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NON SI SEVIZIA UN PAPERINO di Lucio Fulci (1972)

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Dopo una lunga stagione nella commedia vieppiù musicale, il più grande “terrorista” del cinema italiano esordisce nel thriller con la rivisitazione hitchcockiana di “Una sull’altra” – che è omaggio a “La donna che visse due volte” – per delineare con il successivo “Una lucertola con la pelle di donna”, gli elementi di una poetica dello straniamento volta alla destrutturazione degli stilemi tradizionali del “genere” filmico. Con “Non si sevizia un paperino“, uscito nel 1972, il rimescolamento operato da Lucio Fulci è completamento riuscito: demolire il senso stesso del thriller , “contaminandolo”, dunque, con l’incubo, con l’inspiegabile, con la rappresentazione iper-realista di immagini scioccanti e ossessivamente disturbanti. Contrariamente alla raffinata linearità del Dario Argento della trilogia animale, a Fulci non importa nulla della “plausibilità matematica del giallo”, della costruzione congrua di quei meccanismi di causa-effetto che costituiscono l’architrave narrativa del thriller perché per questo (straordinario) autore (a dispetto di quanti lo hanno sempre e solo considerato un modesto artigiano) è fondamentale, al contrario, che quel meccanismo s’inceppi determinando uno stato di confusione (anche allucinatoria, certamente ai limiti della follia) che intersechi il reale con il sogno, il non-visibile, l’immaginato o l’impossibile. “Non si sevizia un paperino” è in questo senso perfetto nella sua intrinsecamente voluta imperfezione matematica (e, forse, per questo fu tanto caro al maestro): Fulci confeziona una storia in cui la ricerca del responsabile di una catena di delitti di bambini fallisce proprio nel momento in cui sembra che sia riuscita alimentando, quindi, l’angoscia e lo spaesamento e, nel frattempo, altri dubbi sono stati disseminati, altri possibili significati individuati. Il fastidio per un sud superstizioso e arretrato che avvilisce la dignità di chi lo abita e che mortifica la modernità, i bambini vittime (due volte) della terribile ignoranza e della povertà che ci stringono il cuore in una morsa di pietà dolorosa ma che, al contempo, replicano i comportamenti “corrotti” degli adulti per sovraesposizione al male che li circonda – la morte a cui sono condannati ci appare quasi l’inevitabile contrappasso all’idea del peccato introdotta da Fulci – la violenza come tratto distintivo e fondante della storia umana nell’orribile e disturbante linciaggio dell’innocente masciara/fattucchiera del paesello (un vero e proprio collasso di senso sulle note della Vanoni e di certo una delle scene più intense della storia del cinema italiano), il personaggio del prete che istituzionalmente custode della purezza e dei valori morali della comunità si rivela, al contrario o proprio per questo motivo, feroce assassino nel “folle” progetto di preservare la purezza infantile…Un geniale “pastiche”, dunque, che non mescola i generi ma li smonta grazie soprattutto alla magistrale spregiudicatezza stilistica di Fulci che inizia la messa a punto delle proprie angoscianti soluzioni tecnico-registiche (uso costante di primi piani e di zoom, montaggio veloce a serrare il ritmo…) che troveranno la loro compiutezza negli altri successivi capolavori (in specie horror). Un film che nella sua visionarietà disturbante pone inquietanti interrogativi sul senso stesso della storia umana individuando alla fine, coerentemente con la poetica della crudeltà e del nichilismo di Fulci, un unico vero e solo colpevole: il male. Misterioso, oscuro, inspiegabile: un buco nero della coscienza che determina implacabile il dolore e la morte. (Nicola Pice)

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