Speciale Lucio Battisti di Luigi Lozzi (2011)

Riproponiamo questo speciale su Lucio Battisti del nostro collaboratore Luigi Lozzi uscito sul PDF di Musicletter.it nel 2011.

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Riproponiamo questo speciale su Lucio Battisti del nostro collaboratore Luigi Lozzi uscito sul PDF di Musicletter.it nel 2011. Buona lettura. (La redazione)

DUE O TRE COSE CHE DICO DI LUI, DI LUCIO BATTISTI!

“…alzo il mio bicchiere rosso e brindo a te!…” (da “La mia canzone per Maria”)

Sono passati quasi tredici anni dalla scomparsa di Lucio Battisti, un’icona della musica italiana, quel 9 settembre 1998, e il dibattito per circoscrivere ancora meglio la grandezza di questo straordinario artista è tuttora aperto. Ovvio che, in primis, Lucio è prepotentemente entrato nella memoria collettiva del nostro paese come pochi altri ‘grandi’ sono riusciti a fare, sia sull’onda dell’emozione che la sua prematura morte ha suscitato che per il corpo di canzoni che ci ha lasciato, da quando la sua stella è sbocciata nel firmamento musicale alla metà dei Sessanta, e che ha accompagnato la crescita (e l’educazione) sentimentale di tanti con canzoni entrate nel codice genetico di almeno tre generazioni di appassionati.

“… Senza te, io senza te / solo continuerò e dormirò / mi sveglierò, camminerò / lavorerò, qualche cosa farò / qualche cosa farò, si, qualche cosa farò / qualche cosa di sicuro io farò: piangerò / si, io piangerò …” (da “Io vivrò senza te”)

Ma non bisogna dimenticare che Battisti – ed è l’aspetto che ci interessa più da vicino – è stato personaggio di tale peso sui destini della musica popolare italiana che continua ad essere oggetto di ‘rilettura’ da parte della critica in un continuo susseguirsi di reinterpretazioni e valutazioni. Non tutti ne hanno compreso la qualità, molti cavalcarono il commiato speculativo dei ‘Media’ sull’onda emozionale, qualcun’altro si espresse al riguardo con malcelata acredine. Ad esempio si registrò il commento stizzito e insofferente di Giorgio Bocca – ‘Battisti, antropologicamente figlio di una generazione sfortunata!’; non doveva egli essere un gran consumatore di Musica, mi venne da pensare! -, pochi in realtà interessati esclusivamente alla componente ‘Musica’ che pure era prioritaria. Formalmente non voglio unirmi al coro nostalgico emozionale e neanche è mia intenzione beatificare e il personaggio e tantomeno l’uomo che, come ogni mortale, non è stato esente da difetti. Ma è sicuramente significativo constatare che della sua esperienza artistica siamo stati tutti partecipi in misura e con modalità diverse, assecondando livelli di lettura che sono stati spesso lo specchio del sentire comune, ma anche di differenti percorsi di fruizione.

“… Quella sera ballavi insieme a me / e ti stringevi a me / all’improvviso, mi hai chiesto lui chi è / lui chi è / un sorriso, e ho visto la mia fine sul tuo viso / il nostro amor dissolversi nel vento / ricordo, sono morto in un momento…” (da “Mi ritorni in mente”)

Battisti – nato a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, il 5 marzo del ’43 – è stato la più alta espressione artistica della musica popolare italiana, grazie a lui la canzone italiana si è definitivamente sprovincializzata, allineandosi a standard anglosassoni mai raggiunti in precedenza, procedendo a una originalissima sintesi tra la musica anglo-americana e la naturale vena melodica del nostro Paese. Perfino il beat italiano grazie a lui si è emancipato; basterebbe riascoltare “29 settembre” dell’Equipe 84 per accorgersi quanto avanti si fosse spinto nella scrittura musicale Lucio fin dagli inizi di carriera. Della sua genialità sono rimaste tracce di performance televisive (a cavallo tra i Sessanta e i Settanta) che continuano ad essere riproposte in TV a piè sospinto. Nessuno come lui ha saputo coniugare il disimpegno musicale d’alto profilo con l’aspetto contenutistico di un linguaggio per molti versi rivoluzionario. C’è stato il tempo delle ‘emozioni’ e quello della memoria collettiva, il momento del ‘fiore in bocca’ e quello del ‘cieli immensi e immenso amore’, gli ‘occhi azzurri’ e le ‘bionde trecce’, le ‘discese ardite’ e i ‘cieli immensi’, il tutto non disgiunto dall’approccio istintuale che un musicista autodidatta ha avuto con la materia che ha mostrato di conoscere a menadito. C’era comunque in ballo un genio melodico fuori dal comune, dotato della straordinaria capacità di sfornare idee sempre nuove e sempre folgoranti.

“… e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte / per vedere / se poi è tanto difficile morire…” (da “Emozioni”)

L’eccezionalità del compositore, la sua trasversalità, risiede nell’enorme capacità di scrittura musicale, ogni volta figlia di una ispirazione certamente non indotta da alcun modello; sì, è vero (sono sue dichiarazioni), che egli prediligesse Sam & Dave, Ray Charles, Otis Redding, Donovan, Beatles, Led Zeppelin, ma è indubbio che il suo lavoro si è caratterizzato per una cifra stilistica personalissima. Una voce ’sporca’ la sua? Certo, ma anche l’unica che potesse dare ‘un’anima’ alle sue canzoni. E volete un’altra chiave di lettura della sua opera? Quell’anticipazione di musica ‘progressive’, nutrita dei dettami dell’improvvisazione, all’inizio dei Settanta e formativa esperienza di lavoro per gli allora prossimi componenti della Premiata Forneria Marconi, compagni di tante session, e culminata nel più che sottovalutato “Amore e non amore”.

“… Motocicletta / dieci HP / tutta cromata / è tua se dici sì / mi costa una vita / per niente la darei / ma ho il cuore malato / e so che guarirei…” (da “Il tempo di morire”)

Possedeva il dono di pochi artisti (Beatles, Elton John) di riuscire ad universalizzare trame musicali costruite su accordi assai semplici. La sua non è musica dotta, ma in fondo neanche quella dei Beatles lo è stata. Fervida creatività ed intuizioni geniali hanno caratterizzato il periodo iniziale della sua carriera (sotto contratto per la Ricordi), durante il quale è riuscito a sfornare canzoni, per se e per gli altri (Equipe 84, Ribelli, Dik Dik, Ricky Maiocchi, Paul Anka) ad un ritmo vertiginoso. Le canzoni composte all’epoca sono state singoli episodi, tasselli di un puzzle, splendidi singoli, straordinari ‘hit’, concepiti da un talento di gran lunga in anticipo sui tempi correnti e che hanno conquistato l’immediato consenso generale. Nel 1971 Lucio è un divo, le sue canzoni scalano incessantemente e senza soluzione di continuità le vette dell’Hit Parade. È il periodo con la Numero Uno, inaugurato come meglio non si poteva dalla soave levità de “La canzone del sole”, il frutto rigoglioso di una maturità artistica consapevole, di una padronanza pressoché assoluta della sala di registrazione, conseguita con un rigoroso lavoro di partecipazione ad ogni fase della realizzazione di un disco proprio ed altrui, e all’insegna di una curiosità per la ricerca e la sperimentazione senza eguali nel panorama italiano; e da quel momento in poi egli ha realizzato, si può dire, ‘concept’ album (più che canzoni) per sé ed ha proseguito nello scrivere copiosamente per gli altri (Mina, Lauzi, Pappalardo, Pravo, Formula 3) ma in maniera sempre più sofisticata. I numeri stanno lì ad indicarlo: 150 canzoni scritte, 88 volte al #1 delle classifiche con un 45 giri, 12 album arrivati al primo posto (23 settimane per “Il mio canto libero”) per complessive 135 volte.

“… e la cantina buia dove noi / respiravamo piano / e le tue corse, l’eco dei tuoi no, oh no / mi stai facendo paura. / Dove sei stata cos’hai fatto mai? / Una donna, donna dimmi / cosa vuol dir sono una donna ormai…” (da “La Canzone del Sole”)

Così continuando a mietere successi anche quando ha proposto cose più ‘ardite’, quando ha prevalso la volontà di rinnovarsi, ma trovando sempre il suo pubblico capace di percepirne la novità. Poi una terza fase in cui lo sperimentalismo ha subito una vertiginosa accelerazione, proiettandosi anni luce (in termini musicali) in avanti; e solo allora la cosa ha iniziato a creare perplessità e qualche dubbio nei fan abituali. Non in quelli più lucidi e motivati. Per capire basterebbe citare il valore intrinseco, e forse solo oggi compreso, di “Don Giovanni” del 1986.

“… Come può uno scoglio / arginare il mare / anche se non voglio / torno già a volare / Le distese azzurre / e le verdi terre / Le discese ardite / e le risalite / su nel cielo aperto / e poi giù il deserto / e poi ancora in alto / con un grande salto…” (da “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…”)

«Non lo considero nemmeno cantante, ma uno che ti apre l’anima, come Jacques Brel. Non si può rimanere indifferenti alla sua musica, al suo modo di cantare: ti arriva dentro come una spada. Lui era un outsider, lontano dai consumi e dai gusti obbligati: ti può piacere o no, ma in te fa sempre centro. Ci siamo passati tutti per quei momenti di sconforto e d’incanto che lui sa evocare in modo apparentemente tanto semplice: ma chi di noi saprebbe dirli e cantarli così? Tutte le volte che interpreto La collina dei ciliegi, Penso a te e, soprattutto, Amor mio (che era stata scritta per Mina), non so resistere all’emozione. E’ la prima volta che mi lascio prendere tutta, dallo stomaco alla testa». (Sabrina Salerno)
E qualcun altro: «Chiunque si riconosce in una sua canzone, perché sa andare al cuore del quotidiano, nascosto sotto le banalità».

“… E siccome è facile incontrarsi anche in una grande città / e tu sai che io potrei purtroppo non esser più solo / cerca di evitare tutti i posti che frequento e che conosci anche tu / nasce l’esigenza di sfuggirsi per non ferirsi di più…” (da “Prendila così”)

Un percorso musicale esemplare, il suo, sul quale si innestano due fondamentali scelte: quella di isolarsi dal mondo – “non la mia immagine, ma le mie canzoni devono parlare per me!” – e quella del divorzio artistico da Mogol, con il quale Lucio aveva instaurato un rapporto di simbiotica integrazione artistica. La prima scelta è di quelle coraggiose, da rispettare non da criticare, da prendere a modello e non da demonizzare. Lucio decide di eclissarsi dalla luce dei riflettori, e piano piano il pubblico si rende conto che è una scelta irrevocabile, che egli non intende più comparire né in televisione né tantomeno in pubblico. Quanti sarebbero capaci, nel mondo dello spettacolo in genere, di rinunciare, nel momento del massimo successo, al calore ed alla gratificazione del proprio pubblico ed al contempo non sentirsi smarriti? Nessuno credo; solo Mina forse! La seconda delle scelte – dolorosa per tutti coloro che, del successo di Battisti, hanno assegnato il 50% del merito ai testi di Mogol – è diretta derivazione della volontà di estremizzare la ricerca e la sperimentazione musicale, di quel desiderio di destrutturalizzare la melodia tradizionale per ricomporla attraverso logiche imperscrutabili ai più, e che poteva essere supportata solo da testi altrettanto anticonvenzionali e privi di lirismo; quelli che poteva garantirgli il poeta Pasquale Panella.

“… E l’immensità / si apre intorno a noi / al di là del limite degli occhi tuoi / Nasce il sentimento / nasce in mezzo al pianto / e s’innalza altissimo e va / e vola sulle accuse della gente / a tutti i suoi retaggi indifferente / sorretto da un anelito d’amore / di vero amore…” (da “Il mio canto libero”)

Si diceva dell’importanza della collaborazione con Mogol: i suoi testi sono stati quanto di più aderente alla poetica musicale di Battisti, e viceversa lo è stato la musica di Lucio per le sue liriche. Ma per la svolta fortemente voluta da Lucio il suo sacrificio è stato inevitabile. E peccato che il passo falso procurato da “Images” – il disco inglese di Lucio, appesantito da arrangiamenti eccessivamente ridondanti – abbia privato il pubblico internazionale della possibilità di scoprirne il genio compositivo. Il mio invito è quello di riappropriarvi dei brani meno logorati dalla memoria collettiva come ad esempio “L’aquila”, “Prigioniero del mondo”, “La luce dell’Est”, “nel sole, nel vento, nel sorriso, nel pianto”, “Vendo casa”, “Comunque bella”, “Anche per te” o tante altre ancora; a me accade – non so a voi – di provare un certo senso di fastidio quando un brano, pur bello, comincia a martellarmi nella testa a mò di filastrocca, sia esso “Let It Be” o “Emozioni”. I suoi dischi migliori a mio parere? “Don Giovanni” su tutti, l’album d’esordio, semplicemente “Lucio Battisti”, e “Il mio canto libero”. Battisti ha vissuto da protagonista tutte le stagioni musicali che ha attraversato mantenendo alto il livello della propria creatività, senza adagiarsi sui successi conseguiti, cercando sempre di rinnovarsi, di tentare nuove strade, anche a costo di scontrarsi con il gusto del pubblico. L’aura mitica intorno alla sua figura prodotta dal volontario esilio, oggi che egli non c’è più, ci fa sentire improvvisamente tutti orfani di qualcosa di irripetibile.

“… E come stai? Domanda inutile / Stai come me e ci scappa da ridere. / Amore mio ha già mangiato o no / Ho fame anch’io e non soltanto di te / Che bella sei sembri più giovane / Forse sei solo più simpatica / Oh lo so cosa tu vuoi sapere…/ Nessuna no ho solo ripreso a fumare… / Sei ancora tu purtroppo l’unica / Ancora tu l’incorreggibile…” (da “Ancora tu”)

I 3-dischi-3 di Lucio Battisti irrinunciabili:

LUCIO BATTISTI
Lucio Battisti
Ricordi/BMG/Sony Music

Che esordio quello di Lucio Battisti! Quando nel 1969 Lucio, su sollecitazione dei suoi più stretti collaboratori, decise di incidere il suo primo album solista egli era già un autore apprezzato che aveva sfornato ‘hit’ per cantanti e gruppi già affermati. La successione dei 12 brani ha un ché di straordinario: tutte insieme alcune delle più apprezzabili pagine della nostra musica popolare. Equamente suddivisi tra i 6 brani pubblicati sui singoli usciti fino a quel momento col sostegno fattivo della casa discografica (due altri 45 giri erano stati trascurati) – con ‘B-Side’ come “Prigioniero del mondo” , “Io vivrò (senza te)”, “Non è Francesca “, che è difficile considerare inferiori alle ‘A-Side’ – e 6 cover di brani scritti dal suo pugno ed affidate ad altri (“29 settembre” e “Ne cuore, nell’anima” per l’Equipe 84, “Uno in più” per Maiocchi, “Per una lira” e “Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto” per i Ribelli, “Il vento” per i Dik Dik). Il disco, nel bene e nel male, segna l’inizio di una nuova era per la canzone italiana, tanto dal punto di vista strettamente artistico quanto dal punto di vista commerciale.

LUCIO BATTISTI
Il mio canto libero
Numero Uno/BMG/Sony Music

“Il mio canto libero”, una pietra miliare datata 1972, allarga di molto gli orizzonti della collaudata canzone battistiana sia sotto il profilo musicale che sotto quello lirico e tematico, e si rivela uno dei lavori-cardine della carriera dell’artista, il disco in cui la coppia Battisti-Mogol raggiunge una simbiosi perfetta e un’unità di intenti ragguardevole. Ma è anche un vero e proprio punto di svolta nell’evoluzione della canzone moderna. È un disco musicalmente complesso (ed anche e soprattutto sperimentale) nonostante l’enorme popolarità conseguita, condito di una ricchezza musicale (negli arrangiamenti: voglio ricordarvi il magnifico giro di archi nella malinconica prima traccia dell’album) che solo Battisti è riuscito a conferire alla musica leggera italiana, un album di cui si incensano – a ragione – le qualità di brani come “Il Mio Canto Libero”, “La Luce dell’Est” e “Io Vorrei…Non Vorrei…Ma Se Vuoi…” e si dimentica troppo spesso il valore assoluto di pezzi mirabili quali “Vento Nel Vento“ e “L’aquila”, o significativi quali “Confusione“, “Luci-ah” e “Gente Per Bene e Gente Per Male”.

LUCIO BATTISTI
Don Giovanni
Sony Music

“Don Giovanni” è il capolavoro della terza fase della carriera di Lucio Battisti, il migliore fra tutti quelli caratterizzati dall’avere copertine a sfondo bianco (minimaliste nel tratto del disegno e decisamente poco sgargianti). Un disco di non immediata assimilazione, ma semplicemente prodigioso nella forma e nei contenuti. Lucio ha assimilato alla grande le nuove tecnologie elettroniche che sostengono la struttura musicale dell’album; la melodia ha qui un’architettura sofisticata e inconsueta. Nel complesso equilibrio fra sonorità elettroniche anni Ottanta (dominate dalle tastiere) e strumentazione (archi, sax) c’è il segreto della bellezza del disco. La title-track viene a ragione considerata una delle canzoni più belle dell’intero repertorio battistiano, grazie ad un andamento cadenzato da una magnifica melodia.
“Don Giovanni” ridimensiona gran parte della musica leggera degli ultimi dieci anni. Il mio voto è dieci e lode. La sua invenzione melodica è enorme. La frase musicale finisce sempre in modo sorprendente. (Michele Serra)
“Don Giovanni” è una pietra miliare. D’ora in poi dovremo tutti fare i conti con un nuovo modo di scrivere la musica. (Francesco De Gregori)

CURIOSITÀ:
– David Bowie ha messo le parole su “Io vorrei… non vorrei.. ma se vuoi” che è così diventata “Music is Lethal” nell’interpretazione di MICK RONSON sull’album del 1974 “Slaughter On 10th Avenue”.
– ” Le tre verità“, il singolo che ha chiuso l’attività discografica con la Ricordi era stato ispirato dal film “Rashomon” di Akira Kurosawa.
– Gli Hollies di Graham Nash hanno interpretato a Sanremo ‘67 “Non prego per me” in coppia con Mino Reitano.
– Cover internazionali di successi di Battisti sono state
– “If Paradise (Half as Nice)” degli AMEN CORNER (su etichetta Stateside)
– “Bella Linda” dei GRASSROOTS (su etichetta Stateside)

Lucio Battisti – Discografia

1969 Lucio Battisti (Ricordi)
1970 Emozioni (Ricordi)
1971 Amore e non Amore (Ricordi)
1972 Lucio Battisti, Vol. 4 (Ricordi)
1972 Umanamente Uomo: Il Sogno (Numero Uno)
1973 Il Mio Canto Libero (Columbia)
1973 Il Nostro Caro Angelo (Numero Uno)
1974 Anima Latina (Numero Uno)
1976 La Batteria, Il Contrabasso (Numero Uno)
1977 Io Tu Noi Tutti (Numero Uno)
1978 Images (RCA)
1978 Una Donna Per Amico (Numero Uno)
1981 Una Giornata Uggiosa (Numero Uno)
1982 E Già (Numero Uno)
1986 Don Giovanni (Numero Uno)
1988 L’Apparenza (Numero Uno)
1990 La sposa occidentale (CBS)
1992 Cosa Succedera Alla Ragazza (Columbia/Sony Music)
1994 Hegel (Numero Uno)

LUCIO BATTISTI: I LIBRI per APPROFONDIRE LA CONOSCENZA.

Per approfondire la conoscenza di una figura tanto complessa – ermetica nel suo privato tanto quanto è stato ampio l’amore del suo pubblico -, un artista per il quale, anche in senso introspettivo, è la musica a ‘parlare’, può essere utile leggere qualcuno dei numerosi libri che gli sono stati dedicati. L’aspetto più significativo è rappresentato anzitutto dal corpo della sua produzione artistica e discografica, attraverso la cui conoscenza si possono ripercorrere quegli anni rampanti ed incredibilmente creativi dell’industria discografica italiana. Niente a che vedere con la caotica approssimazione dei giorni nostri. Questo a beneficio delle generazioni più giovani di appassionati della musica di Battisti, ma anche per coloro che quegli anni li hanno vissuti e per i quali la lettura di questi libri può costituire un magnifico ‘tuffo’ nel passato. Un periodo pure caratterizzato dal 45 giri, primario veicolo per divulgare e vendere musica. Ho selezionato dieci libri che in vario modo affrontano l’arte, la personalità e la figura umana di Lucio attraverso il ‘medium’ – in alcuni casi dettagliatissimo – delle sue canzoni e dei suoi dischi, e ve li propongo.

LUCIANO CERI
Pensieri e parole: Una discografia commentata
Coniglio Editore
[Roma, 2008, 480 pag., 18,50 euro]

L’autore del libro, Luciano Ceri, è uno dei maggiori conoscitori della discografia di Lucio Battisti, uno scrupoloso e attento giornalista che anzitutto nutre una passione sconfinata per l’artista. Così in questo libro, analizzando brano per brano – scritti per altri o per se stesso e partendo dai suoi inizi quando era uno sconosciuto chitarrista -, album dopo album, comprese le raccolte, con provini e inediti, apparse successivamente alla sua morte avvenuta nel ‘98, ci racconta in modo affascinante la sua storia. Un viaggio nel tempo e nella memoria, quando il 45 giri era un serio veicolo di musica e poterne incidere uno era una grande vittoria professionale. Il libro ha diverse chiavi di lettura perché non racconta solo la storia delle canzoni scritte da Lucio, ma anche l’evoluzione della musica italiana, il suo distaccarsi dai modelli del passato e la conquista di una propria modernità. La memoria, spesso assente ai nostri giorni, è invece l’elemento portante del volume in questione, corredata dalle testimonianze di chi in quelli anni ha lavorato a stretto contatto con Battisti (cantanti, musicisti, produttori, tecnici e tanti altri). Da queste emerge la figura di un uomo riservato e schivo nel proprio privato, forse incapace di relazionarsi con gli altri al punto da apparire ‘spigoloso’ nelle sue uscite verbali. Ma assolutamente professionale sul lavoro, appassionato e motivato, ricco di inventiva e intuizioni, e di stimolo per i musicisti (spesso dotati di maggiore esperienza; pensiamo per esempio a Franco Mussida, Alberto Radius, Franz Di Cioccio, al maestro Gian Piero Reverberi, tanto per fare qualche nome) che hanno avuto la fortuna di suonare con lui. Nessun lascito al prossimo può essere più significativo del corpo straordinario del suo ‘canzoniere’: popolare e acclamato negli anni della collaborazione con Mogol, sorprendente e geniale, e più difficile da assimilare, la produzione con il poeta Pasquale Panella. Il libro riproduce le copertine di tutti i dischi in cui ci sia lo zampino di Battisti e offre in chiusura una interessante appendice con l’elenco delle incisioni in altre lingue, una videografia e una bibliografia aggiornate, l’elenco delle registrazioni inedite e delle numerosissime versioni, che sono state proposte nel corso degli anni da artisti italiani e stranieri, che rende il tutto ancora più appetibile.

PINO CASAMASSIMA
Lucio Battisti: Il mio canto libero
De Ferrari Editore
[Genova, 2002, 300 pag., 16,00 euro]

Dalla Prefazione di Pietruccio Montalbetti (Dik Dik): “Lucio se n’è andato troppo presto per tutti, e soprattutto per me, che gli sono stato amico per una vita. Certo, ci sono state anche le incomprensioni, non è stato sempre tutto rose e fiori, ma in quale rapporto autentico non è così? Il suo ricordo è per me ancora forte, quasi prepotente nella mia memoria, che lo pensa per immagini, com’erano le sue canzoni: brani che ancora oggi, a distanza trentennale dalla loro nascita, regalano alla gente emozioni e suggestioni ineguagliabili, come posso testimoniare per tutte le volte che vengono proposte nei concerti dei Dik Dik. Ma il mio rapporto con Lucio non è stato solo professionale: sembra ancora ieri quando, poco più che ventenni entrambi, mangiavamo una pastasciutta preparata da mia madre. I ricordi sono tanti, e mettermi a scrivere questa prefazione per Pino, che me l’ha chiesta per il suo libro su Lucio, significa farli emergere nella loro enorme quantità: si affollano nella mia mente, ed io mi trovo in difficoltà nel doverne scegliere alcuni scartandone altri cento, altrettanto significativi. Per questo, ricorderò Lucio soprattutto per le sue caratteristiche essenziali. Fra esse, prima fra tutte, la grande coerenza, che gli derivava da quello spirito contadino che non ammette sotterfugi né compromessi. Un’altra sua prerogativa era la determinazione con la quale affrontava ogni novità, sia che si trovasse in sala d’incisione, sia su una spiaggia in vacanza. Come, ad esempio, quando decise di praticare lo jogging: il suo entusiasmo era travolgente, tanto che mi ritrovai anch’io a correre come un matto con lui, con la differenza che Lucio si documentò in modo quasi maniacale, svolgendo poi quell’attività con impegno, vale a dire nell’unico modo in cui concepiva qualsiasi attività. Ciò vale anche per i cavalli e il surf: quest’ultima pratica sportiva lo coinvolse fino a farlo volare in California.
E questo esempio mi consente di sfatare un altro luogo comune che lo riguarda: il fatto cioè che fosse tirchio. Lucio non era avaro, ma aveva, sempre per quella cultura, quella formazione contadina citata, un sano rispetto per il denaro: odiava l’ostentazione della ricchezza, pur essendo ricco, così come non sopportava alcun tipo di esibizionismo. Era riservato, risultando scostante per chi non lo conosceva bene: per questo sono nate tante frottole su di lui. Magari aveva altri difetti, ma non questi. Difetti ne aveva, eccome: tanto per dirne una, credeva d’essere un pittore; amava l’astrattismo, era attratto dai colori, dalla loro potenza, ma pittore non lo era affatto. Era, invece un grande musicista. Per me, anche un grande amico”.

DONATO ZOPPO
Amore, Libertà e Censura: Il 1971 di Lucio Battisti
Aereostella Editore
[Milano, 2011, 3280 pag., 22,00 euro]

“Amore e non amore”, pubblicato nel luglio del 1971, fu il suo primo ‘autentico’ album di Lucio Battisti – dopo le raccolte “Lucio Battisti” e “Emozioni” –, un ‘concept-album’ ed un disco rivoluzionario, di straordinaria apertura ‘Progressive’, composto da quattro singolari brani rock-blues (registrati dal vivo in studio), quattro strumentali con l’orchestra diretta dallo stesso Battisti e i lunghissimi titoli di Mogol; in copertina una misteriosa donna nuda… Il libro racconta la genesi di quell’album sottovalutato e trascurato, la reazione del pubblico e della critica, e la censura cui venne sottoposto il brano “Dio mio no”. Il disco è stato osteggiato per tanti motivi, anzitutto per i conflitti con la Ricordi e il conseguente ritardo nella pubblicazione (doveva essere il secondo di Battisti, ma si scelse di far uscire prima l’antologia “Emozioni”), e poi le reazioni del pubblico e della critica fino alla censura da parte della Commissione d’ascolto della Rai, che decise di bocciare il brano “Dio mio no”, singolo che descriveva, in modo troppo esplicito per l’epoca, una donna sessualmente disinibita. Grazie alle testimonianze inedite dei musicisti che presero parte alle registrazioni (Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Alberto Radius, Dario Baldan Bembo etc.) si affrontano le caratteristiche del disco: l’anno della definitiva rottura con la stampa, di rivoluzionarie partecipazioni in tivù, di “Pensieri e parole” e “La canzone del sole”, canzoni controcorrente ma dall’enorme successo commerciale, ma anche della ‘cult-song’ “Le tre verità”, ispirata a “Rashomon” di Kurosawa ed amatissima dai cultori del rock progressivo. Poiché, in quel 1971, prendeva vita il movimento Progressive in Italia e si tenevano a battesimo le opere prime di gruppi come Orme, Osanna, Delirium e tanti altri.

ENRICO CASARINI
Insieme Mina Battisti – 1972: il duetto a Teatro 10 e la fine del sogno italiano
Coniglio Editore
[Roma, 2009, 368 pag., 14,50 euro]

La sera del 23 aprile 1972 i più grandi si incontrano, cantano, emozionano. Un duetto che segnò il tramonto di un’epoca, tutto da raccontare…
Mina: “Senti Lucio, volevo dire una cosa. Tu, di solito, canti le tue canzoni, cioè: canti soltanto quelle, proprio. Io mooolto spesso canto le tue canzoni. Cosa dici: per una volta le cantiamo insieme queste canzoni?”.
Battisti: “Bè, io sarei anche d’accordo…”.
Mina: “Eh!?! Grazie”.
Battisti: “No anzi, sono d’accordo, perché, tra l’altro, mi hanno accompagnato cinque amici da Milano…”.
Mina: “Apposta”.
Battisti: “Proprio per questa cosa qui…”.
Mina: “Bene”.
E’ la sera del 23 aprile 1972 e una piccola parte di mondo sta assistendo ad un evento memorabile, unico, irripetibile. Sul palco di Teatro 10 (lo show televisivo del sabato sera, diretto da Antonello Falqui, più in voga in quegli anni) per la prima ed ultima volta insieme due mostri della musica leggera italiana, i più grandi: Mina e Lucio Battisti. Questa sera il programma va in onda di domenica, in diretta televisiva. Mina e Alberto Lupo, uno dei superdivi della televisione, presentano un ospite speciale. Quando Mina e Battisti iniziano a cantare l’orchestra tace, le luci si spengono. Finita l’esibizione (“Insieme”, “Mi ritorni in mente”, “Il tempo di morire”, “E penso a te”, “Io e te da soli”, “Eppur mi son scordato di te”, “Emozioni”) inizia il lunghissimo applauso del pubblico, interminabile. Dopo silenzio. Mina e Battisti non solo non canteranno mai più insieme, ma lasceranno definitivamente lo show business. Mina ancora oggi ci regala la sua musica, cosa che fece anche Battisti fino alla sua prematura morte nel settembre del 1998. Ma sul palco di Teatro 10 quella domenica sera non ci sono solamente il re e la regina della canzone leggera italiana: Battisti infatti parla di cinque amici che lo hanno accompagnato da Milano.
Enrico Casarini ha scritto questo libro per raccontare tutto quello che avvenne in preparazione di quella serata – la sera che cambiò, secondo alcuni, l’Italia, la televisione, lo spettacolo – e quello che accadde subito dopo, con l’abbandono delle scene dei due protagonisti.

RENATO MARENGO
Lucio Battisti: La vera storia dell’intervista esclusiva
Coniglio Editore
[Roma, 2010, 176 pag., 14,50 euro]

Lucio Battisti è uno dei più conosciuti e famosi cantautori italiani che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ma è anche uno degli artisti che ha rilasciato meno interviste in tutta la sua carriera. Anzi per dire la verità Lucio Battisti ha rilasciato alla stampa italiana una sola intervista uscita sul settimanale musicale “Ciao 2001?. Per quell’occasione il giornale arrivò a vendere oltre 400.000 copie. “Un musicista, se la propria musica comunica ed emoziona realmente, non ha nulla da spiegare e null’altro da aggiungere a quello che si ascolta nei suoi LP”, questo l’atteggiamento di Lucio Battisti nei confronti delle interviste. Fu l’unica, o per lo meno la più esaustiva intervista da lui mai rilasciata, in seguito alla quale il cantautore di Poggio Bustone, a parte un’intervista per la TV svizzera e una per la radio, non rilasciò più dichiarazioni alla stampa. Questo libro è il racconto di quell’intervista, di come un giornalista sia riuscito a spaccare il muro di silenzio in cui Lucio Battisti si era ostinato a vivere. È il 1974 e Renato Marengo, noto giornalista, riesce a trascorrere ben cinque giorni nel “Mulino”, la casa discografica in cui hanno visto la luce i brani raccolti nell’album “Anima latina”. In quei cinque giorni Renato Marengo riesce a parlare con Lucio Battisti soprattutto di musica insieme ad altri testimoni come Claudio Bonivento, Toni Esposito, Cesare Montalbetti, Claudio Pascoli, Alberto Radius, Dario Salvatori. Un libro che può essere considerato un vero e proprio documento storico. Ricco di aneddoti e verità anche scomode, contiene per la prima volta le dichiarazioni dirette di Lucio Battisti sulla sua musica, sul suo cambiamento umano e musicale. Il volume è preceduto da un lungo saggio del musicologo Gianfranco Salvatore, uno dei massimi studiosi di Lucio Battisti, che scompone e ricompone i 9 brani di Anima latina, il disco che rappresentò una mutazione e una maturazione nel suo stile oltreché una svolta nel modo di fare musica in Italia.

UMBERTO PIANCATELLI
La vera storia di Lucio Battisti
Barbera Editore
[Siena, 2008, 298 pag., 15,00 euro]

Libro che racconta il genio e la vita privata di Lucio Battisti. Il volume racconta un Battisti inedito, gli amori vissuti lontano dai riflettori, la sua passione per la pittura, ma anche l’amore per il figlio Luca, che sembra Battisti avesse sempre desiderato veder diventare un cantante. Introduzione affidata a una “Lettera di Mina all’amico Lucio”, che la cantante scrisse all’indomani della sua scomparsa..
“Caro Lucio. Questa è una lettera che volevo scriverti da tanto, tanto tempo. Ogni volta che sentivo un tuo pezzo, ogni volta che qualcuno, per strada, fischiettava qualcosa di tuo mi veniva voglia di mettermi in contatto con te, ma ho preferito rispettare (figurati se proprio io non lo dovevo fare…) il tuo desiderio di essere lasciato in pace. E forse ho fatto male, sai? Perché adesso non so come fare per restituirti, almeno in parte, la gioia, la tenerezza, il senso di invincibilità, la coscienza di fare qualcosa di perfetto che mi dava il cantare i tuoi pezzi. Erano come il più inattaccabile meccanismo, come l’arma più efficace, come una corazza lucentissima, come una seconda pelle ancora più aderente della prima. Erano costruiti con quell’apparente semplicità, con quel naturale delizioso totale mood cosmico, che fa pensare alla fluidità di Puccini, al prezioso andamento di certi canti gospel. Insieme così piantati nella tradizione della canzonetta italiana da far cantare i garzoni mentre vanno in bicicletta a consegnare il pane, i bambini e tutte le madri d’Italia, mentre preparano il pranzo per i propri cari. Che talento straordinario, che dono raro quello di essere capiti da tutti e da tutti essere amati proprio per quello che realmente si è. Sei stato il più grande nel realizzare il miracolo che ci fa sentire tutti i figli della stessa materia, che ci fa cantare tutti insieme con le lacrime agli occhi. In questi giorni ho dovuto assistere a qualche intervento sgradevole e a tanti, tantissimi omaggi commossi e sinceri. Voglio ricordarmi soltanto questi. Voglio ricordarmi gli occhi lucidi di ragazzi giovanissimi e di uomini e donne anche più che adulti. Voglio ricordarmi come i tuoi, che Dio li benedica, ti hanno difeso con la forza dell’amore da tutto il caravanserraglio massmediatico. Voglio ricordarmi quei piccoli mazzolini di fiori, quei bigliettini che ti hanno portato, anche loro, credo, per cercare di restituirti un pochino di quello che tu hai dato a tutti noi. Sai, avevo un sogno. Una pazzia. Insieme con Moreno, un giovane corista molto bravo che tu non hai conosciuto, ma che ti ama almeno quanto me, avevamo deciso che se tu mai avessi fatto di nuovo un concerto, saremmo venuti a farti il coro. Per il grande piacere di stare dietro di te e cantare insieme a te quelli che sono i nostri perfettissimi, storici, splendidi, adorati pezzi di vita. E, nella nostra follia, avevamo già pensato alla scaletta, a quali pezzi fare, alla formazione dell’orchestra, persino ai vestiti. Ogni volta che ci incontravamo in sala d’incisione aggiungevamo qualche dettaglio al nostro progetto. Tutto era variabile tranne la presenza di due soli coristi: noi due, per l’appunto. Non importa. Vuol dire che la cosa è soltanto rimandata. Tua. MINA”. (Liberal 28 settembre 1998).

FRANZ DI CIOCCIO/ RICCARDO BERTONCELLI
Sulle corde di Lucio
Giunti Editore
[Firenze, 2008, 160 pag., 12,50 euro]

Nel mare magnum di libri che celebrano, ognuno a proprio modo, il decennale della scomparsa di Lucio Battisti, “Sulle corde di Lucio – Indagini battistiane” rappresenta forse quello meno sensazionalistico e più sensato. Affidato alle memorie e alle cure di Riccardo Bertoncelli e di Franz Di Cioccio, affronta l’argomento attraverso la voce di chi c’era, a partire dal batterista della PFM. Di Cioccio si rivela così un testimone eccezionale, non soltanto per la sua rilevanza nella storia della musica rock italiana, ma anche per l’innegabile capacità di cronista e storico di un’epoca oramai chiusa per sempre.
-Partiamo subito dall’adagio più comune sull’artista, la sua estrema riservatezza.
“Spesso i luoghi comuni e le voci di corridoio, lo sa, sono veri. Nel caso di Lucio, era come se tutto quello che aveva da offrire al mondo dello spettacolo si esaurisse nelle sue esibizioni, nelle uscite pubbliche, televisive. Il resto gli sembrava, probabilmente, superfluo e forse dannoso. Le “corde di Lucio” erano essenzialmente quelle della sua chitarra”.
-Non c’era quindi un Battisti segreto, più solare?
”Più che altro c’era un Battisti un po’ lunatico, capace di salutarti con calore un giorno e di non accorgersi della tua esistenza un altro. Tutt’altro che scortese o maleducato, però: semplicemente, preso dalla propria musica. Gli ho visto fare cose incredibili, con i miei occhi, per ottenere suoni particolari. Agiva in maniera solitaria, seguendo i suoi pensieri: non comunicava quasi mai, fuori dall’esecuzione di un pezzo. Lo hanno detto in molti, a lui, durante una performance o una registrazione, bisognava rivolgersi suonando o cantando”.
-Lei ha seguito da vicino l’evoluzione battistiana, suonando nei primi successi del musicista: “Mi ritorni in mente”, “Emozioni”, “La canzone del sole”. Quanto era lontano da quello che, allora, passava per la radio e ancora oggi spinge molti addetti ai lavori a dire che fu un rivoluzionario?
“La prima cosa, evidentissima, era l’interesse maniacale per i suoni, per i ritmi. Ricordo che apprezzava i miei controtempo, che faceva della parte ritmica un punto di forza. Era un perfezionista, in tempi in cui la parte armonica delle canzoni era, come minimo, tirata via. Poi, c’era questa alchimia fra lui e Mogol, Lucio si appropriava delle parole altrui e le rendeva quasi più profonde, cantandole”.
-Crede che il primo periodo della sua carriera, quello, appunto, con Mogol, sia stato il migliore?
“Mah. Di sicuro è stato il più avventuroso e il più visibile. Quello in cui le energie della giovinezza e della creatività sono state impegnate magnificamente. Il resto è stato dedicato più alla ricerca di novità, all’esplorazione, anche linguistica, della forma-canzone”.
-Il libro che ha curato, a quattro mani con Riccardo Bertoncelli, è una specie di investigazione, condotta sulle testimonianze dirette di chi ha conosciuto Lucio Battisti. Qual era lo scopo finale di una ricerca del genere? È stato raggiunto?
“L’intento, partendo dai miei stessi ricordi, era quello di restituire anche la vitalità di un personaggio magari controverso, ma dotato di un talento straordinario e indiscutibile. Invece del solito volume-panegirico abbiamo deciso, con Bertoncelli, di far parlare la memoria di molti: sono venuti fuori così non solo aneddoti divertenti, ma pure un ritratto in movimento di un artista e della musica che gli girava attorno. E lo scopo, più o meno, era questo”.
—di John Vignola—

“Dieci anni sono passati dalla morte di Lucio Battisti. Sembra ieri eppure è passato così tanto tempo. Da allora fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere il personaggio, le sue canzoni, le sue storie. Non ritenevo più possibile che potesse essere scritto qualcosa di nuovo sul cantante di Poggio Bustone. Ci sono riusciti due personaggi che hanno vissuto quegli anni al fianco di Lucio come musicista, Franz Di Cioccio o, come osservatore interessato, Riccardo Bertoncelli nel libro “Sulle corde di Lucio”. Sembrerebbe una lettura scontata. Le cose di Lucio sembrano essere come le sue canzoni. A volte riteniamo di non conoscerle ma non appena sentiamo le prime note cominciamo a canticchiarle. Come dicevo, però, i due autori hanno “indagato” nelle cose di Battisti come due veri detective. Di Cioccio/Derrick e Bertoncelli/Colombo hanno affondato il bisturi nei posti giusti. A tratti mi sono emozionato nel rileggere i nomi che in quell’epoca facevano parte del “clan” di Battisti. Amici e fedeli compagni di viaggio, tutti hanno avuto una parte importante nella storia dei magnifici due: Lucio Battisti e Mogol. E’ vero, all’inizio ero scettico sulla qualità di questo libro. La copertina che ritrae Lucio da giovane, con quell’aria tra il triste e il pensieroso non riusciva ad “acchiapparmi”. Poi, però, tutto è cambiato seppur lentamente. Sin dalle prefazioni di Di Cioccio e Bertoncelli ho cominciato ad avere un sussulto. Qualcosa si stava risvegliando in me. Erano i ricordi di tempi andati, di quel movimento beat che ancora oggi è vivo dentro quelli che, come me, hanno vissuto quella entusiasmante epoca musicale. Da lì nasce Lucio. Dai Campioni. Dalla ricerca di emergere che ieri come oggi non era cosa facile. Tutto questo si legge a chiare lettere nelle interviste che sono il punto cardine di questo bel libro. Attraverso le parole di Roby Matano, Pietruccio Montalbetti, Valter Patergnani, Alessandro Colombini, Mara Maionchi (sì, proprio lei che in gioventù ha “spinto” per la P.F.M. e che oggi è ancora sulla cresta dell’onda con artisti come Tiziano Ferro e Giusy Ferreri), Alberto Radius, Cesare Monti e Marva Jean Marrow. Scopriamo particolari che in altri testi non erano presenti. Si respira appieno l’aria di quel periodo. Del periodo Battisti-Mogol che ha lasciato tracce indelebili nei nostri cuori. Si capisce quanto l’incontro tra i due avesse creato quella stessa alchimia che contraddistingueva altri grandi firme: Holland/Dozier/Holland, Leiber/Stoller, Lennon/McCartney, Page/Plant, Elton John/Taupin, Goffin/King, tanto per citarne alcuni. Evito di soffermarmi sui particolari che più mi hanno divertito o, comunque, creato quelle emozioni che mi hanno fatto sentire tutto ad un tratto più giovane. Vorrei, però, sottolineare l’importanza degli interventi di Bertoncelli e Di Cioccio. I loro ricordi, le loro osservazioni sono il perfetto collante tra le memorie di ognuno degli intervistati. Di Cioccio ha avuto l’abilità di descrivere con dovizia di particolari e con estrema semplicità le “cronache sonore”. Racconto delle estati in cui era il “Cantagiro” a farla da padrone. Una sorta di “Giro d’Italia” della canzone nostrana. Erano gli anni della crescita musicale e della spensieratezza. Gli anni in cui Lucio Battisti e Massimo Ranieri, Caterina Caselli e Mal, i Rokes e l’Equipe 84, Dori Ghezzi e i Camaleonti si contendevano a suon di note il favore delle platee. E nelle stesse “cronache” Di Cioccio ci apre gli studi in cui all’epoca venivano registrati brani memorabili. “Il tempo di morire”, “Dio mio no”, “7 e 40?, “Insieme a te sto bene”, “Mi ritorni in mente” assumono un aspetto diverso leggendo quelle righe. Sarebbe ideale ascoltarle durante il racconto del batterista della P.F.M.). Alla fine delle “indagini” Riccardo Bertoncelli ripropone due suoi articoli scritti nel 1986, subito dopo la pubblicazione del “Don Giovanni” che vede Battisti affiancato da Pasquale Panella (solo mio omonimo…), e nel 1997, estratto dal suo libro “Paesi immaginari”. E’ solo un’appendice. Ne esce un’immagine musicale diversa. Ma questa è una storia diversa. Per quel periodo, probabilmente, le “indagini” verranno svolte da altri. Di Cioccio e Bertoncelli non hanno inserito, stranamente, alcun intervento di Mogol. Per quel che mi riguarda (sono un fan dei Rokes) avrei letto con piacere una eventuale intervista a Shel Shapiro, che con il suo gruppo ha interpretato “Io vivrò senza te” prima di Lucio Battisti e senza l’introduzione cantata dell’artista di Poggio Bustone. “Sulle corde di Lucio” risulta essere un testo gradevole, scritto con grande semplicità e passione, che farà venire la voglia, man mano che si legge, di riascoltare tutte le canzoni del periodo Battisti- Mogol”. — Pasquale Panella (solo un omonimo) —

GIANFRANCO SALVATORE
L’Arcobaleno: Storia vera di Lucio Battisti
Giunti Editore
[Firenze, 2000, 256 pag., 14,50 euro]

La prima e l’unica biografia di Lucio Battisti attinta dalle voci dei suoi amici più veri, dei collaboratori più assidui, delle persone che per oltre trent’anni gli sono state veramente vicine. È la storia di un’anima da cui sgorgavano melodie indimenticabili che rifiutò tenacemente di trasformarsi in un idolo popolare. Una storia da leggersi come un romanzo che contiene molte rivelazioni su verità finora trascurate eppure emblematiche. E non è solo di storia musicale che si parla, bensì di storia tout court del nostro Paese. “È un racconto, in parole e suoni degli ultimi quarant’anni di musica: un racconto disordinato, esagerato, magmatico, non coerente, obliquo (ubiquo), con qualche paletto storico per provare ad essere ‘oggettivi’ ma anche e soprattutto idee fuori schema, divagazioni, note, starnuti, folgorazioni. Si parla di musica, almeno quello!, ma non soltanto; si parla di vita, oh sì!, e visto l’arco temporale potrebbe essere la mia, anche se non solo. Questo per dire che c’è molto di personale nelle pagine che seguono, che la postazione non è ‘neutrale’ né il tono ‘distaccato’ […] Non sono l’unico ad aver vissuto così intensamente la musica degli ultimi quarant’anni e presumo che buona parte dei lettori di queste pagine sia complice di una tale macchinazione”. (Dall’introduzione di Gianfranco Salvatore)

CLAUDIO SABELLI FIORETTI & GIORGIO LAURO intervistano MOGOL
Il mio amico Lucio Battisti
Aliberti Editore
[Reggio Emilia, 2008, 152 pag., 18,00 euro]

Mogol, settantuno anni e smalto inossidabile, racconta aneddoti e ricordi del loro lungo sodalizio artistico, dal quale sono nati successi immortali come “Fiori rosa, fiori di pesco”, “Emozioni”, “Pensieri e parole”. Racconta il Battisti più intimo e sconosciuto, il volto familiare del ragazzo timido che calcava il palco nascondendosi dietro abiti colorati e capelli molto lunghi e molto ricci. Racconta la genesi delle canzoni e la loro analisi logica, lo struggimento e la commozione, le risate e le follie, l’edito e l’inedito. Fra i tanti testi dedicati al cantautore di Poggio Bustone, questo è il primo che registra le opinioni e i ricordi di Giulio Rapetti, in arte Mogol, il paroliere di tante indimenticabili canzoni scritte insieme a Lucio. Ci sono dunque le premesse perché il libro possa realmente raccontare «il Battisti più intimo e sconosciuto», quello inedito della vita quotidiana, e anche le dinamiche con cui sono nati tanti piccoli capolavori della musica leggera. “Il mio amico Lucio Battisti” si ripromette inoltre di pronunciare per la prima volta parole definitive su alcune questioni intorno alle quali ancora s’interrogano gli appassionati. Ad esempio: è vero che in fondo Mogol e Battisti erano davvero fascisti? E perché si sono separati nell’ultimo scorcio della carriera di quest’ultimo? Cosa accadde durante il loro famoso viaggio a cavallo? E qual è la vera storia del Cet, la celebre scuola di musica umbra in cui i due incrociarono i destini? È un libro prezioso, in cui Mogol, stimolato da un giornalista come Claudio Sabelli Fioretti, fornisce una propria visione – necessariamente parziale, ma apparentemente sincera – della vita e dell’opera dell’ormai leggendario duo Battisti-Mogol.

RENZO STEFANEL
Anima Latina – Lucio Battisti
NoReply Editore
[Milano, 2009, 400 pag., 14,00 euro]

“No, non è che siamo a corto di argomenti. Ce n’è di dischi e artisti di cui parlare. Ma Lucio è uno di quelli su cui tornare più e più volte. Quasi ogni suo disco meriterebbe un retroterra, dato che è il nostro Beatle. E come i favolosi quattro è ogni giorno svilito e bestemmiato dai babbioni che possiedono i media e ci fanno ascoltare le solite dieci canzoni. Invece in Battisti ruggiva feroce lo spirito di uno sperimentatore avanguardista e popolare al tempo stesso, capace di reinventarsi continuamente fino all’ultimo, a un’età – quella in cui ci ha lasciato – in cui molti hanno tirato i remi in barca da un quindic’anni buoni. “Anima Latina” è il vertice massimo della sua sperimentazione anni 70, e con ogni probabilità il suo capolavoro di quel decennio (e forse non solo suo). Un disco che mostra una decisa influenza del prog, che nel 74 stava tirando gli ultimi, come si dice qui. Ma Battisti era Battisti. E il prog di “Anima Latina” è un prog a modo suo, inedito, che non ascolterete da nessun’altra parte. Perché – come da titolo – mostra una decisa influenza della musica latino-americana, eredità di un viaggio di venti giorni in Brasile e Argentina col fido Mogol. Ed è un’influenza che trova motivazioni artistico-politiche: “Con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolto in questi ultimi anni andavamo perdendo, proprio noi mediterranei più di tutti, lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti, ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’Amerika, dei frigoriferi e dei consumi. L’America Latina mi ha scosso da certi torpori, ma già da qualche anno avevo dentro un senso di rivolta, sentivo che la strada giusta non è quella degli altri, che la cultura degli altri può violentarci, sopraffarci, ma non potrà mai diventare ‘nostra’. […] Con la musica brasiliana, argentina, ecc., ho sottolineato questi stati d’animo, ma in pratica ho recuperato il mio stesso spirito creativo mediterraneo, latino come e forse più di quello sudamericano”. Vabbè, se pensiamo a come ancora oggi stiamo a dibattere, in queste paludi, su una via nazionale al rock… Ma poi Battisti ci mette le mani su ’sto mondo latino: lo riempie di influenze che vanno dall’Erik Satie delle “Gymnopédies” (”Abbracciala, abbracciati, abbracciali”) allo Charles Ives delle “Songs” (”Il salame”), dal rhythm’n’blues dei Blood, Sweat & Tears al funky feroce di James Brown, dal country della West Coast e del suo adorato Neil Young a strizzatine d’occhio ai compagni di etichetta (e suoi dipendenti, quindi) Premiata Forneria Marconi. Frulla tutto a modo suo, immettendoci robuste dosi del suo stile e della recente passione per l’elettronica, e scodella. E quel che ne esce ha del vertiginoso: “Abbracciala, abbracciati, abbracciali” pare un pezzo dei Massive Attack, in anticipo di vent’anni. Ma sul serio. È già trip hop senza saperlo. “Due mondi” preannuncia la cassa in quattro della disco (ancora underground), precipitandola in vortice psichedelico di ricami strumentali, sezioni di fiati, acuti tenorili, assoli sfrenati e turbinosi che sfumano lasciando il posto all’elettronica bucolica di “Anonimo” con quella tastiera che Dio bono ora sembra gli Air o quegli stravolti krautrockers dei Popol Vuh. E poi quel finale bandistico che piglia per il culo la sua “I giardini di marzo” a sottolineare che lui non è più quello di prima, no, e vuole “l’azzeramento di una personalità monumentale” come dirà in una celebre intervista. E già, perché tutto l’album, come e più dei precedenti “Il mio canto libero” e “Il nostro caro angelo” è uno stacco netto dai Mogol-Battisti cantori d’amore, con Mogol scatenato a distruggere l’istituzione famiglia e giù a proclamare la necessità filosofica dell’amore libero, con tanto di allusioni massicce ed ermetiche a Nietzsche. Roba che oggi al cardinal Bagnasco piglia un coccolone. Proprio “Gli uomini celesti” spara a zero su politica, religione, famiglia e ci traghetta, dopo due alternate take di se stessa e “Due mondi”, nel cuore della title track, forse il più bel testo di Mogol, sottilmente antiamerikano, brano musicalmente bellissimo, che coglie l’essenza profonda del Brasile evitando ogni luogo comune. Dopo l’impressionismo avanguardista de “Il salame”, con spunti di musica concreta e anticipazioni delle produzioni anni 80 con Panella, arriva la serratissima “La nuova America”, incredibile pout pourri di stili. La varietà ritmica di “Macchina del tempo”, cuore del disco, finale che intreccia a leitmotiv spunti da tutto l’album, introduce al conclusivo bordone elettronico di “Separazione naturale”, con cui si sancisce la fine della coppia. Album da non credere. Impossibile da raccontare. Che spinge a vertiginosi riascolti. E lascia annichiliti. Se non l’avete, non avete idea di cos’è il rock italiano.

(Speciale Lucio Battisti di Luigi Lozzi per © Musicletter.it – 2011)


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