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(Ri)visti in TV: Velluto Blu di David Lynch

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Non è davvero incredibile – o perlomeno stravagante – che agli inizi degli anni ‘90 l’autore di “Eraserhead” abbia goduto di una incredibile popolarità e che, addirittura, sia finito sui rotocalchi di gossip? Qualcuno ricorderà certamente – io fra questi – lo straordinario successo di “Twin Peaks” e tutto il caravanserraglio mediatico che ne seguì: le serate “Twin Peaks” nei club alla moda, le maratone televisive “Twin Peaks”, le proiezioni cinematografiche “Twin Peaks” fra sterminati gruppi d’ascolto, gli innumerevoli remix della colonna sonora di Badalamenti. Col senno di poi tutta quella sovraesposizione “popolare” sembrerebbe sia stata una sorta di nemesi alla rovescia per un autore volutamente indefinibile che non ha mai avuto paura di rimanere incompreso nel suo violare costantemente le leggi del rapporto con lo spettatore percorrendo un tracciato del tutto personale. Tuttavia, l’estetica “pop” di quel serial ebbe il merito – fra i tanti – di far conoscere ai più, seppur indirettamente, l’opera di Lynch, anche se, sarebbe interessante sapere quanti, poi, hanno avuto il coraggio e la costanza di seguirlo sugli impervi percorsi successivi. Il cinema di Lynch, infatti, da “Lost Highways” fino all’ultimo delirio di “Inland Empire” passando per il magnifico “Mulholland Drive” è sempre di più inquieta visionarietà, perdita di controllo, moltiplicazione delle identità, allucinazione semi-cosciente. Una sorta di stream of consciousness visivo in cui acquista sempre più importanza la messa in scena (e la sua costruzione) sulla parola e dunque sulla ricerca di un “senso” propriamente detto. La sceneggiatura è solo un debole pretesto per abbandonarsi alla potente dittatura delle immagini. Tra la sperimentazione di questi ultimi anni e la rappresentazione del dolore e delle sofferenze umane degli esordi (ora nella maniera scomposta, orrorifico-surreale, di “Eraserhead” ora liricamente come in “Elephant Man”) fa da spartiacque il film che il canale IRIS trasmette giovedì alle ore 23,05: “Blue Velvet” (azione meritoria quella di tener desta l’attenzione su un autore che – speriamo di essere smentiti dallo stesso in un prossimo futuro – sembra abbia deciso di non girare più film). Lynch utilizza tutti gli stilemi del “noir” per dotare l’opera di una veste formale “classica”, rispettosa, pertanto, dell’unitarietà dell’azione, del tempo e del luogo ivi rappresentato (sotto questo aspetto è il suo film probabilmente meglio riuscito) e la dissemina di elementi di ambiguità (la doppiezza dei protagonisti) e raccapriccio che, a dispetto dell’apparente happy end (?!), come un virus ad orologeria, deflagrano nell’incoscio dello spettatore per violentare il suo immaginario, per devastarne con dubbi le convinzioni acquisite. La nitidezza luminosa delle immagini iniziali (che richiama la pittura di Edward Hopper) e delle scene diurne s’alterna all’oscurità della casa di Dorothy e del night club – il frutto splendido del lavoro alla fotografia di Fred Elmes con cui Lynch aveva lavorato in “Eraserhead” – e diventa il supporto visivo funzionale a definire i contorni di una storia che, coerentemente con la poetica del suo autore, si muove in bilico tra realtà e onirismo confondendone perversamente i contorni. I terribili violenti accadimenti di una cittadina-tipo americana – un microcosmo che nasconde, sotto la superficie, tensioni inenarrabili – sono lo spunto per mettere in scena una riflessione disturbata e pessimistica sull’America e sulla sua inarrestabile decadenza (morale). Le case pulite e le strade ordinate nascondo una realtà fatta di violenza e sopraffazione, l’incapacità di comunicare altro che la replicazione di sofferenza e dolore: la schifosa ipocrisia perbenista dell’american way of life che nasconde la polvere sotto il tappeto. “Velluto Blu” (1986), comunque, è soprattutto la rappresentazione di una discesa negli abissi dell’animo umano – attraverso la metaforica indagine di Jeffrey sull’orecchio mozzato – il racconto della perdita dell’innocenza, la visione di quell’incubo “blu” che è l’uomo, la vertigine che ci coglie quando ci raggiunge la consapevolezza di vivere “in uno strano mondo” – come dice Jeffrey a Sandy – che non riusciremo mai e poi mai a piegare alla nostra volontà e che anche la bellezza – come quella della cantante Dorothy – è inquinata dal male – qui personificato dallo psicopatico Frank (un gigantesco Dennis Hopper). Un film straordinario che non fu – all’epoca soprattutto negli states – nè compreso nè amato. La scintillante ed edonistica america reaganiana non poteva accettare alla leggera questa spietata opera di demolizione – per nulla consolatoria – dei suoi elementi fondanti. Ci furono voci dissonanti: a chi accusò il film di gratuita oscenità e violenza – come Gian Luigi Rondi che ne impedì la partecipazione alla mostra di Venezia – fece da controcanto la critica più attenta e coraggiosa che ne magnificò la visionarietà e l’innovazione. Peter Travers di Rolling Stone “America” scrisse che probabilmente “Velluto Blu” era il miglior film degli anni ‘80, una sorta di oscura e malata “dolce vita” felliniana all’incontrario e che dopo questo film nulla sarebbe stato uguale nella cinematografia americana….Qualche anno fa Oliver Stone – il cui “Platoon”, uscito in contemporanea nell’86, ebbe ben altro e più vasto successo – ha dichiarato di esserne stato a tal punto influenzato che tutti i suoi film più “estremi” a partire da “Assassini nati” in poi sono un pallido tentativo di ricreare quell’atmosfera torbida. In “Blu Velvet”, a ben vedere, forse è racchiuso tutto il significato del cinema di Lynch: il contrasto, le contraddizioni della vita che si dibatte in maniera ambigua fra orrore e purezza. Tutto racchiuso nelle immagini che si ripetono in maniera circolare e quasi uguali all’inizio e alla fine di questo film: la fissità solenne del cielo blu, le staccionate bianche delle case della provincia americana, i prati ben curati dei giardini, i fiori colorati che sono dolcemente cullati dal vento, la mano del pompiere che in maniera rassicurante ci saluta… La bellezza immutabile della vita, la sua insondabilità, dunque, che fa da sfondo alle bizzarre vicende di quella bizzarra ed incomprensibile creatura che è l’uomo. (Nicola Pice)

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