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The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? – 2017 | Recensione

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La reunion dei Dream Syndicate non è quel sogno che volevamo fosse. In camera d’assemblea non vedrete Karl Precoda, né Dave Provost né tantomeno Kendra Smith (presente però “in spirito” su Kendra’s Dream) o quel Paul D. Cutler che aveva accettato di salire sul palco del McCabe’s di Santa Monica per una estemporanea reunion esattamente dieci anni fa.

Del nucleo storico sono presenti solo Steve Wynn e il drummer Dennis Duck, cui si aggiunge quel Mark Walton chiamato a sostituire Provost al giro di boa degli anni Ottanta e della loro carriera.
Purnondimeno iscritti e associati si troveranno ancora una volta pronti ad esibire la loro tessera pur di sentirsi ancora parte di quel “sogno”.

Del resto, con pochissime rare eccezioni (Sure Thing, Halloween, Bullet With My Name on It) la firma di Wynn era in calce ad ogni comunicato sindacale redatto da quella sigla, per tutti e otto gli anni del suo mandato ed appare dunque del tutto naturale che per i vecchi (eh, sì) fan dei Dream Syndicate quest’anno il Natale arrivi con tre larghi mesi di anticipo nel rivedere il caro amico riappendere la vecchia insegna davanti al suo drugstore, felici di “trovarsi qui” e conoscendone bene il motivo, a differenza da quanto dichiarato dallo stesso Wynn nel titolo del “suo” nuovo lavoro.

L’(in)atteso How Did I Find Myself Here? è dunque il nuovo lavoro dei Dream Syndicate. Ma a ragion veduta potrebbe pure non esserlo, visti gli esigui richiami al suono con cui è ragionevolmente lecito identificare la band. Rimangono, è vero, certe limpide influenze mutuate dagli eroi di sempre (Lou Reed, Neil Young e Tom Verlaine) ma la vecchia dottrina del Sindacato viene adesso ravvivata da una neppure troppo vaga fame di rumore che sembra piovere direttamente dai cieli elettrici di Pixies (80 West), Jesus and Mary Chain (Out of My Head), Telescopes (Kendra’s Dream) e Dinosaur Jr (The Circle) e da un più marcato e più “british” (qualcuno ha detto Robyn Hitchcock?) senso melodico snaturando un po’ il classico suono dei Dream Syndicate ma dimostrando che il loro leader non ha perso la voglia e l’abilità di maneggiare petardi e scagliarli in mezzo alla folla.

Il vecchio gusto per le jam rivive negli undici minuti della title track, risolta alla stregua di una versione asciutta di Riders on the Storm. Steve Wynn ne esce ancora una volta vincitore, anche nella scelta di riaccendere vecchi entusiasmi scegliendo di pubblicare come Dream Syndicate un disco che avrebbe potuto benissimo realizzare col proprio nome aggiungendolo alla sua pregevole, ma meno ricercata, collezione personale. Questi, sono i giorni di Wynn e delle rose. (Franco Dimauro)

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✓ MUSICLETTER.IT © Tutti i diritti riservati - 20 Settembre 2017

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