Sergio Secondiano Sacchi ci parla del Club Tenco e della canzone d’autore italiana

In occasione dell'edizione 2021 del Premio e delle Targhe Tenco, abbiamo pensato di fare due chiacchiere con Sergio Secondiano Sacchi, il responsabile artistico del Club.

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Architetto appassionato di musica nonché autore e curatore di diversi libri su artisti come Vladimir Vysotskij, Pablo Milanés, Lluís Llach e Joaquín Sabina, Sergio Secondiano Sacchi è anche responsabile artistico del Club Tenco che, dal 1972, si propone di valorizzare la canzone d’autore italiana in nome di Luigi Tenco.

In occasione dell’edizione 2021 del Premio e delle Targhe Tenco, abbiamo pensato di rivolgergli qualche domanda sulle attività del Club e, naturalmente, sulla canzone d’autore italiana. Buona lettura. (La redazione)

Intervista a Sergio Secondiano Sacchi© di Luca D’Ambrosio

Sergio Secondiano Sacchi (foto di Roberto Molteni)

Dal 1972 il Club Tenco si propone di valorizzare la canzone d’autore italiana in nome di Luigi Tenco. In qualità di responsabile artistico del Club, può dirci cosa rappresenta per la musica italiana la figura di Luigi Tenco e qual era il suo messaggio?

Poiché, come non proprio tutti sanno, il Club Tenco non è un fan club, la valorizzazione della canzone d’autore viene da sempre fatta indipendentemente dalla figura di Tenco. Che, senza per questo assumere il ruolo di riferimento principale, rimane comunque uno dei cantautori più importanti del rinnovamento della canzone italiana all’inizio degli anni Sessanta. Purtroppo la morte prematura non ci ha permesso di conoscere quale sarebbe stata l’evoluzione della sua arte. Attenzione, però, non è detto che sarebbe diventato un cantautore famoso: la sua andata a Sanremo, proprio alla vigilia del Sessantotto, probabilmente non avrebbe favorito questo suo obiettivo. Negli immediati anni Settanta la ventata di rinnovamento ha offuscato tutti quei cantautori cresciuti nelle grandi manifestazioni televisive, da Paoli, rimasto per quasi vent’anni in penombra e rilanciato solo nel 1991 dal successo di Quattro amici al bar, a Endrigo, progressivamente scomparso dalle luci della ribalta malgrado un repertorio di altissimo livello, allo stesso Jannacci. Mentre Gaber si è fatto in disparte dalla scena nazional-popolare inventandosi il teatro canzone, si sono imposte le nuove generazioni dei Guccini, Vecchioni, De Gregori, Dalla, Conte. Degli esponenti della vecchia guardia sono emersi quelli rimasti fino ad allora un po’ in disparte come De André, che non aveva mai cantato in pubblico, e Lauzi (che però ha conquistato i grandi successi soprattutto nel ruolo di interprete grazie al duo Mogol-Battisti e all’emergente Paolo Conte, alla cui scoperta ha comunque contribuito).

Può raccontare ai nostri lettori, soprattutto ai più giovani, quali sono – a oggi – le attività del Club Tenco?

Sono molteplici e non coinvolgono solo l’aspetto spettacolare. Innanzitutto, e naturalmente mi riferisco all’attività standard pre-covid, ogni edizione del Tenco non è costituito soltanto dalla Rassegna che si tiene al Teatro Ariston: durante quei quattro giorni (dal 2018 il Tenco comincia il mercoledì con una master class mattutina per le scuole) si svolgono le attività pomeridiane nella sede della ex-stazione. Qui si discute e i dibattiti sono arricchiti da interventi musicali e poi, nel tardo pomeriggio, ci sono gli spettacoli monotematici all’ex-chiesa di Santa Brigida nel quartiere della Pigna, la città vecchia.

Poi, per quanto riguarda Sanremo, l’attività in sede prosegue tutto l’anno con una ventina di eventi (concerti, mostre, presentazioni di libri di spettacoli) e ci sono una decina di incontri con le scuole. Il constante rapporto con le scuole, di cui andiamo molto fieri, si svolge in due direzioni: quello della “alternanza scuola-lavoro” con gli istituti superiori e quello dell’attività formativa con le università.

Si gestisce, inoltre, il patrimonio discografico ed editoriale, costituito in gran parte dal lascito di Mario De Luigi, personaggio storico del Club, composto da quasi 20.000 dischi, tra vinili e cd, 25.000 riviste del settore e circa 1.500 libri. Questo per quanto riguarda Sanremo.

Ci sono poi i Tenco Ascolta, disseminati in tutta Italia e il cui numero è in costante aumento. Si tratta di spettacoli che danno soprattutto voce al cantautorato locale. Basti pensare che, in un anno difficile come questo, ne sono finora previsti tre in Liguria, due in Toscana, e uno in Piemonte, Abruzzo, Basilicata e Catalogna. Qui, infatti, opera da dieci anni Cose di Amilcare (da Amilcare Rambaldi, fondatore del Tenco) che organizza a Barcellona quasi una decina di avvenimenti l’anno.

E poi dulcis in fundo, grazie alla collaborazione con la romana Squilibri, c’è una constante attività discografica ed editoriale con la collana dei Libri del Club Tenco.

Cosa deve fare un giovane cantautore per farsi notare dal Club?

Quel che si è sempre fatto: far pervenire alla dirigenza del club le proprie opere. Negli ultimi quattro anni, per di più, si è creata un’opportunità ulteriore, una piattaforma in cui caricare i propri dischi per autocandidarsi all’assegnazione delle Targhe Tenco nella sezione “opera prima”. Questo consente di poter fare ascoltare i propri lavori anche, e soprattutto, ai trecento giornalisti giurati. Si tratta di un’opportunità concessa soprattutto a chi non può permettersi un ufficio stampa qualificato.

Al di là del periodo complicato e drammatico che il Pianeta sta attraversando, quali sono le difficoltà maggiori che riscontrate nel portare avanti le vostre attività?

Quelle di sempre, che derivano dalle ristrettezze economiche. Un’organizzazione come la nostra, basata esclusivamente sul più rigoroso volontariato per cui anche i dirigenti pagano la quota di associazione, deve far fronte a costi non indifferenti per cui è costretta a vivere costantemente in apnea e a stare attenta anche alla più piccola spesa per poter far quadrare i conti. C’è però da dire che negli ultimi anni i rapporti con le istituzioni sono decisamente migliorati e si è riusciti non solo a tagliare dei costi fissi, ma anche a coinvolgere le associazioni di categorie locali. Anche perché il Tenco è uscito dallo stupendo bunker dell’Ariston per vivere anche la realtà cittadina. Basti pensare al 2019 con la spettacolare performance Son et lumière di Marco Nereo Rotelli sulle mura dell’ex-carcere di Santa Tecla, che è stato anche sede di una sua esposizione pittorica dedicata proprio alla canzone d’autore.

Che tipo di risposta avete dal pubblico e dalla stampa specializzata?

Dopo anni di crisi, ci si sta riprendendo in maniera significativa. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto un incremento di pubblico pagante quasi del 60% e la presenza della stampa si è fatta decisamente più massiccia. Anche le testate nazionali ci riservano spazi e la nostra credibilità è aumentata e il presidente Sergio Staino, è in constante rapporto con enti e associazioni e organi di informazione. Nel 2020 siamo tornati nuovamente in televisione e contiamo di mantenere con la RAI un contatto sempre più stretto. Perfino le case discografiche maggiori si interessano ora alle Targhe candidando i loro dischi.

Avete in mente di apportare qualche novità?

Nella struttura della manifestazione no, almeno per il momento. Vogliamo semplicemente arricchirla di iniziative e proseguire il cammino intrapreso ultimamente, quello di privilegiare la progettualità. Non per niente abbiamo introdotto anche una sesta targa, quella riservata ai dischi collettivi su un argomento unificante. Del resto, ora la manifestazione stessa ha sempre un tema caratterizzante e ogni partecipante viene da noi selezionato proprio in virtù di esso.

Le Targhe Tenco sono anche un’alternativa a Sanremo?

Direi proprio di no, anche per le loro diverse caratteristiche. Al Festival, si premiano canzoni in grado di catturare l’interesse dell’ascoltatore nell’arco di pochi minuti. Da noi, si premiano dischi la cui uscita copre l’arco di dodici mesi. Sono due logiche completamente diverse.

Qual è il vostro rapporto con il Festival della canzone italiana?

Ci si ignora, direi, pur portando molto rispetto (almeno da parte nostra sicuramente). Del resto una struttura storica come quella del Festival non la si può certo ignorare o liquidare con snobistica sufficienza. Per di più si tratta di una competizione che, negli ultimi anni, è stata anche in grado di catturare progressivamente l’interesse del cantautorato storico, quello che ha sempre trovato nel Tenco il proprio riferimento privilegiato, e spesso unico. Porsi in concorrenza col Festival nel contendersi gli artisti sarebbe perlomeno stupido, anche perché a livello mediatico ne usciremmo perdenti. Nella manifestazione invernale anche la qualità non manca di certo. Quello che ci può invece differenziare e qualificare in maniera significativa è una progettualità culturale totalmente assente nel Festival che ha, invece, ben altri obiettivi e logiche. Loro sono una gara, noi no.

In quale direzione sta andando la canzone d’autore italiana?

Apparentemente in tantissime direzioni, ma ho i miei dubbi che conducano lontano. Attualmente non esiste un vero e proprio movimento e, da un punto di vista artistico, mi sembra di avvertire, sia un inconsapevole senso di autosufficienza che una grande mancanza di stimoli. La curiosità non sembra venire sollecitata, malgrado Internet permetta di venire a contatto con la musica dell’intero pianeta. In questi periodi non manca solo il talento dei vari Conte, Guccini, De Gregori, De André o Battiato, ma soprattutto la loro sete di conoscenza e la loro cultura capace di spaziare fino alle radici del jazz, della musica classica o di quella popolare. Nella loro produzione era avvertibile l’eco di evocazioni lontane, sia musicali che poetiche. Ed era avvertibile anche in quella di cantautori magari non altrettanto talentuosi, ma sicuramente assai stimolanti.

L’influenza di questi capiscuola è stata tanto marcata da ispirare intere generazioni di aspirante cantautori. Un tempo capitava che arrivassero non poche cassette di giovani che ci proponevano le proprie composizioni senza magari nemmeno rendersi conto di essere dei veri e propri cloni (Paolo Conte lo si scimmiottava con ritmi swing in cui si infilavano temini d’antan come parquet o elisir),

Ora non più. Apparentemente potrebbe sembrare un fatto positivo ma, in realtà, è la certificazione dell’assenza di paradigmi. Una testimonianza dell’attuale impoverimento culturale sta, infatti, anche nella scomparsa dei maestri, negli ultimi vent’anni non c’è nessuno che sia riuscito a diventare un punto di riferimento, ci si ferma a Capossela e a Silvestri e questo la dice lunga. E, non per niente, anche in questi casi si tratta di personaggi di ampia curiosità e di irresistibile capacità di attingere alle esperienze musicali di tutti i continenti

Certo, oggi esistono ancora alcune personalità di notevole estro e di grande personalità, musicalmente bulimici, che sono in grando di spaziare all’interno delle più svariate aree musicali come Bollani, Morgan, Elio. Ma costoro sono tanto marcatamente legati alle loro funamboliche doti sceniche da non poter diventare modelli stilistici veri e propri o fonte d’ispirazione. La loro arte finisce per esaurirsi in loro stessi.

Una seconda indicazione di pigrizia mentale generalizzata ci viene dalla scomparsa della traduzione, quasi come quella delle lucciole per Pasolini. Significa un disinteresse per tutto ciò che avviene fuori di noi. Dov’è finita la traduzione su cui si sono sempre formati quasi tutti i nostri migliori autori di testi come Calabrese e Bardotti, ma anche cantautori della prima generazione come Paoli, De André e Lauzi, e della seconda come Guccini, Vecchioni e Fossati? Non si tratta solo di un salutare esercizio tecnico, ma di un’immersione nelle esperienze altrui alla ricerca di linguaggi poetici e musicali ricchi di suggestioni. Ci si appiattisce sempre sui soliti modelli anglofoni, c’è un covid della curiosità che costringe in quarantene culturali proibendo di mettere il naso a Mentone o a Chiasso, di andare al di là del Brennero o di Opicina. Ci vorrebbe una green pass musicale. C’è forse un solo cantautore francese, spagnolo, portoghese o latino-americano presente nel nostro mercato? Ci è forse noto il nome di un cantautore dell’Est Europa? Eppure si tratta di zone musicalmente molto, ma molto, più vivaci della nostra. I casi di Francesco De Gregori o Alessio Lega restano purtroppo casi isolati, finiscono per non fare testo.

Sono pochi coloro che tendono ben tese le antenne, non viviamo certo uno dei momenti più felici, inutile illudersi che spunti all’orizzonte prossimo una stagione di fioritura. Una Harlem Renaissance non nasce dal nulla, nel nostro ghetto bisogna innanzitutto creare occasioni di confronto tra linguaggi artistici diversi (e non mi riferisco solo a quelli musicali). Il compito del Tenco è quello di costruire opportunità e di organizzare il confronto, non certo quello di distribuire, con pontificale autoreferenzialità, patenti di cantautorato.

Qual è il futuro? Mi è difficile rispondere, non ho mai imparato a leggere i fondi del caffè…

(Articolo coperto da copyright. Per informazioni, contattare l’editore di questo blog.)


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