessi dei club (Luther Blisset, con McEntire che si aggiunge al branco in calore), finendo per cannibalizzare volgarmente se stessa.

Il rientro in patria successivo alla pubblicazione di Cabin in the Sky alimenta nuovamente la sete di improvvisazione che i Tuxedomoon hanno sempre privilegiato sul palco come in studio e la realizzazione/sonorizzazione di film immaginari o immaginifici. Le riprese, invero modeste, realizzate dal loro amico George Kakanakis durante gli spostamenti del gruppo sono così il pretesto per la realizzazione di Bardo Hotel, realizzato in totale libertà espressiva e catturando piccole perle di suoni “casuali” registrate negli aeroporti, lungo le autostrade e negli alberghi che ospitano la band. Sono i Tuxedomoon nella loro dimensione più onirica ed astratta, cittadini di quel “non-luogo” dove l’anima cerca di colmare la distanza con il corpo, inseguendolo in quel vuoto temporale chiamato jet-lag che è in realtà una porzione di vita che ci viene sottratta e a volte mai più restituita. Violini, pianoforti e fiati che si librano in correnti ascendenti o che piovono in verticale come lacrime su un terreno ritmico poroso e deforme su cui fioriscono o appassiscono anche piccoli fiori estirpati dalle aiuole dei giardini pensili di Half Mute, Desire e Cabin in the Sky (i tre movimenti di The Show Goes On), spioncini che si aprono su piccole ma fastose rappresentazioni operistiche, improvvisazioni drammatiche (Vulcanic Combustible) e vertigini cameristiche (Tryptich) stipate in novanta ore di registrazioni di cui Bardo Hotel Soundtrack offre solo lo squarcio che il formato commerciale gli impone. Interamente composto in Grecia, Vapour Trails arriva a coronamento di trenta anni di carriera dell’ensemble californiano e dopo più di un centinaio fra dischi collettivi, solisti, collaborazioni e comparsate varie. A celebrazione dell’evento la Crammed lo pubblica separatamente ma anche integrato dentro un cofanetto intitolato 77o7 Tm assieme a una raccolta di inediti, un live dello stesso periodo e un DVD di video e installazioni visive. Nonostante il “vapore” respirato durante la realizzazione del disco sia quello dell’antica civiltà ellenica, Vapour Trails si apre con un omaggio a quella che è la nuova patria di Steven Brown, ovvero il Messico già “esplorato” su Joeboy in Mexico esattamente dieci anni prima. Mucho Colores si poggia infatti su un languido tappeto mariachi e sui vocalizzi in lingua spagnola di Reininger che è invece l’unico componente del gruppo ad aver fatto della Grecia la sua fissa dimora. Il suono si sporca e si contamina nella successiva Still Small Voice, finendo per assomigliare curiosamente ai “mostri spaventosi” di Bowie (altra curiosità, a disegnare la copertina è Jonathan Barnbrook, autore delle peggiori copertine dell’ex-Duca Bianco). La lunghissima piece strumentale Kubrick riporta la band nel suo habitat più naturale, sospesa come polvere siderurgica su una musica che flirta col jazz, l’astrattismo colto della musica contemporanea, l’elettronica impalpabile. L’epica ellenica ispirata dal Partenone diventa invece influenza tangibile nella quiete con cui viene descritta Atene su Big Olive, nel paludoso e anfibio dispiegarsi di Dark Temple e nel mantra in greco antico di Epso Meth Lama che si piega alle ricerche trascendenti di Lygeti e Bartòk. “Appendice” al box vinilico pubblicato dalla Crammed e probabile invito all’acquisto del medesimo, Appendix raccoglie per l’ennesima volta una serie di “scarti” di trent’anni di lavorazione Tuxedo. Demo e versioni alternative spesso sovrapponibili totalmente al prodotto finito (Boxman, Spirits and Ghosts, Bitter Bark). Un disco dunque un po’ feticista, proprio come tutta l’opera che lo contiene e come il gruppo che ne è protagonista, in grado di salvaguardare per decenni il suo status di formazione trasversale ed elitaria, capace di guardare in cento luoghi diversi con la simmetria ottica di uno strabismo di Venere, cercando posto fra le tribune di pietra degli anfiteatri greci come fra le poltrone di velluto dei teatri dell’opera, tra le impalcature metalliche dei circoli new wave o fra le stalattiti di azoto compresso del minimalismo elettronico, visitando Nazca, Atene, New York, l’Egitto, Atlantide, il Messico, l’Italia, la Turchia, Parigi, Bruxelles prima che il mondo venisse blindato. E noi con lui. (Franco Dimauro)


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