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Lou X – La realtà, la lealtà e lo scontro – 1998 | Recensione

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Ossessivo e claustrofobico. E artigianale fino al paradosso, nonostante fosse destinato a una major, La realtà, la lealtà e lo scontro è il disco che Lou X progetta dopo aver accettato di uscire dall’ombra e salire sul palco del Primo Maggio (nessuno del pubblico a casa se ne accorgerà, visto che sarà l’unico a non essere ripreso dalle telecamere) e ad aprire la data romana per i Cypress Hill.

Il terzo e ultimo album del rapper abruzzese è un disco inquieto e carico di pessimismo e brutti presagi, nonostante la sfavillante copertina che adesso il tempo ha pesantemente ingiallito e che questa nuova ristampa restituisce agli antichi, accecanti splendori. Allestito da Lou X stesso per quanto riguarda le basi e spartito in rima con il cugino C.U.B.A Cabbal, fiero “compagno di branco” dentro la Costa Nostra, la crew del granchio adriatico.

I due inediti dell’epoca, negati all’ultimo momento da Patty Pravo che aveva dapprima concesso i campionamenti di Sentimento e di …e tornò la primavera rimangono tali, perché il tempo scorre ma il dissenso continua a fare paura e ai discografici non interessa intentare guerre con nessuno.

La scaletta rimane dunque pressoché identica a quella di quel lontanissimo 1998. Canzoni dalle rime fittissime innestate dentro basi ripetitive fino al parossismo. Nonostante il logo del granchio faccia bella mostra di sé sul cappellino del rapper di Pescara e la Costa venga glorificata in rima più di una volta, sul disco si respira una solitudine immensa, preludio a quell’isolamento in cui Lou X si confinerà non appena il disco arriva sugli scaffali dei negozi, rinunciando a ogni tipo di promozione e dileguandosi nel nulla, probabilmente schifato dall’ingranaggio del music-business, forse solo deciso a portare l’ermetismo che si respira pesante sul disco fino alle estreme conseguenze di un eremitaggio fisico e psicologico.

Chi gli stava vicino in quell’ultimo perimetro labirintico e onirico che fu La realtà, la lealtà e lo scontro lo ricorda impassibile, estraneo a ogni cosa, privo di qualsiasi sorriso, di qualsiasi gesto di clemenza. “Tutto quello che ho da dire, l’ho detto sul disco” dichiarerà, evasivo, ai discografici della BMG una volta presentato l’album nei loro uffici. Poi, avrebbe chiuso quella porta per sempre (tornerà, molto ma molto timidamente, millenni dopo, nascosto fra le tracce degli amici Aban).

Un disco che è un testamento, come di chi si approssima alla morte. Canzoni pese, che se le immagini lunghe appena qualche minuto in più, sai già che non riusciresti a sopportarle. Un lavoro fatto e pensato per non vendere una sola copia in più di quante ne potrebbe vendere agli amici, a chi crede al suo messaggio, al suo cupo livore, alla sua necessità di non omologarsi, di sputare in faccia allo Stato e alle sue sentinelle.

Le nuove canzoni girano su campionamenti bizzarri (le inquietanti gemelle di Shining, Fabrizio De André, i Bauhaus), quasi totalmente prosciugate dal funk, mescolate a piccole aperture mediorientali (che C.U.B.A. esplorerà ancora, ad esempio sul suo The Dervish Made Me Do It), canti da opera e sordide arie da bettola, da cantina “cafona”, da sagra paesana. Insomma, come dice lui sulla straniante Il mattino ha l’oro in bocca: “se cerchi distrazione, non è canzone”.

Lou X va via con un disco circonvesso su se stesso, un disco che non cerca scorciatoie verso quel successo che in molti bramano e che in effetti molti raggiungono. Semplicemente, non gliene fotte un cazzo.
Può andare in giro a tirar fuori i granchi dalle insenature degli scogli, scendere giù al mercato a scegliere il pesce per il cacciucco. Calarsi il berretto sin sugli occhi. Esagerare, calarselo fin sul mento. E scegliere di non parlare più neppure con se stesso. (Franco Dimauro)

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