La vita è fatta di scoperte, non c’è niente da fare. Nella vita di ascoltatore non c’è mai stato niente di comparabile alla sensazione di un disco di un’artista che non conosco o conosco poco per sentito dire, che si manifesta improvvisamente con modalità inattese, come qualcosa che fa vibrare esattamente le corde che si custodiscono nelle parti più nascoste dell’anima. È il caso di questo splendido disco di Nina Pedersen, meravigliosa interprete di una musica di evocativa potenza ancestrale e meravigliosa perizia tecnica e gusto. Sento una profondità quasi vertiginosa, in questo disco passato da amici in maniera quasi casuale e ritrovato, per incanto, al centro nevralgico dei miei ascolti, violentemente disordinati. In questa prova a proprio nome la norvegese “oriunda italiana” Nina Pedersen trascende il significato stesso di disco “etnico”, applicando una patina di jazz freddo come il ghiaccio a strutture che oseremmo definire “folk” nel senso più ancestrale del termine: fatta esclusione per i due inediti a sua firma, la scaletta è interamente composta di canzoni tradizionali norvegesi, caratteristica questa che riveste il viaggio musicale di una solida patina di “eternità”. Intorno ad un vocalismo austero, mite e sottilmente disperato, che sembra provenire da una dimensione di spazio e di tempo diversa (e migliore) di quella che abitiamo, si avvolgono sinuose tessiture strumentali (percussioni, basso, tromba, violino, chitarre) di sapore inequivocabilmente jazz “nordeuropeo” (Arve Henriksen, Nils Petter Molvaer, i primi nomi che vengono alla mente, ma anche il Miles Davis più contemplativo e sperimentale), ma che spesso “sconfinano” in territori “altri” (Talk Talk, il David Sylvian più quieto, addirittura i Supersilent e la solennità dei Dead Can Dance più austeri). Non c’è alcun senso nel citare un brano piuttosto che un altro, e anche i due inediti sono perfettamente calati nel contesto, non spezzando affatto la continuità onirica e malinconica della narrazione, che genera una sorta di magia della sospensione del tempo e dello spazio: la ritualità pagana contenuta nelle strutture viene trasportata in un dimensione elegante e fatata, ma non al punto di perdere i suoi connotati di solenne cerimonia, officiata con consapevolezza ed un velo di speranza che spezza la preponderante vena malinconica da un’artista superba, che forgia un linguaggio compiuto ed ineccepibile e riporta l’Uomo, metaforicamente, al suo primo alito di vita. Disco commovente. (Valerio Granieri)
Un attimo di pazienza, la pagina è in fase di caricamento. Ricaricare se non appare nulla.
Se vuoi segnalarci un errore o dirci qualcosa, utilizza questo form. Se invece ti piace quello che facciamo, clicca qui e supportaci con una piccola donazione via PayPal, oppure acquista su Amazon il nostro utile quaderno degli appunti. Grazie.