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Recensione: Country Joe and the Fish – I-Feel-Like-I’m-Fixin’-to-Die (1967)

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Nel giugno del 1967 a Monterey si celebra il primo megaraduno della storia della musica moderna. Tre giorni vissuti nell’illusione dell’amore universale, con una enorme sfilata di profeti: Ravi Shankar, Eric Burdon and The Animals, Canned Heat, Quicksilver Messanger Service, Jimi Hendrix, Blues Project, Grateful Dead, Big Brother and The Holding Co., Moby Grape, Otis Redding, Electric Flag, The Who, Jefferson Airplane, Janis Joplin, The Mamas and Papas, Byrds, Hugh Masekela, Association, Simon & Garfunkel e, ovviamente, Country Joe and The Fish. Si suona, si fa l’amore, si mangia cibo sano (quello del Good Karma Turn-On Health Food Stand), si fuma, si dorme nei sacchi a pelo e si piscia tra la natura. La contro-cultura hippie piazza i suoi mega-altoparlanti e dalla costa occidentale degli Stati Uniti parla al mondo intero. Dal palco si sprigiona un’energia nuova che molti credono possa davvero cambiare le sorti del mondo. In realtà, ma non era cosa da poco, sarebbe servita solo a far germogliare una coscienza nuova, disubbidiente, contestataria, proprio in concomitanza con l’escalation della guerra in Vietnam. Chi tra i giovani di allora non viene chiamato alle armi, ne canta la tragedia. Country Joe è uno dei primi a cantarne, già nel 1965 sull’EP allegato al suo audiogiornale Rag Time, poi sul palco di Monterey, quindi riproponendo I feel like I‘m fixin’ to die rag in apertura del secondo album della sua band, avendo cura di sostituire l’incitazione a gridare Fuck che ne precede l’esecuzione dal vivo con un più innocuo Gimme an F, gimme an I, gimme an S, gimme an H …what’s that spell? Fish Fish Fish!. E poi via, con una fanfara circense dal forte cinismo e carico di un sarcasmo amaro ma efficace che si conclude con un disarmante “coraggio, fate in modo di essere i primi nel vostro palazzo ad accogliere vostro figlio che torna a casa chiuso in una cassa!”. Un ragtime un po’ scollato dal resto del disco. Una dissertazione dissacrante in forma di gag. Zio Sam li guarda sconcertato da sotto il cilindro a stelle e strisce. Il clima dissidente si stempera lungo l’ album, adagiandosi su soffici ballate folk come Who am I, Thursday o Pat‘s song, liquide partiture psichedeliche (la “tempestosa” Magoo, la bellissima dilatazione di Colors for Susan, la soporifera Thought Dream che si lascia ricordare solo per i versetti pacifisti di The Bomb Song e per la misurata propaganda sull’uso dell’LSD di The Acid Commercial contenute al suo interno e l’improvvisazione acida di Eastern Jam) e la modesta canzone scritta in omaggio alla Joplin che si risolve in un valzerino talmente ordinario da finire riarrangiata, su singolo, dalla sezione archi della filarmonica di New York. La recente ristampa la mette quasi in coda alla doppia scaletta (una per l’edizione stereo, una per quella mono) e a una ottima confezione ricca di curiosità su ogni pezzo, una lunga intervista alla band e la riedizione del Fish Game, un tabellone creato sulla falsariga della mappa dello Scam, il gioco da tavola ideato seguendo le rotte dei narcotrafficanti. “Mr. America passa davanti al tuo sogno da supermercato. Mr. America prova a nascondere il vuoto che era dentro di te. Quando hai scoperto che il modo in cui mentivi e tutti i tuoi banali inganni non avrebbero fermato l’alzarsi di questa marea di tipi strambi e affamati, papà …” (Franco Dimauro)


✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 29 Dicembre 2013

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