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Recensione: Lilith And The Sinnersaints – Revoluce (2015)

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La sua “rivoluzione” Lilith l’ha già fatta. E l’ha fatta tanti anni fa. Quando, col cadavere dei Not Moving ancora in rigor mortis, ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco puntando carte per nulla facili. Rinunciando a essere quello che tutti si aspettavano restasse e avventurandosi alla ricerca di se stessa. Creando fastidio. Punk per sempre. Per chi sa cosa vuol dire. Poi, dieci anni fa, sono arrivati i Sinnersaints. Amici vecchi e nuovi con cui condividere rabbia e dolore. Come dovrebbe essere con gli amici veri. E che in genere invece non è. E, con loro, una serie più o meno regolare di dischi più o meno irregolari. Dischi dove la riscoperta delle proprie radici a volte si avvicina alle nostre ma, sempre, coincidono con le sue. Che si tratti degli Stooges, di Adamo, di Robert Johnson, del dialetto del suo paese o del linguaggio universale del blues, dei Not Moving o dei Television, di Violeta Parra o degli Statuto, poco importa. Perché Lilith riesce a trasformarsi restando sempre se stessa, portandoci in dono una voce che ha la stesso rauco e sgraziato tormento asociale di Rosa Balistreri, Gabriella Ferri e Nada. Perché se ogni uomo è un’ isola, le donne vere sono un arcipelago di scogli sommersi. E solo chi sa annegare riesce ad approdarvi. RevoLuce, nel suo infinito gioco di parole, è il nuovo disco di Lilith con i santi peccatori di turno. Un album in cui ognuno può trovare le suggestioni che vuole. Io ci ho trovato i La Crus degli esordi, il Santo Niente di Umberto Palazzo, il Ferretti meno ingombrante, Nada, il Gran Teatro Amaro, PJ Harvey, i Calexico. Ma soprattutto Lilith. Bella come sono belle le cose che hanno il coraggio di stare nude mentre tutti sono attenti a coprirsi. Rivoluzione, appunto. (Franco Dimauro)



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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 3 Aprile 2015

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