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Manuel Galbán – Blue Cha Cha (2012)

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E se ne è andato un altro dei vecchietti (ri)portati in evidenza da Ry Cooder e Wim Wenders nel Buena Vista Social Club Project. Certo ogni volta che nell’ultimo decennio e più abbiamo fatto la spunta – e la cosa è successa spesso – di chi ci lasciava, la malinconia ed il rammarico crescevano, assieme al disappunto per non poterci più abbeverare alla fonte del loro talento, nello scoprire di quanta e quale grandezza era pregna la loro musica. È stato così per Manuel “Puntillita” Licea (scomparso nel 2000) come per Compay Segundo (2003), per Ruben Gonzales (2003) come per Ibrahim Ferrer (2005), per Pío Leyva (2006) come per Israel “Cachao” López (2008) e Orlando “Cachaíto” López (2009). E oltre un anno fa, in luglio, è toccato a Manuel Galbán che era rimasto un pò defilato (seppur presente) nel Buena Vista Social Club ma successivamente aveva goduto delle attenzioni lusinghiere (produttive e collaborative) di Ry Cooder, un suo sincero ammiratore, per l’incisione del magnifico “Mambo Sinuendo” nel 2003, Grammy Award per il Miglior Album Pop Strumentale, disco magistrale che si prefiggeva di esplorare (con la sapienza da ricercatore e studioso che riconosciamo a Cooder e le indubbie qualità chitarristiche di Galbán) alcune (ai più) sconosciute atmosfere cubane degli anni ‘50. A poco più di un anno di distanza dalla scomparsa viene pubblicato l’album postumo di Manuel che nei ’60 a Cuba aveva raggiunto una certa notorietà con il quartetto vocale dei Los Zafiros. Il viso eternamente sorridente e giovanile, il vezzo di impomatarsi i capelli come un giovincello, lo sguardo di chi è fondamentalmente convinto del proprio talento, fiero e appagato del consenso raggiunto a livello internazionale come musicista professionista, nel corso di una carriera lunga sei decenni, questo è l’immagine, il ricordo che ha lasciato di sé Manuel. Manuel Hilario Galbán Torralbas, polistrumentista (suonava anche organo e piano), arrangiatore e compositore, era nato a Gibara, Cuba il 14 gennaio 1931, ed è morto all’Avana il 7 luglio 2011 per un infarto all’età di 80 anni. Ha rimpolpato il proprio curriculum offrendo il suo discreto (nel senso di ‘non appariscente’) ma affascinante e puntuale contributo di retrovia agli album dei vari membri del Buena Vista: Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo, Orlando “Cachaíto” Lopez e Manuel “Guajiro” Mirabal. Sono suoi gli intrecci chitarristici di “Silencio”, il sontuoso e impareggiabile duetto tra Ibrahim Ferrer e Omara Portuondo che si può ammirare nel film di Wenders. Nel 1999 Nick Gold, fondatore e demiurgo della World Circuit, aveva dato alle stampe l’album “Bossa Cubana”, compilation dei materiali dei Los Zafiros, disco nel quale emergeva chiaro lo stile singolare di Galbán; incantevole e distintivo di certe sonorità elettrificate in voga a Cuba nei Sessanta, con quei magnifici assolo della sua chitarra su linee melodiche che appagavano i sensi. Lo stesso Manuel spiegava ad un giornale la sua tecnica: «Faccio uso di passaggi veloci che combino con gli arpeggi, mentre con l’altra mano faccio un uso appropriato e sincronizzato delle corde basso, dando così l’impressione che siano più musicisti a suonare insieme». Uno stile che ricorda da vicino quello cosiddetto ‘twangy’ portato al successo da Duane Eddy. Nel 1963 Galbán entrava a far parte dei Los Zafiros che erano alla ricerca di un nuovo chitarrista per il loro mix di bolero, bossa nova, calypso e doo-wop di matrice americana (quello che Ry Cooder avrebbe più tardi etichettato come “Doo-wop noir”) che di lì a poco avrebbe conseguito un ampio successo. Il loro slogan di presentazione era “quattro voci e una chitarra”. Si narra che nel corso di una celebrata apparizione all’Olympia di Parigi nel 1965 i Los Zafiros abbiano fatto la conoscenza dei Beatles, rimasti in città qualche giorno in più del previsto proprio per poter assistere alla loro performance. Qualche contrasto con gli altri componenti del gruppo – per via di alcuni disinvolti eccessi con l’alcol – induceva Galbán a lasciare la formazione alla fine del 1972 per fondare l’anno successivo un suo proprio ensamble, il Grupo Batey. Formazione solida che si è esibita per 23 anni fino al 1996 con un repertorio di materiali tradizionali registrando però solo due album. Negli ultimi anni è stato membro della formazione dell’Avana Los Cuatro Fabulosos ma aveva intensamente lavorato per tre anni alla realizzazione del progetto del cuore, l’album “Blue Cha Cha”, un tuffo nel proprio passato, una panoramica sui molteplici stili affrontati nella lunga carriera, dall’Afro-Cuban alla musica tropicale, al bolero, al R&B, il primo album completamente “suo”. “Blue Cha Cha” è un disco semplicemente delizioso, sofisticato e desueto come pochi, pieno di energia, contiene brani strumentali up-tempo che potremmo definire “dinner-jazz”, in cui vengono esaltate le sue prerogative di solista, e qualche brano vocale (con lo swinging delicato di Alma De Roca) a corredo in cui emerge la qualità del suo accompagnamento. Un mood notturno in cui il riverbero della chitarra di Galbán riporta alla memoria il sound di quei western-spaghetti dei ’60. Si inizia con il magnifico strumentale “Pachito Eché”, con una puntuale e vivace sezione fiati, la title track è un latin-blues su cui sigla la sua presenza Eric Bibb, e entrambi i pezzi sono le migliori cose del disco. Si segnalano le presenze come ospiti tra gli altri di Omara Portuondo (nel brano “Duele”, una ballata dal respiro intenso e appassionato), del bluesman Eric Bibb, del suonatore di kora il maliano Ballaké Sissoko. “Y deja” e “Bossa cubana”, che facevano parte del repertorio dei Los Zafiros, sono qui riproposte con arrangiamento diverso. Come bonus viene proposto un dvd contente diverse interviste e un documentario girato tra l’Avana e Parigi. (Luigi Lozzi)

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