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Big Star – #1 Record (1972)

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Il Big Star è una catena di supermercati storici di Memphis. La città di Alex Chilton. La città dove il bambino prodigio del soul dagli occhi azzurri torna dopo aver riparato a New York, lontano dal naufragio dei suoi Box Tops. Per leccarsi le ferite. Alex vuole tornare all’essenzialità della musica acustica, mettendo a frutto quanto ha imparato dalla frequentazione newyorkese con Roger McGuinn. Propone al vecchio amico Chris Bell un duo folk rock sulla falsariga di Paul Simon e Art Garfunkel. Due chitarre, due voci. Nient’altro. Chris lo invita ad assistere alle prove della sua band. È la nascita della Grande Stella di Memphis, destinata ad oscurare quella del famoso food store dove i quattro si recano spesso proprio mentre frequentano gli Ardent Studios per azzannare un panino, bere una birra, guardare le gambe alla cassiera. Paura di beghe legali li costringerà poi a eliminare il nome Star dal neon della copertina, ma a quel punto la bella e sfortunata storia dei Big Star è già iniziata. Nel 1972 la Stax, che pure sta tentando di aprirsi al mercato bianco mettendo sotto contratto gente come Terry Manning e gli Skin Alley, sta lavorando a un ambizioso progetto chiamato WattStax. Un raduno di afroamericani destinato a diventare uno degli eventi più chiacchierati della storia della soul music. Sarà l’inizio della fine per la Stax ma ancora nessuno lo sa. Però ci vanno di mezzo Chilton, Bell, Andy Hummel e Jody Stephens. La cifra destinata alla promozione del loro disco viene convogliata per la realizzazione del festival e la sua documentazione su disco e su pellicola. Per # 1 Record, solo poche briciole. E però, che cazzo di briciole ragazzi: The Ballad of El Goodoo, Thirteen, In the street, Don‘t lie to me, When my baby ‘s beside, Try again, Watch the sunrise, Feel. Qualcuna caduta dalla bocca di Chilton, qualcuna dalla bocca di Bell. Un po’ come se i Beatles avessero mangiato assieme ai Moby Grape, lasciando i Flamin’ Groovies a sparecchiare. Arpeggi cristallini, voci in falsetto, cori byrdsiani, una singolar tenzone tra chitarre degna della letteratura cavalleresce (Don ‘t lie to me), un inaugurale tuffo nei fiati Stax (Feel) e Andy Hummel a fare l’Harrison della situazione con le visioni oniriche di The India Song. Pieno di una malinconia luminosa, eppure impetuoso. Come quando piangi per qualcuno e lasci una pozza di lacrime sul tuo cuscino. Fragile e impulsivo. Come me. Come tante altre stelle non altrettanto grandi, anche loro destinate a spegnersi. Come l’insegna del Big Star. (Franco Dimauro)

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