Categorie: Articolo

Recensione: Nikki Sudden – Treasure Island (2004)

Pubblicato da


Nikki Sudden è una vera e propria leggenda della storia del rock.[1] A metà degli anni Settanta, insieme al fratello Kevin Paul Godfrey, diede origine agli Swell Maps, band inglese dai connubi punk/experimental/glam e dalle sonorità lo-fi in grado di influenzare, udite udite, formazioni come Sonic Youth, Pussy Galore, R.E.M., Pavement e Lemonheads. Dopo aver registrato A Trip To Marineville (1979) e Jane From Occupied Europe (1980), nel 1982 Nikki inaugura la sua carriera da solista con Waiting On Egypt (1982), che metterà in luce tutto il talento di un rocker spregiudicato e senza frontiere. Il percorso sarà intervallato da un’altra significativa collaborazione, quella con il cantante/chitarrista Dave Kusworth; dall’unione dei due – o se vogliamo dei tre, visto che alla batteria c’è sempre il fratello Kevin Paul “Epic Soundtracks” Godfrey – nascono nel 1984 gli Jacobites, assertori di un power pop/blues sobrio e primigenio. Nel frattempo Nikki Sudden riprende la carriera da solista prima con The Bible Belt (1983) e poi con Texas (1986), un album rigoroso e severo che vede tra l’altro la partecipazione di Rowland Howard (Birthday Party e Crime And The City Solution). Tuttavia, Texas segna anche un periodo di crisi artistica; fase negativa che l’artista inglese riuscirà a superare brillantemente grazie alla propria testardaggine che lo porterà ad alternare episodi collettivi, tra i quali Fortune Of Fame (1988), Howling Good Times (1994), Old Scarlett (1995) e via discorrendo, a lavori personali come Groove del 1989, The Jewel Thief del 1991 (prodotto con Peter Buck dei R.E.M.) e Red Brocade del 1999 realizzato con l’apporto di Jeff Tweedy dei Wilco. Arriva poi il 2004 e Nikki il pirata, navigando nelle stesse acque che lo hanno visto per trent’anni vagabondo romantico e incorreggibile, si erge a paladino del buon vecchio e caro rock’n’roll con Treasure Island. Un’opera scrosciante e compatta in cui si fanno largo la malinconia di Russian river, Kitchen blues e Highway girl, l’isterismo di Fall any further, l’energia di Looking for a friend e di Treasure Island e la maturità di canzoni quali When the Lord e Sanctified. Un lavoro che richiama alla mente Bob Dylan, Neil Young e i Rolling Stones, anche se poi le canzoni di Nikki non sono mai riferimenti assoluti ma semplici segni di appartenenza. Passaggi di una stessa rotta insomma, dai canovacci blues di High and Lonesome ai retrogusti country di Break up, solcando le intemperanze elettriche di Wooden floor e di House of cards. Ad accompagnarlo in questo incantevole viaggio ci pensano Mick Taylor, Ian McLagan (Small Faces e Faces) e Anthony Thistlethwaite dei mitici Waterboys. Un tripudio di chitarre e di sano intimismo che rendono omaggio al principe dei banditi. Un uomo che disse di no ai Nirvana e che, per amore di una splendida ucraina, mandò all’aria un disco con Alex Chilton dei Big Star. Un loser, ma un grandissimo loser. (Luca D’Ambrosio)

[1]Recensione pubblicata su ML – n. 15 del 25 agosto 2005


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 28 Novembre 2013

MUSICLETTER.IT

Musica, cultura e informazione (dal 2005)