Il primo libro di teoria dei media, a cura di Ruggero Eugeni per Einaudi, raccoglie e ordina le principali teorie dei media: dalla mediologia classica alla riflessione filosofica contemporanea su algoritmi, estetica e tecnologie digitali. Un’opera di riferimento per comprendere i media oggi.
Il primo libro di teoria dei media (cover)
Nel panorama degli studi sui media, la pubblicazione de Il primo libro di teoria dei media, curato da Ruggero Eugeni per Einaudi, segna un momento di sintesi e riorganizzazione del sapere mediologico. Il volume raccoglie e sistematizza, per la prima volta in modo organico, le principali teorie che hanno analizzato il rapporto tra comunicazione, cultura e tecnologia nel corso di oltre un secolo, fino ai più recenti sviluppi legati all’intelligenza artificiale e alla condizione algoritmica. Con un approccio interdisciplinare, Eugeni invita il lettore a superare una visione riduttiva dei media — intesi come semplici canali di trasmissione — per comprenderli come sistemi complessi, capaci di modellare la percezione, il pensiero e l’esperienza umana. Il libro è articolato in quattro grandi aree: mediologia classica, mediologia critica, mediologia discorsivista e mediologia filosofica.
La mediologia classica nasce nella prima metà del Novecento con l’obiettivo di studiare i media come istituzioni sociali e culturali. Da Walter Lippmann a Harold Lasswell, le prime ricerche si concentrano sul ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica e nei processi di persuasione politica. Negli anni successivi, la prospettiva si evolve con Paul Lazarsfeld ed Elihu Katz, che introducono il paradigma degli usi e gratificazioni, sottolineando la dimensione attiva del pubblico nella fruizione dei contenuti. Oggi, queste teorie tornano di attualità nel contesto digitale, dove la profilazione algoritmica, la disinformazione e la personalizzazione dei contenuti rilanciano la questione dell’influenza dei media sulla società e sulla costruzione del consenso.
La mediologia critica si sviluppa a partire dalle riflessioni della Scuola di Francoforte. Adorno, Horkheimer, Benjamin e successivamente Debord e Habermas pongono al centro l’analisi del potere dei media nella società di massa, come strumenti di produzione ideologica e controllo sociale. Negli anni Sessanta e Settanta, gli Studi culturali britannici ridefiniscono il concetto di cultura, introducendo l’idea di un pubblico capace di rielaborare i messaggi mediali e resistere all’omologazione. Con l’avvento delle reti digitali, la mediologia critica si estende alla riflessione sui media partecipativi, sulle pratiche di fan culture e sulla crescente concentrazione del potere nelle grandi piattaforme globali.
La mediologia discorsivista nasce dall’incontro tra semiotica, analisi del linguaggio e teoria dei media. A partire dagli studi di Roland Barthes, Christian Metz e Gianfranco Bettetini, si afferma l’idea che i media non si limitino a produrre enunciati, ma progettino vere e proprie esperienze di interpretazione. L’enunciazione – il modo in cui un testo o un film si rivolge al suo pubblico – non solo genera significati, ma implica regole di lettura e reazioni emotive. Un personaggio che mostra orrore o stupore, per esempio, orienta lo spettatore a provare la stessa emozione. In questa prospettiva, la sociosemiotica studia come i media riescano a manipolare percezioni, saperi, credenze ed emozioni del fruitore, spiegando come l’efficacia comunicativa si realizza a partire dai materiali stessi dei media. Accanto a questa linea, la discursive analysis anglosassone – e in particolare l’analisi critica del discorso – si concentra sulla decostruzione dei testi mediali per rivelarne gli impliciti ideologici. Negli anni Ottanta, la discourse analysis privilegia gli aspetti verbali, mentre i visual culture studies, inaugurati da W. J. T. Mitchell con Iconology (1986), spostano l’attenzione sulle immagini e sulla loro forza espressiva. In Italia e in Europa, studiosi come Nicholas Mirzoeff (Introduzione alla cultura visuale, 2009) hanno contribuito a consolidare questa prospettiva, oggi centrale negli studi sui media visivi. Queste correnti si intrecciano con i feminist, gender, race e postcolonial studies, che applicano la decostruzione discorsiva per mettere in luce le dimensioni patriarcali, razziali o coloniali presenti nei testi mediali. Con l’arrivo dei media digitali, la mediologia discorsivista si confronta con nuove forme di testualità: dai meme ai grandi universi narrativi crossmediali. Henry Jenkins, nel suo Cultura convergente (2006), definisce queste narrazioni “espansive”, capaci di svilupparsi su più piattaforme – cinema, televisione, fumetto, videogiochi – attraverso processi di intertestualità, intermedialità e crossmedialità. Jay David Bolter, già nel 1991, introduce il concetto di ipertesto, una struttura non lineare che consente all’utente di partecipare attivamente alla costruzione narrativa, aprendo la strada a forme di narrazione interattiva e immersiva. In Remediation (1999), Bolter e Richard Grusin propongono inoltre la nozione di rimediazione, secondo cui i media si riproducono e si reinterpretano l’uno nell’altro. Lev Manovich, in I linguaggi dei nuovi media (2002), definisce il computer un meta-medium, capace di incorporare e trasformare tutti i media precedenti.
La mediologia filosofica amplia il discorso, collocandosi tra estetica, filosofia della mente e filosofia della tecnologia. Dalla Scuola di Francoforte alle riflessioni contemporanee, emerge la domanda se una filosofia dei media possa sostituire o integrare la teoria dei media tradizionale. Un punto di partenza fondamentale è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin (1935–1939), che individua nel cinema e nei nuovi media forme inedite di esperienza sensibile. Rudolf Arnheim, con Film come arte (1932), teorizza la specificità estetica dei media tecnici, mentre Rosalind Krauss, in L’arte nell’era postmediale (1999), contesta l’idea di “specificità mediale”, sostenendo che l’arte contemporanea reinventa i media e le tecnologie. Da questa prospettiva nascono forme ibride come la digital art, la net art, la game art e le esperienze artistiche di realtà virtuale, in cui la tecnologia diventa veicolo di libertà creativa. L’estetica dei media, intesa come “scienza dell’esperienza”, incontra poi le scienze cognitive (Bordwell e Carroll, Post-Theory, 1996) e le neuroscienze (Gallese e Guerra, Lo schermo empatico, 2015), che studiano l’esperienza spettatoriale nelle sue dimensioni percettive, emozionali e motorie. Un’altra linea di ricerca, sviluppata dall’antropologia filosofica, esplora il ruolo delle immagini nella costituzione del reale e dell’immaginario. Edgar Morin, in Il cinema o l’uomo immaginario (1956), mostra come il “pensiero magico” continui ad agire nei processi di identificazione mediale, una riflessione ripresa da Raymond Bellour (Le Corps du cinéma, 2009). Queste prospettive illuminano anche il legame tra media e memoria culturale, ossia la costruzione collettiva del ricordo attraverso le immagini. La riflessione ontologica sul reale – da André Bazin a Jean Baudrillard, Niklas Luhmann e Mark Hansen – interroga la capacità dei media di rappresentare o sostituire la realtà. Le tecnologie di realtà virtuale e aumentata, osserva Roberto Diodato (Estetica del virtuale, 2005), non cancellano il reale ma ne offrono una nuova esperienza incarnata e riflessiva. Andrea Pinotti, in Alla soglia dell’immagine (2021), parla di “an-iconicità”: l’immagine come spazio di presenza più che di rappresentazione. Infine, la filosofia della tecnologia – da McLuhan a Kittler – interpreta i media come protesi cognitive e sensoriali. Le teorie ecologiche contemporanee esplorano l’adattamento reciproco tra tecnologia, cultura e ambiente. François Albera e Maria Tortajada (Il dispositivo non esiste!, 2010) evidenziano la componente culturale della tecnologia, mentre Bernhard Siegert (Cultural Techniques, 2015) mostra come griglie, filtri e strumenti siano dispositivi di mediazione culturale. Questa prospettiva confluisce nell’archeologia dei media (Jussi Parikka, 2012) e negli studi sugli ambienti mediali (Pietro Montani, 2018), fino alle ricerche più recenti sull’antropologia degli schermi (Carbone e Lingua, 2023) e sulle atmosfere di proiezione (Giuliana Bruno, 2022). John Durham Peters, nel suo The Marvelous Clouds (2015), spinge oltre: gli ambienti naturali stessi – aria, acqua, fuoco, terra — sono i primi media dell’esperienza umana.
Con questo lavoro, Ruggero Eugeni propone non un semplice manuale, ma una vera e propria enciclopedia del pensiero mediologico. Dalla stampa al digitale, dal cinema alla realtà virtuale, il Primo libro di teoria dei media offre al lettore strumenti concettuali per interpretare i processi di comunicazione che strutturano il mondo contemporaneo. È un invito a comprendere i media non come oggetti tecnici, ma come forme di vita, esperienze e dispositivi cognitivi che plasmano la nostra percezione del reale. (La redazione)
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