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(Ri)visti in TV: Fa’ la cosa giusta di Spike Lee (1989)


Il political rap di “Fight the power” dei Public Enemy accompagna la danza frenetica di una ragazza portoricana ripresa con altrettanta sincopata velocità dinanzi ad alcune abitazioni a schiera e, alternativamente, nell’oscuro vicolo “graffittato” di un ghetto indossando guantoni da boxe. Nella scena successiva lo speaker-dj Mister Señor Love Daddy augura il buongiorno a tutti gli ascoltatori della We-Love Radio. È piena estate, le temperature superano i 40 gradi, e la macchina da presa s’intrufola nelle modeste dimore del quartiere newyorkese di Bedford-Stuyvesant per spostarsi con molta rapidità nelle sue strade illustrando allo spettatore l’umanità che la popola. La narrazione frammentata ed il fulmineo montaggio delle inquadrature a tratteggiare schizzi repentini sui personaggi – contorni caratteriali secchi, duri ma efficaci – evidenziano l’equilibrio precario su cui poggia la convivenza tra i neri e gli italoamericani (entrambe storicamente minoranze etniche). Emblematico microcosmo in tal senso è la pizzeria del bianco Sal (Salvatore) con i suoi due figli (il razzista Pino ed il riservato Vito) alle cui dipendenze si trova l’intraprendente fattorino nero Mookie (il fidanzato della ballerina Tina della scena iniziale). Tutto scorre rapidamente all’insegna della sfibrante canicola: alcuni vecchi parlottano e commentano la vita del quartiere riparandosi dal sole all’ombra di un muro. Radio Raheem (un gigantesco ragazzo di colore) gira per le strade con un voluminoso apparecchio stereo sulle spalle assordando chiunque gli capiti a tiro. Un tipo litiga in pizzeria con Sal ed i suoi figli intimandogli di appendere alle pareti su cui fanno bella mostra fotografie di celebri italoamericani anche immagini di altrettanti neri famosi. Un gruppo di ragazzi manomette la bocca antincendi per rinfrescarsi ma allaga le strade e l’automobile di un uomo di passaggio. Pino, il figlio di Sal, esce dalla pizzeria e distrugge l’apparecchio di Radio Raheem, infastidito dal frastuono. Scoppia una rissa e la situazione, già delicata, degenera inevitabilmente: la polizia, infatti, interviene brutalmente ed uccide il ragazzo strozzandolo con un manganello. Il fattorino Mookie, esasperato dalla violenza delle forze dell’ordine e dall’arroganza dei suoi datori di lavori, lancia un bidone della spazzatura contro la vetrina della pizzeria scatenando una piccola rivolta popolare che culmina con l’incendio del locale. Nonostante il gesto compiuto, il mattino successivo Mookie si reca da Sal per ritirare, comunque, la paga e ne riceve 500 dollari, sbattutigli in faccia con disprezzo. Nel frattempo, una terza etnia, quella coreana, sta popolando Bedford-Stuyvesant disseminando il quartiere di nuovi esercizi commerciali. “Fa’ la cosa giusta” è il quarto lungometraggio di Spike Lee: un sasso scagliato alla fine degli anni ‘80 del novecento sul rassicurante conformismo del cinema americano con cui il suo autore si distacca dalla produzione precedente (del tutto diversa) immergendosi a testa bassa nell’analisi del variegato tessuto razziale statunitense. “Lola darling” del 1986, premiato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes, ne aveva rivelato il talento: una deliziosa commedia in bianco e nero che metteva in scena, attraverso l’inconsueto punto di vista femminile dell’interprete, l’imprevedibilità dei sentimenti ed il peso che i ruoli sociali hanno nella loro manifestazione pubblica. Il successivo “Aule turbolente” del 1988 era un sofisticato “pastiche” che mescolava gli stilemi del musical e del teen movie per rappresentare le contraddizioni della popolazione afroamericana del tutto assimilabile, per il suo autore, nei pregiudizi a quella dei bianchi. Con “Fa’ la cosa giustaSpike Lee si sbarazza dell’etichetta di “Woody Allen di colore” frettolosamente cucitagli addosso dalla critica più pigra squarciando il velo del politically correct con cui vengono da sempre trattati i temi razziali sul piccolo schermo. Le raffinate schermaglie amorose di “Lola darling” e le vitali contrapposizioni giovanilistiche di “Aule turbolente” sembrano lontane anni luce: in quest’opera il regista concentra tutta la rabbia ed il malessere delle minoranze sociali rimossi per troppo tempo dalla rassicurante iconografia mediatica degli anni ’80 (quando con una falsa rappresentazione veniva fatto credere che l’occidente fosse entrato in una nuova età dell’oro) e, al contrario, acuiti dalle politiche neoliberiste reaganiane che avevano determinato una sorta di darwinismo economico in cui ci fosse posto soltanto per la competizione più sfrenata, dove la solidarietà sociale non avesse più diritto di cittadinanza. L’insofferenza ed i pregiudizi che le due minoranze etniche manifestano e che, inevitabilmente, sfociano nella violenza urbana, sono i frutti avvelenati, pertanto, non solo dell’ignoranza culturale e della convivenza forzata (della ghettizzazione, sarebbe più giusto dire) ma anche dell’impoverimento economico, delle limitate risorse disponibili, della progressiva marginalizzazione che ciascun gruppo attribuisce erroneamente all’altro in un’estenuate lotta tra poveri. L’autore (qui anche attore insieme ad un gruppo di straordinari interpreti: Danny Aiello e John Turturro tra gli altri) esibisce un senso del ritmo narrativo che sembra ispirato alla musica jazz per il suo disordinato flusso sincopato e (apparentemente) improvvisato ed un uso disinvolto del linguaggio iper-realista preso in prestito dalla cultura da strada dell’hip hop che acuiscono la realistica drammaticità del film. L’anticonformismo visivo di Spike Lee trova in “Fa’ la cosa giusta” la sua massima espressione rivelandone l’eccelsa capacità stilistica con frequenti rimandi al cinema indipendente americano del dopoguerra e alla nouvelle vague: il regista si serve, infatti, in maniera originale di inquadrature inclinate, di riprese dal basso e dell’overlapping editing, una tecnica di montaggio formale che consiste nel ripetere la parte conclusiva dell’azione rappresentata in un piano all’inizio del piano successivo. La fotografia satura nei colori e, non di rado, sporca restituisce benissimo l’immagine di una città soffocata dal caldo e dall’immondizia (metafora dei pregiudizi opprimenti) e l’alternarsi dell’insistito grandangolo con le sopracitate angolazioni dal basso comunicano allo spettatore l’angoscia che permea l’intera vicenda e che finisce per contaminare ogni personaggio. Sono passati più di duecento anni dalla fondazione degli Stati uniti d’America, con il “Civil Rights Act” del 1964 sono state abolite le disparità razziali ma nella sedicente patria della democrazia, sembra dirci Spike Lee, siamo ben lontani da una serena convivenza: mancano i gesti di buona volontà e qualcuno che sappia fare “davvero” la cosa giusta. A quasi venticinque anni di realizzazione del film, nonostante qualche passo avanti e, soprattutto, dopo la sorprendente elezione (e rielezione) del primo Presidente di colore della storia degli USA, il problema dell’integrazione razziale rimane, infatti, ancora molto lontano da una soluzione definitiva e, per certi versi, sembra acuito (negli Stati Uniti come in qualsiasi altra parte del mondo) dall’ingravescente crisi finanziaria e da una globalizzazione economica che ha come unico scopo il profitto e che sul suo altare sacrifica i problemi delle classi sociali più deboli. (Nicola Pice)


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